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Roberta Amirante, Il progetto come prodotto di ricerca. Un’ipotesi, LetteraVentidue, Siracusa, 2018.
Recensione di Orfina FatigatoPDF




Nel maggio 2014 lessi con interesse (e qualche difficoltà) l’articolo Abduzione e valutazione pubblicato da Roberta Amirante sulla rivista Op. cit.; qualche anno dopo, sempre con analoga curiosità (e qualche difficoltà in meno) lessi la bozza, ormai quasi definitiva, in procinto di essere inviata all’editore, del testo Il progetto come prodotto di ricerca. Un’ipotesi di cui l’articolo che lo precede costituisce, come l’autrice sottolinea, lo stato dell’arte. In entrambi i casi, a seguito delle mie letture, ho avuto la fortuna di poterne discutere con l’autrice nel modo migliore, come spesso accade ormai da diversi anni (una quindicina più o meno), prendendo un caffè “rapido” per qualche ora. Avvezza alle tante ricche discussioni con Roberta Amirante non ho pensato in entrambe le occasioni che, a distanza di qualche tempo, mi sarei cimentata nella recensione proprio di quel testo così denso, che tanti dubbi e interrogativi in me aveva alimentato.
Non facile recensire il libro del docente che da anni, malgrado i personali percorsi, incontri e contaminazioni, rappresenta il punto di riferimento culturale privilegiato con cui confrontarsi per misurare tutte le rassicuranti vicinanze e le feconde distanze, in un generoso rapporto dialettico. Da questa mia privilegiata, ma non facile posizione, mi trovo oggi a recensire, con un misto di “gioia e lieve sgomento”, questo libro, di Roberta Amirante edito nel febbraio 2018 da LetteraVentidue, e che in maniera autentica riflette la singolare, fondata e colta, arditezza della sua autrice. Come sempre Roberta Amirante ha coraggio, o, usando una espressione a lei cara, “butta il cuore oltre l’ostacolo” che è poi in fondo un altro modo per affermare che - come lei stessa spesso suggerisce parafrasando Hölderlin – là dove c'è il pericolo cresce anche ciò che salva.
Il testo, che l’autrice assimila a un pamphlet, entra nel vivo - senza alcun indugio e con una chiarezza che non ammette troppe vie di fuga per tutti i dubbi che solleva - di una questione problematica rivolta ai 433 (all’epoca della stesura del testo, ora 431) ricercatori e docenti universitari del settore concorsuale 08D1 in Progettazione architettonica e urbana, che è cosi formulata:Ma il progetto può essere considerato un prodotto di ricerca? E a quali condizioni?
L’avverbio “ma” sta ad indicare prima di tutto il fatto che la domanda, non affatto scontata, segua ad un dato certo: il progetto è già stato riconosciuto come prodotto di ricerca da poter sottoporre a valutazione scientifica (per la quadriennale VQR o per le ormai quadrimestrali abilitazioni scientifiche di prima e seconda fascia). Ma malgrado il dato sia ormai stato acquisito (dopo qualche anno dall’entrata in vigore della Legge n° 240/2010) l’autrice, pur riconoscendone l’indubbio valore positivo, non dà per scontato che se ne sia, tuttavia, compreso e/o sperimentato fino in fondo il vero portato; e solleva dunque una questione “scomoda” che sembra scuotere ogni rassicurante posizione pregiudiziale, al fine di indurre a riflettere collettivamente, nell’ambito di quellacomunità disciplinare, sui “modi possibili” per riempire di significato quello stesso dato.
Il progetto può essere presentato, al pari di monografie, trattati scientifici, articoli su riviste scientifiche, etc.., per essere sottoposto a valutazione (scientifica); ma Roberta Amirante - che alla prima esperienza di valutazione della ricerca 2004-2010 ex lege ha partecipato come membro del GEV (Gruppo di Esperti Valutatori) – ci ricorda che ciò raramente accade. 
L’autrice investe dunque la comunità dei docenti e ricercatori dei settori disciplinari ICAR14-15-16, di cui faccio felicemente parte da qualche anno e a cui il suo lavoro si rivolge in prevalenza, con la sollecitazione a interrogarsi sulle ragioni per cui il progetto - nelle sue varie legittime espressioni,in nome del suo aspetto che non è logico-deduttivo, ma creativo, memoriale, analogico, automatico, metamorfico, metaforico, casuale e perfino esplicitamente irrazionale -  possa essere considerato unprodotto-progetto di ricerca, e su come conseguentemente esso possa essere raccontato, documentato, descritto, presentato alla comunità scientifica di riferimento per esseregiudicato e valutato.
