Contributi specialistici

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L’Area Archeologica di Roma nell’era multimediale
Tiziana Casaburi
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Abstract

Nel secolo scorso i Beni Culturali, da appannaggio riservato a una élite, divengono una risorsa per il turismo su vasta scala. Le scelte compiute sull'assetto dell'Area Archeologica di Roma sono state inizialmente influenzate dalla volontà di non aprire a tutti la lettura dei reperti, la cui interpretazione nel passato era concessa ai soli eruditi; ma oggi che la globalizzazione li ha messi a disposizione di un pubblico ampio ed eterogeneo, come si può operare per rendere più accessibile la lettura dell'offerta culturale senza abbassarne la qualità scientifica?
La risposta suggerita dalle scelte istituzionali nel caso romano sembra tendere all'utilizzo della multimedialità quale strumento narrativo delle vicende che hanno interessato le antiche vestigia. L'uso della realtà aumentata ( RA) come guida in situ è stato qui sperimentato in varie forme: dalle domus di Palazzo Valentini, disvelate a poco a poco dalla luce, all'itinerario nell'articolato spazio del Foro di Cesare, dall'incendio neroniano, illustrato sul muraglione della Suburra nel Foro di Augusto, al racconto che chiarisce la complessità dell'apparato pittorico di S. Maria Antiqua, ed ancora alla storia della Domus Aurea dalla costruzione alla damnatio memoriae, e dalla riscoperta rinascimentale agli sterri novecenteschi. Il ricorso alla tecnologia può agevolare in effetti la declinazione delle diverse chiavi di lettura, sia favorendo la visione organica dei contesti archeologici per i non addetti ai lavori, che fornendo uno spettacolo culturale anche per chi conosce il carattere dei luoghi che visita, senza prescindere dal rapporto diretto che ciascun visitatore deve avere con i beni archeologici come si conservano nell'epoca attuale.
Dall’analisi dell’offerta culturale odierna emerge, tuttavia, che l’uso della RA quale strumento narrativo delle vicende che hanno interessato le antiche vestigia sembra indurre il cittadino a indossare le vesti del turista nella propria città, piuttosto che portare la realtà urbana all’interno del contesto archeologico.
Per rendere l’archeologia urbana non più un luogo lontano dalla vita quotidiana, ma uno spazio qualificato della città, ciò che andrebbe recuperato nelle azioni di valorizzazione non è solo l’immagine degli elementi che costituivano il panorama archeologico nella fase originale. Per salvaguardare l’identità culturale del patrimonio andrebbe considerato anche il contesto in cui si inserisce, nel rispetto dell'autenticità dei luoghi, per non incorrere nella sola (per quanto didattica) spettacolarizzazione dei Beni Culturali.




