Roma possiede un patrimonio storico straordinariamente vasto ed eterogeneo. Le stratificazioni 1 hanno consegnato alle preesistenze archeologiche all’interno della città un ruolo centrale per il suo sviluppo. La presenza di tali resti però non rappresenta il solo aspetto che definisce il paesaggio romano come esempio archetipico. La sua unicità è restituita dal fragile equilibrio che nel corso dei secoli l’archeologia ha saputo innescare con la natura. L’immagine della città si è appoggiata su questo binomio già dalla fine della classicità. La vegetazione ha saputo partecipare ai processi produttivi, ricreativi, ornamentali, monumentali e anche conservativi (benché spesso senza essere l’espressione di una volontà specifica).
L’avvallamento a fianco al Colosseo, compreso tra i colli Celio e Palatino, ad esempio, è stato invaso da macchia arbustiva durante il medioevo; poi coltivato a vigne durante il rinascimento; teatro di importanti movimentazioni di terreno e piantumazioni che ne hanno ridefinito il profilo durante il periodo napoleonico; infine primo esempio di giardino pubblico2 e successivamente parte integrante della passeggiata archeologica tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Queste trasformazioni sono strettamente connesse al ruolo che l’elemento naturale ha saputo assumere nella storia per definire la vocazione funzionale, e ancora di più quella percettiva, che l’area archeologica ha esercitato nella città.
Il paesaggio romano racconta una complessità d’intrecci e sovrapposizioni fisiche e culturali impossibili da sciogliere. Le differenze storiche, morfologiche, tecniche e sociali rappresentano una straordinaria ricchezza, ma al tempo stesso inducono un’enorme difficoltà nel rileggere, pianificare e trasformare il patrimonio. Fattore comune di queste trasformazioni è certamente la natura, che ha saputo adattarsi a esigenze pratiche e trasformarsi nel tempo assumendo un carattere irrinunciabile per la restituzione iconica della città.
Negli anni archeologi e architetti hanno dato risposte diverse alla definizione di un’identità attraverso la valorizzazione delle emergenze all’interno del tessuto urbano. Sinteticamente è possibile individuare due atteggiamenti predominanti a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Da una parte osserviamo progetti di valorizzazione dell’antico che perseguono l’isolamento dell’emergenza dal suo contesto, con un fine precipuo d’identificare e di monumentalizzare. Dall’altra si è tentata la via di facilitarne la lettura riscrivendone l’impianto originale mancante attraverso la vegetazione.(Fig. 5) In questo caso le sistemazioni esterne e il parterre fungono da strumento divulgativo per risarcire l’immagine perduta dei resti anche a fruitori non eruditi sulla classicità.
Nel XIX secolo, in molti siti archeologici su tutto il territorio nazionale, si sono avviate importanti campagne di scavo e valorizzazione delle preesistenze. In questo periodo l’obiettivo principale era di riconsegnare alla società civile i monumenti interessati (con un intento quasi solamente esplicativo), attraverso interventi delicati e transitori, volti a non alterare lo stato di conservazione dei reperti. Sono riconducibili a questo atteggiamento culturale ad esempio le campagne di scavo dell’Area Archeologica Centrale di Roma e dei siti di Pompei e di Paestum. In particolare l’amministrazione francese a Roma, a metà del XIX secolo, avviò un’intensa campagna di scavi nelle aree del Foro Romano e Palatino, prevedendo l’istituzione di un Parco Archeologico con un elaborato progetto delle sistemazioni esterne. Queste, grazie all’uso di alberi e siepi, dovevano definire vere e proprie stanze museali pensate come sfondo e contenitore dei monumenti ma, al tempo stesso, come spazi in grado di mettere a sistema la molteplicità e la complessità delle preesistenze stratificate. Un progetto che potremmo definire avere uno scopo “selettivo 3 ” rispetto alle emergenze da valorizzare, isolare e contemplare. Questo approccio proseguì fino alla fine del secolo e ancora per i primi decenni del Novecento. Raffaele De Vico, come consulente del servizio giardini del Comune di Roma trasformò le aree alle pendici del Colle Celio da Porta San Sebastiano fin sotto il Claudianum per valorizzare i monumenti disordinatamente fruibili. La sistemazione impiegò dispositivi come assi e radure per isolare ogni resto dagli altri, cercando di restituirne un’immagine monumentale4 .
