Contributi specialistici

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Una governance di progetto per l’area archeologica centrale
Pietro ValentinoPDF




Una difettosa governance urbana

Non tutti si rendono conto che l’area centrale di Roma, quella che va da piazza Venezia al Colosseo (e che comprende i Musei Capitolini, la Domus Aurea, il Colosseo e i Fori) costituisce in termini di visitatori il più grande parco archeologico del mondo. Mediamente si registrano, nelle aree soggette a bigliettazione, più di 7 milioni di visite all’anno. In termini di carico antropico, ipotizzando che ognuno visiti mediatamente almeno 2 “luoghi della cultura” (quanto complessivamente permesso dal biglietto di accesso al Parco del Colosseo) si avrebbe che circa 3,5 milioni di visitatori (persone fisiche) calpestano annualmente un’area che misura circa 100 ettari. In grande maggioranza si tratta di turisti che usano la città in forme che possono essere in contrasto con quelle di coloro che la vivono e ci lavorano.
Le difficoltà negli usi dell’Area Archeologica Centrale (AAC) derivano dal fatto che non sono stati elaborati e/o applicati strumenti (urbanistici e di altra natura) in grado di controllare i flussi evitando i contrasti tra i city user. La mancata collaborazione (comunicazione) tra i soggetti responsabili della gestione di quel territorio (Stato e Comune) è una delle cause maggiori del verificarsi di un carico antropico non sostenibile. La gran parte delle aree ad accesso controllato, quelle soggette a tariffa, che potremmo definire le “aree intercluse” dell’AAC, sono prevalentemente gestite dal Parco Archeologico del Colosseo (Stato) che gode di una sua autonomia gestionale, mentre il Comune ha la responsabilità dell’area “interclusa” dei Mercati Traianei. La gestione delle aree circostanti ad accesso libero (come strade e piazze) fa capo al Comune. La più importante area archeologica per numero di visitatori, l’attrattore che rende dal punto di vista turistico Roma una “città mondo”, presenta irrisolti problemi che sono prima di tutto di governance e poi di governo.
Dal punto di vista del governo, le aree archeologiche intercluse sono gestite dallo Stato e dal Comune con buoni standard di qualità di conservazione e valorizzazione. Le difficoltà che si possono riscontrare derivano dal fatto che i due soggetti gestori non interagiscono, portando così avanti politiche di comunicazione e valorizzazione non integrate. Anzi, poiché in qualche caso iniziative ed eventi si sovrappongono, si verifica che le politiche dell’uno tendano a depotenziare quelle dell’altro. Da questa dualità non risolta in parte deriva anche l’andamento contrastante delle visite, come risulta dai dati disponibili. Infatti, mentre nell’ultimo triennio il trend di visite del Parco del Colosseo è positivo, quello dei Musei Capitolini e dei Mercati di Traiano presenta un segno negativo.
Una proposta di gestione consortile di alcune delle attività di valorizzazione non è andata a buon fine, perché nessuno cede facilmente parte dei propri poteri.
Dal punto di vista della governance, l’assenza di relazioni (formali o informali) tra i principali stakeholder pubblici comporta che non esista alcuna integrazione tra la gestione delle aree esterne e quelle intercluse (indipendentemente dal fatto che siano gestite dallo Stato o dal Comune), ovvero tra le politiche di valorizzazione e di sostenibilità delle risorse archeologiche e quelle della città.
In assenza di azioni coordinate di natura strutturale non esiste regolamentazione che tenga, anche soltanto rispetto a pratiche spontanee e comportamenti temporaneamente interrotti o scoraggiati dall’amministrazione capitolina: penso al carattere di suk permanente davanti al Colosseo, con vendita di biglietti “salta fila” e di servizi vari al turista, con i gladiatori che appaiono o scompaiono appena scorgono la polizia municipale.
L’istituzione del Parco archeologico, motivata da problemi prettamente politici, ha finora ulteriormente complicato l’interlocuzione tra Stato e Roma Capitale.