Nell’ambito dell’attuale dibattito sulla valorizzazione del paesaggio archeologico in contesti urbani, è opportuno iniziare dalla riflessione sul significato di Patrimonio nella civiltà contemporanea e su come sia cambiato il concetto di fruizione dei Beni Culturali, che, da appannaggio di una ristretta élite, divengono una risorsa per il turismo globalizzato. Tutto ciò ha inevitabilmente modificato sia l’assetto che la percezione delle aree archeologiche.
L’Area Archeologica Centrale di Roma (AAC) rappresenta un esempio emblematico di paesaggio archeologico immerso nel cuore di una città, uno spazio dedicato al turismo, ma anche un polo di attrazione culturale per i cittadini. In questo contesto si fa oggi più viva la necessità di identificare il paesaggio archeologico quale fattore attivo nei processi di trasformazione della città, sempre più caratterizzata dagli effetti inevitabili della globalizzazione, di cui è opportuno prendere atto per poterli controllare e indirizzare senza esserne sopraffatti.
Ormai da tempo nella nostra società è in corso una rivoluzione tecnologica, che ha portato all’utilizzo del computer quale strumento di mediazione per la produzione, distribuzione e comunicazione anche in ambito culturale. Le nuove tecnologie hanno favorito anche la possibilità di ampliare la ricerca, per l’analisi, lo studio e la valorizzazione dei Beni Culturali.
Le tecnologie, in effetti, possono agevolare la declinazione delle diverse chiavi di lettura, da un lato favorendo la visione organica dei contesti archeologici per i non addetti ai lavori, dall'altro fornendo uno spettacolo culturale anche per chi conosce il carattere dei luoghi che visita.
Ma ora che la fruizione delle aree archeologiche è a disposizione del grande pubblico, come si può operare per renderne più accessibile l'interpretazione, senza abbassare la qualità scientifica dell'offerta culturale? E’ sufficiente l’ausilio della tecnologia per restituire l’area ai cittadini senza costringerli ad indossare la veste del turista, permettendo loro di riappropriarsi realmente dell’AAC senza trascurare il rapporto diretto che ciascun visitatore deve avere con i beni archeologici,  come si conservano nell'epoca attuale?
Nel caso di Roma, per poter sviluppare un buon progetto di fruizione attraverso l’uso della Realtà Aumentata (RA) o del videomapping, è fondamentale avere piena coscienza del panorama archeologico cui ci si trova di fronte e del legame che questo ha sempre avuto con la città che gli è cresciuta intorno.
Le scelte compiute per la sistemazione dell'AAC non sempre sono state veicolate dalla volontà di aprire a tutti la lettura dei reperti, la cui interpretazione era spesso concessa ai soli eruditi. Testimone di questa tendenza è il panorama eterogeneo, nel tempo e nello spazio, che caratterizza, ad esempio, l’area del Foro Repubblicano e dei Fori Imperiali. Qui si confondono elementi appartenenti ad epoche diverse o a differenti compagini architettoniche, sovrapposte in un variegato scenario, che, pur lasciando visibili tracce della storia rappresentata nei diversi momenti, risulta di difficile interpretazione.
Così nell’area del Foro Repubblicano convivono manufatti risalenti alla Roma Antica ed edifici costruiti posteriormente, come la Chiesa dei Santi Luca e Martina, edificata nel VII secolo sui resti di un precedente edificio, sorto, a sua volta, sulle strutture del Secretarium Senatus1, annesso alla Curia. Accade altrettanto con la via Alessandrina2, il cui tracciato superstite (oggi in fase di demolizione) divide le aree occupate dai Fori di Augusto, di Nerva e di Traiano. Eppure questo spazio, fino a qualche anno fa, appariva molto più integrato con il tessuto urbano circostante di quanto non lo sia ora.
Ciò che è maggiormente cambiato dalla creazione della Zona Monumentale di Roma sono le interazioni fra la città ‘vivente’ e il paesaggio archeologico; ed è proprio dall’analisi delle relazioni col contesto urbano che si può capire quanto e in che modo gli effetti del mercato del turismo abbiano influito sull’assetto di quest’area.
In passato il numero di turisti non era tanto significativo da poter incidere sulle scelte progettuali, amministrative e, soprattutto, commerciali; probabilmente fu anche per queste ragioni che la natura degli interventi promossi nell’area archeologica ebbe inizialmente un carattere marcatamente urbano, scevro dallo sfruttamento odierno dell’immagine dei ruderi per scopi turistici.