Differente è invece l’approccio del restauro moderno. Nel XX secolo, quando viene istituito l’Istituto Centrale del Restauro5 , comincia ad affermarsi anche l’ingegneria strutturale applicata al restauro archeologico. Questa tendenza ha portato ad adottare materiali e tecniche costruttive fino a quel momento sconosciute, come le cerchiature o le chiodature in acciaio. Sono tecniche costruttive per la verità d’impatto particolarmente invasivo. Inoltre, all’inizio del XX secolo in Italia, la ricerca di un paradigma forte per l’identità nazionale ha favorito una interpretazione dell’archeologia in chiave celebrativa, monumentale e propagandistica, che in alcuni casi ha condotto a ricostruzioni non del tutto verosimili dell’antico. L’attenzione era volta soprattutto al consolidamento strutturale delle antichità. Ricomposizioni spaziali e volumetriche, anastilosi, speronature e ricostruzioni sono stati i dispositivi che hanno contraddistinto questa seconda fase.
Parallelamente anche il contesto naturale venne conservato e in diversi casi valorizzato e progettato. In un palinsesto paradigmatico come quello romano, il progetto della natura rappresentò lo strumento per la ricomposizione spaziale e percettiva dell’antico. Fanno parte di questo periodo le sistemazioni romane di Antonio Muñoz, Rodolfo Lanciani e Dante Vaglieri. Tutti e tre questi progettisti (oltre naturalmente a De Vico) si sono efficacemente avvalsi della vegetazione come strumento per riscrivere gli impianti archeologici. Sia a Caracalla, che a Ostia antica e al Colle Oppio, i parterre di aiuole e percorsi hanno esteso le impronte a terra dei complessi monumentali presenti ma ormai ridotti a pochi muri espoliati e frammentati 6 .
Tra questi, il progetto di paesaggio più significativo credo sia l’intervento (oggi non più visibile) di Muñoz per il Tempio di Venere e Roma, in cui piante di alloro in vaso con potatura geometrica cilindrica completavano l’operazione di anastilosi delle poche colonne marmoree perimetrali rinvenute, riconsegnando parte dell’immagine originale del Tempio.(Fig. 1)
Un terzo atteggiamento nasce all’inizio del Novecento, sviluppandosi parallelamente ai primi due ma senza diventare una vera alternativa. Questo atteggiamento appare oggi come il più efficace, quando si cerca l’integrazione dell’antico nella città e al tempo stesso la valorizzazione dell’archeologia. Si tratta del ricorso a un telaio infrastrutturale dolce: la prospettiva è di dotare la città contemporanea di un apparato appropriato per la fruizione dei reperti, come passo iniziale sulla via della loro ri-funzionalizzazione. Ne è un esempio significativo il Piano Regolatore di Roma del 1931, che ha preso come riferimento i progetti di Frederick Olmsted per i suoi parchi continui, pensati come infrastruttura naturale.
Come si è già anticipato in altri contributi di questa sezione, dal 2010 la Facoltà di architettura di Roma Tre ha avviato un seminario interdisciplinare permanente volto alla definizione e allo sviluppo di un Masterplan7 per l’Area Archeologica Centrale di Roma. Il progetto, ancora attivo, coinvolge workshop internazionali e tesi di laurea magistrale. Ciascun apporto si traduce nella sperimentazione progettuale di alcuni interventi individuati a valle di questo programma.
L’interazione sistemica inquadrata dallo strumento di controllo generale è volta alla musealizzazione diffusa dell’area archeologica che comprende il Foro Romano, i Fori Imperiali, il Colosseo, il Palatino, il Colle Oppio con la Domus Aurea, il Circo Massimo e le Terme di Caracalla. A questo scopo il masterplan individua quattro categorie gerarchiche di progetti, con una logica concentrica:
Uno degli aspetti più interessanti del Laboratorio è certamente l’interdisciplinarità, che nel corso dei suoi otto anni di vita ha coinvolto studenti e docenti romani o internazionali con campi d’interesse differenti. Dal restauro al calcolo strutturale, dall’urbanistica al paesaggio, dall’architettura al disegno industriale, gli esperimenti progettuali hanno fornito risposte diverse, ma tutte mirate alle esigenze specifiche di un contesto stratificato e complesso come il centro di Roma.
