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Mostra Re-cycle, MAXXI Architettura, recensione di Valerio Paolo Mosco

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Ogni epoca ha i suoi verbi. Riciclare è sempre più un verbo dei nostri tempi. Nonché in passato non si fosse riciclata dell’architettura, anzi. Roma è un esempio lampante di una pratica antica: una città che nel suo centro storico è un grande allestimento di riciclo di colonne, capitelli, lastre di marmo romani. “Quod non fecerut barbari fecerunt Barberini”, ciò che non sono riusciti a fare i barbari l’hanno fatto i Barberini con le loro spoliazioni dei Fori. Un detto del passato, non più valido: i nuovi Barberini infatti, i nuovi riciclatori, poiché non devastano i monumenti e sono politicamente corretti, si meritano una mostra al Maxxi di Roma, tra l’altro una mostra che fino ad oggi è la migliore del noto museo romano, questa volta curata da Pippo Ciorra con Sara Marini, Mosè Ricci e Paola Viganò. La tesi, chiaramente espressa da Ciorra nel saggio nel bel catalogo edito da Electa (cura Ciorra e Marini) è che non solo il riciclo di architettura è una fenomenologia espressiva del peraltro sfuggente spirito dei nostri tempi, ma è anche una pratica rappresentativa di una maniera di vedere l’architettura e con essa il mondo. Afferma Ciorra: “l’architettura è di per sé un materiale riciclabile che tra l’altro sappiamo riciclare da sempre”, segue una frase ancor più significativa: “l’architettura è un’arte negoziabile” e, aggiungiamo noi, poichè è negoziabile il riciclo è la pratica paradigmatica di questa supposta negoziabilità.
La mostra è organizzata attraverso una pacata sequenza di progetti in cui compaiono progetti storici (toccante quello di Portaluppi del 1930 per un ristorante alpino ottenuto sospendendo su piloni una carrozza ferroviaria) con altri contemporanei: Diller e Scofidio, BIG, OTH, Mvrdv, la sempre raffinata Giuseppina Grasso Cannizzo, Lacaton e Vassal, Elisabetta Terragni, Gilles Clément, Battle i Roig ed altri ancora, tutti accomunati non solo dal tema ma anche da quella che possiamo considerare l’ideologia del riciclo. Essa si presenta come la prova provata che l’architettura, finite le grandi narrazioni dei progetti a priori, dirigisti, forti e paradigmatici, si deve occupare dei resti, non solo fisici, che ci vengono consegnati.
La tesi viaggia nell’aria ormai da decenni. Il film sul concerto di Woodstock (1969) finisce con le note distorte dell’inno statunitense interpretato da Jimi Hendrix mentre scorrono le immagini dell’enorme quantità di spazzatura che gli hippie hanno lasciato nei prati. L’estetica del riciclo parte proprio da questi rifiuti, dopo i quali ci siamo ingegnati per cercare di capire cosa poter farci, come poterli fare rivivere in maniera creativa. Il riciclo è dunque più che un programma, una pratica o meglio una tattica; essa si attua (come giustamente afferma Aldo Bonomi nel catalogo) come scelta personale, espressione in forma gentile o meno, di un dissenso generale nei confronti di un modello di sviluppo che nel rifiuto vede un monito, ma anche nei casi più estremi, il simbolo di una ineluttabile fine. L’architettura abbandonata che viene ripensata e riciclata, è quindi l’espressione di una varietà complessa di valori e come tale definisce un’estetica. La mostra, con gli scritti del catalogo, racconta con attenzione e tatto questa estetica attraverso una fenomenologia che affronta le diverse scale: il paesaggio, la città, l’architettura e il design. Qualunque estetica che si rispetti definisce delle scelte che come tali si oppongono ad altre; in definitiva qualunque estetica, per essere tale, ha bisogno di una concezione estetica opposta (Nietzsche). Così l’estetica del riciclo si oppone a quella dell’architettura pura, autonoma, pensata a priori. Se vogliamo quindi comprendere il senso della mostra romana dobbiamo mettere a confronto i progetti di riciclo con l’edificio del Maxxi, con il  contenitore della Hadid in cui la mostra è  ospitata. Da una parte appare allora il riciclo, la preferenza a re-inventare invece di inventare, il suo essere pratica a metà tra il gesto anarchico e frugale, tendenzialmente dal basso; dall’altra il dirigismo dall’alto, dello straordinario e del prestazionale.  Due interpretazioni opposte se non antitetiche quindi, un conflitto che però non produce ne guerre esplicite ne guerre fredde. Le due tendenze infatti convivono pacificamente come se l’una fosse il complemento dell’altra, come se una servisse a far sognare la coscienza e l’altra a redimerla dai suoi sogni. Va notato che l’estetica del riciclo rispetto all’altra ha in più la capacità di auto legittimare le sue forme in quanto sostenibili,  impegnate socialmente e moralmente corrette: un punto in più di non poco conto. Ma l’estetica del riciclo ha dei limiti. Il primo è quello dimensionale. Funziona infatti quando è ancora autoriale, per certi versi quando è ancora dilettante, quando cioè è il singolo che con un guizzo, da un rifiuto produce un’opera d’arte, come Picasso quando con il manubrio ed un sellino di una bicicletta di scarto aveva tirato fuori una magnifica testa di toro. Quando invece l’estetica del riciclo ha la pretesa di diventare sistema o quando incontra le istituzioni, questa freschezza velatamente anarchica, viene persa ed allora si scivola in un irritante pauperismo, purtroppo sempre presente in Italia. Alcune eccezioni però: Rural Studio negli Stati Uniti (a dire il vero poco considerati nella mostra) e quelli che possiamo considerare i maestri del riciclo: Lacaton e Vassal. Consigliamo poi un metodo per vedere i progetti di riciclo, che è quello di fidarsi dell’intuizione, più specificatamente di fidarsi di quel sesto senso che ci avverte che ciò che stiamo vedendo è autentico o se siamo di fronte ad un’ennesima messa in scena delle frustrazioni dei nostri tempi. E’ una questione di autenticità quindi, che come tale va affrontata con l’intuizione. Per dei dubbi leggere cosa dice a riguardo Heidegger sul quadro in cui Van Gogh rappresenta le sue sofferte scarpe così drammaticamente autentiche.
Una mostra densa di progetti e di significati quindi, con un ancor più denso catalogo. Per di più una mostra che non scivola nella propaganda, che non ci viene a dire che il mondo del riciclo è l’ennesimo migliore dei mondi possibili. Ripetiamo, la migliore mostra di architettura fatta finora da un Maxxi che finalmente sceglie il contemporaneo abbandonando le consolatorie mostre vintage.

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