La Zona Monumentale fu creata nel 1887, con la dichiarazione di “pubblica utilità per l'isolamento dei monumenti nella zona meridionale di Roma e il loro collegamento per mezzo di passaggi e pubblici giardini”3. Come sottolineato nella stessa relazione allegata al progetto4, l’intervento era mirato alla salvaguardia del patrimonio nei confronti della speculazione edilizia5. La realizzazione, avvenuta nei decenni successivi, vide la restituzione ai cittadini di un percorso fra pubblici giardini e grandi viali alberati, che avrebbe favorito la fruizione del patrimonio archeologico, inserito nel contesto urbano della Capitale.
In seguito furono diverse le azioni che modificarono l’assetto dell’area; fra queste la più significativa per l’imponenza degli interventi fu senz’altro quella attuata durante il periodo fascista, la cui sistemazione corrisponde in gran parte a quella attuale, a meno degli ultimi interventi di riqualificazione.
Prima dell’avvento del turismo di massa, l’area rimase comunque parte integrante della vita sociale della Capitale. Diversi sono gli esempi dell’uso cittadino di quest’area, slegati dalla dimensione turistica connessa alla visita del Parco Archeologico. Sotto l’Arco di Costantino, ad esempio, terminava la gara dei camerieri, una manifestazione che si svolse dagli anni Trenta del secolo scorso e che ha visto i camerieri romani impegnati in una corsa con un vassoio pieno intorno al Colosseo. Sempre dagli anni Trenta e ancora oggi, si svolge nei pressi di S. Francesca Romana la benedizione degli autoveicoli. Tra i più noti e significativi interventi ricordiamo anche gli allestimenti per le Olimpiadi del 1960, che portarono numerosi spettatori ad assistere alle gare di lotta nella scenografica sede della Basilica di Massenzio, utilizzata anche negli anni Settanta per la rassegna cinematografica dell’Estate Romana di Nicolini6, che ne rilanciò l’importanza culturale.
Il Parco, inoltre, era accessibile e veniva utilizzato dagli abitanti della zona come uno spazio urbano, alla stregua dei parchi delle ville storiche romane, patrimonio del mondo ma anche della città, considerando anche la possibilità di attraversare l’area per raggiungere le zone limitrofe senza doverla aggirare, come oggi accade.
Dunque, seppur con fini molto diversi fra loro, dall’interesse sportivo delle Olimpiadi alla volontà di spingere i romani a reagire alla violenza degli anni di piombo, in passato si sono organizzati numerosi eventi capaci di portare i cittadini a vivere questi spazi restando cittadini.
In via teorica, la tendenza promossa dall’attuale dibattito è quella di interpretare l’archeologia urbana non più come un luogo lontano dalla vita quotidiana, ma quale spazio animato della città, dove il singolo sito o monumento sono inseriti in un contesto territoriale unitario, dotato di un sistema integrato di servizi. Questo atteggiamento consente da un lato la conservazione delle emergenze architettoniche; dall’altro garantisce la fruizione del patrimonio in accordo con le esigenze della città contemporanea, con la quale si instaura un legame fluido, privo di quelle barriere fisiche e percettive che connotano alcuni dei siti archeologici della Capitale (come ad esempio i celebri casi di Largo di Torre Argentina o dell’arco di Giano).
Il problema è ancora sul tavolo di studiosi ed Amministrazione comunale, alla ricerca di un modo per integrare la teoria con l’attuazione di progetti virtuosi.
Una delle soluzioni suggerite da alcune scelte istituzionali per attrarre nuovamente i cittadini a vivere il centro archeologico, ricorre alla multimedialità quale strumento narrativo delle vicende che hanno interessato le antiche vestigia. L'uso della Realtà Aumentata come guida in situ è stato sperimentato in varie forme nell’AAC, e ha sortito l’effetto di aumentare le visite anche fra i cittadini.
Nel caso delle domus di Palazzo Valentini, il visitatore entra in uno spazio buio, in cui vengono disvelati a poco a poco dalla luce i diversi strati del suolo seguendo lo storytelling del narratore. Altro esempio è l'itinerario di visita dell'articolato spazio del Foro di Cesare, che passa negli ambienti ipogei di Via dei Fori Imperiali, e che consente l’esplorazione di luoghi precedentemente inibiti alla pubblica fruizione. O ancora lo spettacolo nel Foro di Augusto, che ha rievocato, tramite la proiezione sul muraglione della Suburra, la storia del Foro e l'incendio del 64 d. C. in epoca neroniana. Infine va ricordato il caso di S. Maria Antiqua e il racconto che chiarisce la complessità del suo apparato pittorico, nonché la storia della Domus Aurea dalla sua costruzione alla damnatio memoriae che ha subito, fino alla riscoperta rinascimentale e agli sterri novecenteschi, vissuta in prima persona dai visitatori grazie all’uso della realtà immersiva, la stessa utilizzata anche per il tour del Colosseo Live Ancient Rome.