All’interno di questo palinsesto ben pianificato e sistemico il mio contributo riguarda l’approfondimento di tre progetti, bene in sintonia con lo spirito di collaborazione e condivisione incoraggiato dalla scuola. La mia tesi di laurea9 in particolare ha studiato il nodo tra la città e il parco archeologico sul fronte orientale. L’area dell’ex Antiquarium Comunale sul colle Celio è stata pensata come Terminal per i pullman turistici e luogo di scambio tra percorsi ciclopedonali, linea tramviaria, trasporto pubblico e privato su gomma dedicato al circuito turistico.(Fig. 3)
Rappresenta un punto di arrivo per i flussi dalla città e allo stesso tempo un nodo di accesso e distribuzione verso il Colosseo e il Palatino. L’intervento contiene un’area museale per i reperti rinvenuti nei secoli e non ricollocabili all’interno dei siti; un’area espositiva temporanea e servizi al viaggiatore. La realizzazione di una leggera passerella che collega il Celio al Palatino ricostituisce idealmente la giacitura infrastrutturale dell’Acquedotto neroniano (oggi solo parzialmente visibile). Mentre il collegamento diretto con il Colosseo è garantito dalla riapertura dell’antico passaggio ipogeo voluto dall’imperatore Commodo per consentire alla corte di raggiungere l’anfiteatro attraverso un percorso privato.(Fig. 4)
Il progetto si lega a una precedente tesi di Restauro (arch. Marta Baschieri Salvadori, arch. Federica Perrone; relatore prof. arch. Elisabetta Pallottino; a.a. 2010/2011) che consolida e restituisce alla città l’Antiquarium comunale, oggi abbandonato e inagibile. L’edificio è quindi arricchito di sale espositive all’interno di volumi ipogei che definiscono spazi aperti mitigati da presenze arboree non configurate 10 . Il colle Celio infatti, in età repubblicana era noto come Colle Querquetulanus per la presenza di boschi di querce. Lo spazio si articola in terrazze11 che non alterano il profilo del colle. Queste rappresentano la memoria del paesaggio nell’avvallamento tra Celio e Palatino durante la Roma pontificia. Coltivazioni agricole e grandi vigne 12 disegnavano il territorio con muri di contenimento, terrazzamenti e orditure geometriche della vegetazione.
Infine l’intervento riconnette il livello dell’Antiquarium con il giardino innestato sulle sostruzioni del basamento del Tempio di Claudio attraverso uno specifico sistema di risalita. Il giardino, di pertinenza della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, infatti, oggi appare isolato e inaccessibile 13 .
Nello stesso anno Giulia Carboni 14 si è occupata del nuovo accesso occidentale al Palatino. Il progetto coinvolge il Tevere come essenziale infrastruttura navigabile e sistema ambientale della città, tenendo conto che già nel piano di Roma del 1931 Piacentini aveva individuato il Tevere e il parco dell’Appia Antica come due grandi sistemi naturali di importanza territoriale.(Fig. 6)
L’intervento s’innesta sugli argini del fiume all’altezza del Lungotevere degli Alberteschi, costituendo un efficace punto di scambio tra battelli, traffico su gomma e uno strategico sistema ciclo-pedonale in grado di riconnettere la città da nord a sud. Il Tevere è infatti navigabile fino alle rapide dell’Isola Tiberina e il progetto mira a coinvolgerlo nel sistema infrastrutturale per l’archeologia grazie alla ricostruzione dell’impalcato del Ponte Rotto. Questo rappresenta un collegamento diretto tra Porta Portese15 e Trastevere e l’area dei templi di Ercole Oleario e di Portunno, garantendo così continuità e fluidità di visita fino al complesso monumentale del Palatino.(Fig. 7) (Fig. 8)
Lavorando sul terrapieno dell’argine il progetto sviluppa due livelli di spazio pubblico. Uno alla quota della città, che intercetta i flussi del traffico veicolare su gomma pubblico e privato; qui si sviluppa lo spazio aperto grazie a sistemazioni di vegetazione e playground per bambini. Il secondo livello si articola in una sequenza di piazze ipogee sia coperte che scoperte, sulle quali aprono i servizi per il turismo e le attività commerciali.