Il pericolo, intravisto dall’autrice, dunque consisterebbe nel verosimile rischio che, malgrado la comunità scientifica, anche quelli delle scienze dure, ammettano che il progetto possa essere il prodotto di un’attività di ricerca (…), noi progettuali non sappiamo cosa farcene…
Mentre la salvezza starebbe prima di tutto nella possibilità di condividere nella “comunità scientifica dei progettuali” percorsi comuni, pur nell’assoluta legittimità delle differenze, per cercare di comprendere in che modo riempire di senso “dall’interno” quel riconoscimento venuto “dall’esterno”.
Il libro, nella sua articolazione tripartita - che come l’autrice ci racconta ironicamente in una nota potrebbe corrispondere alla trilogia inferno (29 pp.), purgatorio (62 pp.), paradiso (21 pp.) – misura perfettamente dunque la tensione pericolo/salvezza nel più lungo purgatorio, ma già nel breve inferno non pochi sono gli spiragli verso la “speranza” della salvezza, di cui il paradiso lascia intravedere i possibili contorni solo a valle però di un faticoso lavoro che è ancora quasi tutto da compiere:un’azione materiale, finalizzata a mettere in moto una relazione produttiva tra lo status del progetto come prodotto di ricerca e la costruzione di una comunità disciplinare in grado di produrlo e di valutarlo.
Il primo capitoloProgetto e ricerca tratteggia la “tensione” che esiste tra i due termini, ponendo la domanda: a quali condizioni il progetto di architettura può essere considerato prodotto di ricerca? L’autrice individua sé stessa (o meglio, come lei scrive,il suo io diffratto tra i destinatari di questa domanda, essendo anch’essa ovviamente membro dell’insieme dei docenti e ricercatori dell’area disciplinare 08D1. E per rendere intelligibile, o meglio tracciabile (come lei direbbe) il suo punto di vista, Roberta Amirante dedica spazio alla descrizione delle differenti specie cui appartiene, affinché quelle specifiche appartenenze (docente in composizione architettonica e urbana, a tempo pieno, dottore di ricerca in progettazione architettonica, membro del GEV 2004-2010…) possano contribuire a chiarire prima di tutto le ragioni da cui è maturata la sua personale necessità di porsi quella domanda e, aggiungo, di poter suggerire delle possibili risposte (nel secondo capitolo) e proposte (nel terzo capitolo). Tra le specie c’è anche quella deldoctorandus aeternus: un importante indizio della volontà dell’autrice di segnalare il carattere fondante della comunità a cui si rivolge identificandolo proprio nella condizione di chi è continuamente impegnato nella ricerca.
Il secondo capitolo Abduzione e valutazione. Punto e a capo è costruito come commento e note al margine di quel famoso articolo, cui ho accennato in precedenza, pubblicato da Roberta Amirante sula rivista (di cui è redattrice da una trentina di anni)Op.Cit. qualche anno prima. Con un espediente logico e tipografico, che ricorda laDescription de San Marco di Michel Butor, l’autrice ci consente di procedere attraverso tre differenti modalità di lettura: leggere unicamente l’articolo iniziale da cui il libro ha avuto origine, leggere soltanto il testo di commento all’articolo o naturalmente leggere secondo l’ordine sequenziale del testo in cui si alternano parti dell’articolo e i rispettivi commenti e approfondimenti. Personalmente dopo una prima lettura disciplinata mi sono trovata a sperimentare le altre due possibilità, riscontrandone l’efficacia, grazie a quell’effetto diridondanzatanto caro all’autrice; mi sembra che ella “progetti” la struttura del libro pensando e prevedendo anche quelle che potrebbero essere, come spesso accade, le sue diverse letture “trasversali”. A testimonianza forse del sincero desiderio che questo testo venga letto e soprattutto compreso.
In questo secondo capitolo Roberta Amirante ci porta, con estrema chiarezza, a ragionare intorno al processo logico dell'abduzione, una “inferenza logica” fondata sulla costruzione di un’ipotesi esplicitamente e consapevolmente “incerta”, che si allontana dalla necessità di una “casistica” offrendo anche a un “singolo caso” la possibilità di produrre conoscenza.  Riconoscere nel processo logico abduttivo il carattere più proprio all’attività progettuale, sostiene l’autrice, potrebbe facilitare non solo il suo riconoscimento come “esempio di attività scientifica” ma anche contribuire alla costruzione della comunità scientifica che potrebbe avvalorarlo.