Questi nuovi metodi di fruizione dell’AAC con l’ausilio della multimedialità sono in continua evoluzione in conseguenza dell’inarrestabile sviluppo tecnologico, ma devono comunque rispettare le normative e molteplici regolamenti esistenti sull’argomento7. Il rispetto delle regole è indispensabile per garantire un equilibrio fra mondo reale e mondo virtuale, e per fornire uno spettacolo che trasmetta la cultura legata al Patrimonio in maniera scientifica e ben comprensibile.
Dall’analisi dei caratteri e degli effetti delle nuove forme di fruizione dei contesti archeologici emerge un quadro estremamente variegato, nel confronto tra due mondi apparentemente antitetici: i resti archeologici evocativi di una cultura scomparsa e la tecnologia, rappresentativa di un mondo in continua e rapida evoluzione.
Per evitare la spettacolarizzazione che nasconde i reperti reali in favore del mondo virtuale, annullando il simbolismo evocativo delle rovine che riesce a stimolare la capacità di astrazione del visitatore, è opportuno che le immagini trasmettano anche contenuti culturali, per far sì che “il capire per concetti e il capire vedendo si combinino a somma positiva, rinforzandosi o quantomeno integrandosi l'uno con l'altro”8.
I Beni Culturali devono tornare ad essere veicolo per la trasmissione di valori culturali, in un’epoca in cui invece sembrano ricoprire quasi esclusivamente il ruolo di bene da sfruttare per produrre benefici economici. Solo se si considera la tecnologia come uno strumento, da adattare alle necessità di tutela e salvaguardia, abbandonando il punto di vista che la assume quale traguardo finale del processo, è possibile un’autentica collaborazione tra il mondo “scientifico” e quello “umanistico”, abbandonando le posizioni antitetiche che normalmente assumono.
Seppure privo di materia, il restauro virtuale costituisce un primo passo verso il restauro propriamente detto, che potrebbe essere integrato laddove, ad esempio, le tracce del passato non fossero sufficienti a determinare con certezza gli aspetti formali dell’opera, al fine di fronteggiare la tendenza ad eseguire operazioni di restauro mirate più all’incremento del turismo di massa9 che alla salvaguardia dei monumenti. Sarebbe possibile, in questo modo, evitare gli episodi ricostruttivi finalizzati unicamente alla promozione, in assenza della tutela.
A tal riguardo sarebbe opportuno usare la parola “promozione” piuttosto che il termine “valorizzazione”, impropriamente utilizzato nei casi in cui, in assenza di azioni di tutela, si perde l’identità culturale da valorizzare e si promuove solo l’immagine formale del patrimonio. Quando non si protegge il valore della memoria, si perde il messaggio culturale e dunque non rimane più nulla da valorizzare, ma solo un’immagine da pubblicizzare. Sono sempre meno comuni, ma comunque ancora diffusi, gli esempi di ricostruzioni eseguite piuttosto arbitrariamente con il fine non di interpretare le rovine e ridar loro dignità, ma solo per conferire una immagine accattivante per meglio vendere il panorama archeologico, persino in disaccordo con le Carte del Restauro.
Grazie all’immagine offerta dal restauro virtuale, sarebbe insomma possibile offrire uno scenario di ricostruzione, anche con l’integrazione dell’apparato decorativo, ad esempio, senza intaccare la fisicità del monumento. Questo metodo può essere applicato in particolare ai casi di beni archeologici in pessimo stato di conservazione, per i quali la ricostruzione dovrebbe essere molto consistente; o, ancora, per gli apparati decorativi di cui si ha testimonianza nelle riproduzioni grafiche o di cui non restano che sparute tracce.