Infine si richiama il lavoro di tesi di Olivia Agrentini16 . In questo caso l’impianto sviluppa un collegamento tra il Circo Massimo e Porta Capena con le Terme di Caracalla e il Parco degli Scipioni. Il progetto ripercorre una porzione della Passeggiata archeologica del 1914, includendo i resti delle Mura Serviane, di due acquedotti e della Torre medievale del Vignaiolo di San Gregorio. La scelta di connettere il circuito archeologico del Palatino con il parco delle Terme di Caracalla è decisiva per lo sviluppo di una logica sistemica delle attrazioni monumentali classiche.
Il progetto separa i flussi di visita dal traffico cittadino attraverso la sovrapposizione di layer necessari a riportare alla luce le emergenze ancora sepolte che insistono sull’area. I nuovi volumi contengono servizi turistici e piccole attività commerciali che definiscono questo spazio come attrattore urbano. L’architettura non altera il contesto storico e ambientale, grazie allo scavo di una grande piazza pedonale ribassata. Questo nuovo spazio ospita anche il Museo del vino che reinterpreta la storica presenza della cantina produttiva di pertinenza alla vigna del Noviziato dei Ss. Giovanni e Paolo.
I tre progetti17 sono stati sviluppati nell’arco dei primi due anni di attività del seminario della scuola. L’aspetto più interessante è la qualità sinergica e la complementarità che ciascun intervento mostra nei confronti delle altre sperimentazioni, non soltanto progettuali ma anche di indagine e di ricerca. Si tratta di un’unica matrice che accomuna le singole sensibilità compositive, producendo progetti unitari.
L’insieme delle tracce che la storia consegna agli interventi è inteso come un prezioso saldo residuale sopravvissuto alla cancellazione e all’amnesia, a partire dal quale è possibile dotare di senso l’architettura. Il sistema è considerato come un immateriale cantiere archeologico di segni. In particolare, per provvedere alle connessioni ciclopedonali tra le diverse attrazioni turistiche, i progetti riusano elementi della storia non più evidenti. L’integrazione tra discipline differenti e la ricerca storica sono essenziali nella predisposizione di una sottostruttura in grado di valorizzare le preesistenze e allo stesso tempo di rispondere alle istanze funzionali di una metropoli contemporanea. In questo senso approfondire il senso dei luoghi e comprenderne il genius loci (Rossi, 1966) è essenziale, e specialmente nella complessità del contesto romano appare essere l’unico metodo appropriato per intervenire sull’antico.
La natura è certamente parte attiva del processo che ci ha consegnato l’Area Archeologica Centrale ed è un elemento irrinunciabile per la sua trasformazione. Il masterplan della facoltà di architettura di Roma Tre si misura con la presenza della natura, e in questa prospettiva predispone anche un telaio infrastrutturale di servizio all’archeologia. Il progetto di paesaggio diventa allora uno strumento fondamentale per rendere possibile il dialogo tra città e storia. Come è noto, attualmente si ritiene che le azioni sull’ambiente e soprattutto sull’esistente non devono essere pensate per durare in eterno, secondo la logica dell’intervento definitivo, ma al contrario dovrebbero mantenere un carattere temporaneo e reversibile, per assorbire e sostenere le modificazioni future. La mutevolezza e la reversibilità dei progetti di paesaggio sembrano dunque rappresentare un’alternativa credibile alle pratiche correnti, poiché sono in grado di servire a uno scopo specifico senza alterare il contesto.