Il lavorio teorico intorno al valore dell’abduzione, come procedimento logico che sostiene la “scientificità sui generis” del progetto, è - avverto i futuri lettori - il passaggio chiave per comprendere la peculiarità e l’originalità di questo lavoro; e si tratta di un passaggio complesso, nonostante il fatto che la chiarezza logica nella costruzione delle argomentazioni - fondate sul dialogo a distanza con autori come Kuhn, Lakatos, Feyerabend, e soprattutto Peirce, senza dimenticare Aristotele - ci dia l’impressione, a lettura avvenuta, che l’ipotesi dimostrata, sia di una inconfutabile “evidenza”. Tutta colpa dell’abduzione?
In diverse occasioni mi sono trovata ad accennare ai contenuti del testo - in particolare discutendo con alcuni colleghi francesi in relazione ai temi della riforma attualmente in corso in Francia che prevede per la prima volta l’assimilazione di tutti i docenti di progettazione allo statuto di ricercatori universitari - e ho contestualmente verificato come spesso si assimili il lavoro di Amirante, a partire dal suo titolo, ad altri che hanno trattato il tema del progetto come strumento di conoscenza; questione che, in vero, l’Amirante assume come indiscusso dato di partenza. In alcuni casi invece ho riscontrato come, a partire dal titolo del libro, si tendesse ad affermare, in contrapposizione, l’improbabilità del valore scientifico del progetto in virtù della sua presunta “unicità”; in effetti, il secondo capitolo costituisce una convincente risposta ad entrambe le osservazioni.
Penso che la lettura di questo secondo capitolo potrebbe in qualche punto irritare quei “progettuali” che rivendicano la singolarità (e originalità) del proprio percorso progettuale, e forse al contrario rassicurare gli altri che, invece, misurano costantemente, attraverso il proprio fare, le analogie, le prossimità e le differenze con quello altrui (dei propri maestri in primis, della propria scuola di riferimento, dei colleghi, degli allievi, etc..). L’autrice in realtà, ben lungi da qualsiasi giudizio di valore, si rivolge ad entrambe le categorie su un piano diverso: evitando la contrapposizione tra “analitici” e “sintetici”, invita tutti a misurarsi con un lavoro di “spiegazione a posteriori del proprio esperimento progettuale” che possa consentire ad altri di ripercorrerlo (come accade nelle presentazioni degli esperimenti scientifici). A segnalare la differenza rispetto a questi ultimi, sarebbero due caratteri fondamentali: la ricostruzione a posteriori (affidata evidentemente a un linguaggio verbo-visivo) non deve necessariamente esserevera, è sufficiente che sia “retoricamente”verosimile; il processo può essere raccontato anche attraversoquei salti arditi e immaginosi che Peirce considera propri del processo abduttivo, tenuto conto che proprio a queisalti(e stavolta invece è forte l’analogia con le scoperte scientifiche) è spesso affidata la possibilità di produrre nuove conoscenze.
E veniamo dunque ad una delle parole-chiave del testo:comunità, che seppur ricorrente in tutto il libro, ritorna nel terzo capitolo Che fare? (che ne dite se facciamo una rivista?) investita di una non facile responsabilità.
Roberta Amirante -  dopo averci duramente di-mostrato nel primo capitolo l’empasse in cui siamo, dettato dalla difficoltà di argomentare in maniera convincente sul fatto che il progetto sia un prodotto di ricerca e forse per alcuni anche di crederci fino in fondo, e dopo averci spiegato, nel secondo capitolo, che in fondo la legittimità scientifica è tutta dentro la singolarità del processo progettuale - purché lo si guardi come risultato di unainferenza di tipo abduttivo - invita i “progettuali” a “rimboccarsi le maniche” per trovare a questo punto, proprio partendo dalle specifiche differenze, le occasioni, i modi (le forme) e gli strumenti più efficaci per riuscire a raccontare e condividere, senza indugi il proprio lavoro progettuale come prodotto di ricerca.
Facciamo una rivista? Propone Roberta Amirante. Ma come strutturarla? Ci suggerisce di non imporre un protocollo di partenza comune, e quindi? Si tratta piuttosto di un invito a sperimentare, per poi provare a definirlo insieme affinché sia flessibile, adattabile, aperto, condivisibile, inclusivo?