Gli spettacoli multimediali propongono una loro immagine della realtà ricostruita. Pertanto, come suggerito dalle linee guida della Carta di Siviglia, anche quando si tratta di restauro virtuale andrebbero comunque rispettati i principi validi per il restauro propriamente detto, secondo cui è opportuno eseguire una ricostruzione filologica, che sia adattata allo specifico caso di applicazione, lungi dal proporre per tutti i manufatti modelli tipologici validi indiscriminatamente. Sarebbe auspicabile, in tal senso, riproporre un “com’era, dov’era” realizzato ad hoc per ciascun manufatto, allo scopo di eseguire un restauro virtuale adeguato, per non ripetere alcuni esempi di restauri impostati sulla base di modelli tipologici riprodotti fedelmente, ma portatori di un’immagine che non è mai realmente appartenuta al bene;  come accade  nel caso della Torre dei Conti a Roma, restaurata dal Muñoz secondo i canoni delle torri medievali, studiati nei minimi dettagli10 ma profondamente diversi dall’autentica configurazione di quella torre, che peraltro oggi offre una quinta scenografica (e a suo modo “didattica”) a Largo Corrado Ricci.
La promozione del restauro virtuale non vale solo a fini divulgativi, ma si presta anche al monitoraggio dello stato di degrado dei manufatti11, oltre a fornire una base certa per successivi interventi.
Per ciò che concerne il paesaggio della città contemporanea, il restauro virtuale sarebbe utile per la ricostruzione di complessi o manufatti distrutti dagli eventi bellici (come Palmira), inagibili perché pericolanti (ad esempio Villa Rivaldi), non più visibili perché demoliti per approfondire gli scavi archeologici (come le fucine medievali sull’Athenaeum di Adriano in Piazza Madonna di Loreto) o consolidati, decontestualizzati e ricollocati (vedi la Caserma Pompieri “smontata” per scavi della Linea C della metropolitana o il complesso archeologico riallestito nei livelli inferiori della Rinascente di Via del Tritone).
Nelle ricostruzioni in RA negli ultimi anni si sta ponendo molta attenzione al contesto urbano originario12.
Come viene trattato il contesto in cui oggi ricadono questi complessi archeologici? Le politiche urbane sono in accordo con i principi universalmente riconosciuti di protezione e salvaguardia dell’identità culturale del patrimonio? Nel caso dell’AAC di Roma, si può ancora parlare di “luoghi della memoria” in riferimento ai comparti urbani che la circondano?
Ciò che circonda il Parco Archeologico non è più un tessuto urbano vissuto dagli abitanti, con le botteghe artigiane del Rione Monti o i laboratori per la lavorazione dei tessuti e della lana della Villa Silvestri Rivaldi all’epoca in cui ospitava le mendicanti dell’omonimo Pio Istituto. Il panorama odierno del contesto intorno all’AAC è fortemente condizionato dal mercato del turismo, decisamente lontano e svincolato dai nobili intenti del dibattito culturale sul tema della riconnessione delle aree archeologiche al tessuto urbano della città contemporanea.
Ma ciò che costituisce il paesaggio archeologico è la percezione delle tracce dell’uomo sul territorio, anche in riferimento agli aspetti simbolici che lo caratterizzano nell’epoca contemporanea, quello che Manacorda definisce “il senso della storia”, e che non si esaurisce nelle sole aree interessate dall’esistenza di reperti, ma include anche le zone circostanti che costituiscono il contesto ambientale dei ritrovamenti archeologici, connotando il paesaggio ad essi più prossimo.
Sarebbe opportuno operare sul contesto, oltre che sulle singole emergenze architettonico-archeologiche, anche “per affermare il valore della memoria come fattore [attivo] di sviluppo”13, piuttosto che sfruttarne le risorse per produrre ricchezza (una ricchezza che, seppure preziosa anche per la possibilità di essere reinvestita nel settore di provenienza, non deve essere il fine delle operazioni di valorizzazione, ma solo il frutto delle buone prassi).
Cambiare rotta nelle politiche di tutela è divenuta una scelta necessaria per proteggere il patrimonio, considerando che purtroppo il caso romano non è isolato. Si tratta infatti di un fenomeno che ha colpito anche altre realtà italiane e internazionali, le quali, in alcuni casi (come Amsterdam o Barcellona), sono dovute ricorrere a inediti strumenti amministrativi14 per contrastare l’eccesso di finalizzazione al turismo.
Alla luce di queste riflessioni si apre uno scenario per il futuro che sollecita la collaborazione fra tecnici e pianificatori, al fine di adottare strumenti di tutela su scala territoriale capaci di contribuire al mantenimento dell’autenticità dei centri storici nelle capitali europee, a lor volta sempre più strette fra opposte esigenze: la gestione compatibile del crescente numero di visitatori; lo sfruttamento sostenibile dei benefici portati dal turismo all’economia; la necessità di non abbassare il livello dell’offerta culturale, al fine di assicurare la trasmissione appropriata alle future generazioni (e la comunicazione a quelle presenti) dell’identità culturale del patrimonio.