Infine, reintegrare i monumenti come attrattori di flussi all’interno delle città richiede la riorganizzazione delle infrastrutture, potenziando tanto il trasporto pubblico su ferro e su gomma, quanto il trasporto dolce (ciclopedonale) allo scopo di servire efficacemente le preesistenze restaurate e riqualificate18 , garantendo una felice convivenza con le funzioni della città contemporanea. A questo scopo la predisposizione di un telaio verde19 , come lo intendeva Olmsted, può contribuire a garantire tanto l’equilibrio tra il nuovo e l’antico quanto la sostenibilità della pianificazione, con la consapevolezza che svuotare i centri urbani per assoggettarli al patrimonio archeologico porterebbe alla loro morte civica e alla virata verso i parchi divertimenti angeleni.
Note
1 “Secondo le scoperte fatte dal cav. Pietro Narducci quando costruiva il collettore del Colosseo attraverso l’Orto Botanico e lungo la via di San Gregorio, il piano della città dei tempi neroniani si troverebbe a 11 metri sotto la soglia dell’Arco di Costantino; ciò risulterebbe da quanto si osservò dal taglio profondo del collettore che questa parte della città antica, distrutta dall’incendio neroniano, non fu costruita al medesimo livello, umido, profondo, soggetto le infiltrazioni del Tevere; ma che i ruderi dell’incendio furono spianati sul posto sollevandosi così ad un tratto del quartiere di circa 6 metri. Abbiamo dunque sotto i nostri piedi tre Rome: la medievale ubicata pressappoco al piano dell’Arco di Costantino; la post-neroniana profonda 12 metri; la repubblicana profonda 18 metri”. Rodolfo Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno alle collezioni romane di antichità, volumi 1-4, Ermanno Loescher & Co., Roma, 1902-1912.
2 Con il trasferimento della capitale del giovane Stato Italiano a Roma, Guido Baccelli nel 1887 diede inizio alla realizzazione della Passeggiata Archeologica che si estendeva sulle pendici del Palatino. Di fronte, negli stessi anni, si avviò un’operazione di valorizzazione ambientale. Sulle pendici del Celio, e in particolare sui terrazzamenti creati con le terre di riporto degli scavi del Foro Romano, nacque il Giardino Botanico. Una passeggiata naturalistica che organizzava lo spazio pubblico in continuità con le rovine romane.
3Di questo genere di progetti fa parte anche la sistemazione del parco archeologico di Selinunte di Pietro Porcinai del 1966, che cinse i resti archeologici con una duna artificiale e vegetata. L’intervento mirava a porre un limite fisico all’espansione edilizia incontrollata, a isolare visivamente i monumenti dallo sprawl che si stava diffondendo attorno e a organizzare il percorso di visita secondo una logica museale, prevedendo punti precisi di entrata e di uscita sotto bigliettazione oltre allo studio delle prospettive visuali.
4 Nel Parco degli Scipioni fece ampio uso di grandi viali prospettici alla francese e quinte di oleandri.
5 L’ICR viene istituito nel 1939 con l’intento di formare maestranze competenti e in grado di affrontare il restauro dei monumenti partendo da una base tecnica comune. Nasce dalla necessità di superare la formazione artigianale da bottega basata sulla lavorazione “a regola d’arte” soprattutto per cercare di inseguire il progresso tecnico che in quegli anni aveva portato all’introduzione di materiali come l’acciaio o il calcestruzzo armato anche nel restauro.
6Osserviamo una strategia simile anche nel progetto per il Parco archeologico di Porta Palatina a Torino (2003/2005). Qui Gabetti e Isola legano le imposizioni derivanti dal tessuto insediativo, alla ricomposizione dello spazio dell’archeologia attraverso l’elemento naturale. L’intervento è stato ultimato solamente da Aimaro Isola, a causa della scomparsa prematura di Roberto Gabetti nel dicembre 2000.
7 Il progetto è stato presentato ufficialmente nel dicembre 2011 con la mostra “Back to the archaeological area” all’interno del ciclo “Three cities in flux” promosse dalla British Scool in Rome a seguito del suo primo anno accademico di attività.