L’autrice, con tipico “ottimismo della ragione”, intravede lari-composizione dei compositivi italiani fondata sulle reciproche différances, come comune sforzo di trovare i “modi” (analoghi, ma contestualmente declinati, a quelli di un protocollo scientifico) per “raccontare” la scientificità del proprio lavoro progettuale. Certo bisognerebbe cominciare con il credere che lo sia (e su questo docenti e ricercatori universitari, che si occupano di progettazione architettonica e urbana, potrebbero in ampia parte convergere), per poi lavorare per cercare i modi efficaci per raccontarlo, e ancora impegnarsi per condividerli, per poi ancora modificarli, sino a trovare il “procedimento” più efficace in linea con la comune ipotesi. Ci sarebbe dunque da sperimentare un processo di tipoabduttivo; questo lavoro non dovrebbe essere difficile se, come sostiene Roberta Amirante, lo pratichiamo quotidianamente attraverso il nostro pensare e fare ”progettuale”. Certo è che se questo appello, uno scampanellio che chiama a raccolta quelli che lo sentono, lo riconoscono, e di buon grado sono disposti ad accostarsi (…) gli uni agli altri, (…) potrà avere fortuna solo se riuscirà a essere convincente, lo stesso varrà per le risposte che sapremo dare.
Si tratterebbe allora di sperimentare un processo logico abduttivo per arrivare a individuare il (o meglio i) format (protocolli) efficaci per presentare il progetto come prodotto di ricerca.
La valutazione scientifica dunque fonderebbe, ben oltre il solo esito formale del progetto, e perfino oltre il rigore metodologico del processo progettuale, innanzitutto sulla riconoscibilità e la chiarezza della sua ricostruzione, e quindi sulla possibilità di ripercorrerne il “racconto”. Solo a partire da questa “modalità” e da questa “tecnica di presentazione” del progetto, la comunità chiamata a valutarlo potrà accordarsi sui modi per verificare e qualificare l’aumento di conoscenza che esso produce.
L’invito di Roberta Amirante è dunque quello di sperimentare forme chiare del racconto del progetto, che consentano la tracciabilità delle scelte, l’intelligibilità delle premesse, delle intenzioni e dei risultati, la narrazione dei percorsi, complessi, diversi, ricorsivi, che lo attraversano (di qualsiasi natura essi siano, induttivi, deduttivi e abduttivi, contaminati dalle più imprevedibili interferenze, dettate dai dati di realtà ma anche dalle pulsioni personali, dagli automatismi, dalle analogie, etc.).
Ma questo invito mi sembra vada al di là della necessità di rispondere “collettivamente” alla sola questione, benché problematica e impellente, della valutazione scientifica e interroghi in maniera più complessiva i contenuti del dibattito sulla centralità del progetto, sollecitando riflessioni che investono il tema più ampio della sua trasmissibilità.
L’autrice scrive -  parafrasando a sua volta uno dei suoi maestri Renato De Fusco – “fate come me” o “fate come vi pare” sono stati gli slogan didattici di molti dei docenti di composizione/progettazione nelle facoltà di architettura italiane. Tra il “fai come me” e il “fai come ti pare” la terza via che questo lavoro suggerisce è forse “falsifica ciò che ti ho dimostrato”? Diventerebbe allora strettamente necessario esplicitare e rendere il più chiaro possibile il processo verso il progetto, si tratti di quello da sottoporre a valutazione o da istruire nella didattica.
Mi viene in mente la frase di Lessing che Aldo Rossi cita in Architettura per i musei: La maggiore chiarezza è sempre stata per me la maggiore bellezza, e alle sue possibili interferenze con quella di Edgard Allan Poe che riporta Roberta Amirante nel suo libro: Ho spesso pensato quale interessante articolo potrebbe essere scritto da qualche autore che volesse – cioè potesse - specificare, passo passo, i procedimenti con cui una qualsiasi delle sue composizioni ha raggiunto il perfetto compimento. Nella tensione tra queste espressioni c’è gran parte del senso del libro: senza mettere in discussione la possibile, e spesso illuminante, chiarezza e bellezza dei fatti, si può provare a riconoscere la chiarezza, la capacità di aumentare la conoscenza e perfino la “bellezza” dei processi che conducono a quei fatti.
Un primo passo, fondamentale, perché la comunità dei progettuali possa riconoscere il progetto come prodotto della “propria” ricerca.