Note


1 M. Armellini, Le chiese di Roma dalle loro origini sino al secolo XVI, Roma 1887, pp. 451-453.

2 A. Nibby, Roma nell'anno MDXXXVIII, Parte antica, Roma 1838, p. 237.

3 La zona monumentale di Roma e l’opera della Commissione Reale, Roma 1914.

4 Il progetto prende le mosse da un’idea nata sotto il governo francese del Prefetto Camille De Tournon. L’intento dei grandi interventi previsti in questo periodo era restituire all’area l’afflato imperiale, per rafforzare lo splendore di quello napoleonico (A. La Padula, Roma e la regione nell’epoca napoleonica, Roma, Istituto Editoriale Pubblicazioni Internazionali, 1969, pp.83-112; I. Insolera, Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, in Le città nella storia d’Italia, Roma-Bari 1980, pp. 319-322).

5 Salvaguardia già compromessa in altre zone di Roma, quali Testaccio, Villa Ludovisi o in “pericolo” come Villa Borghese e la stessa area monumentale (La zona monumentale di Roma e l’opera della Commissione Reale, Roma 1914, pag. 15).

6 Negli ultimi anni si è tentato di riprendere questo filone con il festival della letteratura, ospitato proprio sotto le volte della Basilica di Massenzio. Le Istituzioni hanno inoltre proposto una serie di eventi che riprendono il nome di “Estate romana”, nonostante ampie differenze rispetto al progetto di Nicolini.

7 Oltre al Codice dei BBCC anche la Carta di Londra (2008), i Principi di Siviglia (2012) e la Dichiarazione Firenze (2017), con cui vengono stabiliti i principi per l’uso dei metodi e dei risultati di visualizzazione digitale nella ricerca e nella comunicazione relativa ai Beni Culturali.

8 G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma, 1998, p. 30.

9 F. D’Andria, Prefazione, in M. Limoncelli, Il Restauro virtuale in archeologia, Roma 2012, p. 11.

10 Per un approfondimento sugli interventi eseguiti cfr. E. Pallottino (a cura di) Roma, Torre dei Conti. Ricerca, formazione, progetto, in Ricerche di Storia dell’arte n. 108/2012 Serie “Conservazione e restauro”, Roma 2012.

11 Come nel caso di es. S. Stefano a Soleto a Lecce (F. Gabellone, I. Ferrari, F. Giuri, P. Durante, S. Giammarruco, Santo Stefano in Soleto: The Presentation of Heterogeneous Data Using Hybrid Platform, in L. T. De Paolis, A. Mongelli, Augmented Reality, Virtual Reality, and Computer Graphics, Third International Conference, Lecce 15–18 Giugno 2016 Proceedings, pp. 205-216.

12 Come nel caso delle ricerche su Hyerapolis o il progetto ByHerinet per l’Abbazia S. Maria di Cerrate a Lecce, entrambi a cura di Francesco Gabellone.

13 F. D’Andria, Prefazione, in M. Limoncelli, Il Restauro virtuale in archeologia, Roma 2012, p. 11.

14 Ad esempio il controllo delle tipologie di attività turistiche per gli esercenti e del numero di B&B presenti sul territorio.