8 Il programma originale dell’amministrazione prevedeva il posizionamento di 6 ponti modulari e componibili in acciaio. Gli interventi erano completamente reversibili, replicabili e consentivano eventuali riposizionamenti. Oggi l’unica delle 6 passerelle costruite rimane in funzione come infrastruttura necessaria per la città. Si tratta della passerella su via degli Annibaldi che collega la fermata della metro Colosseo con il parco del Colle Oppio.
9 La tesi “Il colle Querquetulanus. Una nuova porta di accesso al Palatino” è stata sviluppata da Federico Desideri nell’a.a 2010/2011. Relatori: prof. arch. Boris Podrecca (progettazione architettonica, Università tecnica di Vienna), prof. arch. Maria Margarita Segarra Lagunes (restauro archeologico, Università degli Studi di Roma Tre).
10 Gli alberi piantati singolarmente o in piccoli gruppi rappresentano la diversità del territorio, ricostruendo diversi momenti storici. Le querce sono piantate isolate, come grandi punti di riferimento. I gruppi di due o tre alberi sono invece costituiti da lecci, aceri e robinie e ricordano le piantumazioni volute da Papa Gregorio XVI nella passeggiata pubblica del 1835 (detta anche Orto Botanico). In alcune aree pavimentate invece sono previsti gruppi di alberi da frutto impostati su griglia geometrica come segno della vocazione agricola della valle per tutto il medioevo e rinascimento.
11 Gli spazi aperti, organizzati in terrazze, prospicienti il Colosseo e il Palatino (lungo via di San Gregorio) non presentano alberi per non entrare in conflitto con i filari di Pini domestici predisposti con l’intervento di Antonio Muñoz. La sistemazione prevede invece siepi di graminacee in ragione degli orti produttivi che occupavano la valle. I punti di ombreggiamento sono affidati a leggere strutture in acciaio corten che fungono da tutori per piante di vite e tende ispirate al sistema di schermatura dell’anfiteatro.
12 L’area era infatti divisa in tre vigne principali. La famiglia Cornovaglia possedeva le pendici del colle Celio dall’Arco di Costantino fino al Clivio di Scauro (antico tracciato della via Tuscolana). I Paganica erano invece proprietari dei terreni sulle pendici del colle Palatino. Infine le pendici del Celio dal Clivio di Scauro fino a Porta Capena erano occupate dalle vigne del Noviziato dei Ss. Giovanni e Paolo.(Fig. 9)
13Una sorta di Hortus conclusus delineato non da mura ma dal vuoto.
14 La tesi “Il Tevere: una nuova infrastruttura per la città” è stata sviluppata da Giulia Carboni nell’a.a. 2010/2011. Relatore: prof. arch. Paolo Desideri.
15 Nel masterplan per l’area archeologica, l’ex Arsenale Pontificio a Porta Portese è pensato come Nodo di scambio per accogliere i flussi turistici dal fronte meridionale della città.
16 La tesi “La piazza di Porta Capena” stata sviluppata da Olivia Argentini nell’a.a. 2011/2012. Relatori: prof. Boris Podrecca ( Università tecnica di Vienna), prof. Paolo Desideri (Università di Roma Tre).
17 Insieme a molti altri. Negli a.a. 2010/2011 e 2011/2012 la facoltà di architettura ha prodotto 12 tesi di laurea sul masterplan per l’area archeologica centrale. Gli studenti provenivano da tutti e tre i corsi di laurea (progettazione architettonica, restauro e urbanistica).
18 Nel progetto per le Sistemazioni esterne della Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma (Parco Schuster, 1999), Francesco Cellini riconfigura l’antico accesso laterale (come prima dell’incendio ottocentesco), disegnando un grande piazzale in Travertino che funge da terminale dell’asse di via ostiense, da cui anticamente i fedeli raggiungevano a piedi la Basilica. L’asse è valorizzato dalla piantumazione di filari di Cercis Siliquastrum.
19 Pietro Porcinai, subito dopo la guerra, nella fase della ricostruzione, si scagliò con fervore contro l’urbanistica moderna che considerava in Verde solo come parte del tessuto connettivo senza qualità ambientale, alla stregua di una campitura su un disegno.
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