Se il tema chiave è quello dell’uso sostenibile, in tutte le sue accezioni, di quell’attrattore globale che è costituito dall’AAC romana, allora l’accessibilità (sia culturale che fisica) dovrebbe costituire uno dei primi argomenti all’ordine del giorno per ragioni culturali, urbanistiche ed economiche. Non bisogna dimenticare che intorno all’uso e allo sviluppo dei nuovi strumenti per l’accessibilità culturale (dai videogiochi alla realtà virtuale) si gioca anche una partita importante per l’innovazione e lo sviluppo dell’economia romana, che è ancora il “cuore” dell’industria italiana dell’audiovisivo. Una maggiore cooperazione pubblico-pubblico diventa evidentemente strategica anche per fortificare il rapporto pubblico-privato. L’assenza di una strategia integrata nell’uso delle nuove tecnologie digitali nei processi di valorizzazione delle risorse dell’AAC riduce il potenziale impatto economico delle sperimentazioni possibili sull’industria dell’audiovisivo romano. I progetti realizzati e in atto, anche se in crescita, incidono molto poco sul fatturato dell’industria culturale e creativa romana.
Di più difficile soluzione è il miglioramento dell’accessibilità fisica dell’area, in quanto è del tutto evidente che qualunque proposta di revisione della mobilità, seppure circoscritta al nodo del Colosseo come di recente abbozzata in alcune ricerche universitarie in corso, non può prescindere dall’analisi di scenari di mobilità estesi all’intera città in relazione ai flussi di attraversamento est-ovest. Tra gli stakeholder più forti di quell’area c’è Roma Metropolitane, disponibile sinora a usare le recinzioni del cantiere per attività di tipo comunicativo, mentre l’interlocuzione sarebbe necessaria su questioni di ben altra importanza: dalla ridefinizione degli accessi alle aree archeologiche al riposizionamento dei servizi di accoglienza ed altro ancora.
Sulla mobilità urbana ci sono tanti vecchi progetti; quello di Benevolo fatto proprio dalla Soprintendenza ha più di trent’anni. Un’altra proposta fu avanzata da Raffaele Panella, che prevedeva una grande galleria chiamata a drenare i flussi automobilistici dal Circo Massimo e da tutta l’area centrale. Vi era un ulteriore progetto per la mobilità che non ha mai preso il via, previsto in occasione del Giubileo, che proponeva di bloccare tutti i bus turistici alla Stazione Ostiense, da attrezzare per uno scambio intermodale con il tram in parte già esistente, comunque da prolungare fino a Piazza Venezia. Si trattava poi di collegare questo nuovo tronco di mobilità pubblica – il cosiddetto archeo-tram - con la linea tranviaria dell’ 8. Ricordo in proposito che si sono dibattute idee ingegnose dal punto di vista digitale, tra cui l’ipotesi che alcuni finestrini del tram potessero essere in realtà schermi di proiezione; così, alla visione del Colosseo com’è, si sarebbe affiancata quasi senza soluzione di continuità quella del Colosseo com’era. Si potrebbero attuare iniziative di questo genere per coniugare accessibilità fisica con accessibilità culturale, ma di tutto questo adesso non c’è più traccia.
Un uso sempre più massiccio del digitale ai fini dell’accessibilità culturale si sta verificando in quelle aree dove è più forte la pressione antropica. Per esempio, una delle criticità del Parco del Colosseo è rappresentata proprio dall’eccesso di visitatori e in quell’area sarebbe opportuno contenere (se non ridurre) i flussi e, nello stesso tempo, allungare i tempi di visita. Gli strumenti che la rivoluzione digitale ci ha messo a disposizione sono particolarmente utili sia per accrescere l’accessibilità culturale che per allungare i tempi di visita , e vari progetti di questa natura sono stati già attivati all’interno dei Fori, insieme a interventi di recupero di aree e percorsi. Per esempio la realtà virtuale è stata applicata al percorso di visita della Domus Aurea; poi videoproiezioni, lightmapping, voci narranti e nuovi supporti divulgativi aiutano la visita in sette luoghi nell’area dei Fori (dalla casa di Augusto a Santa Maria Antiqua);  infine spettacoli immersivi sono stati realizzati per far rivivere i fasti della Roma imperiale come la performance “Sangue e Arena” realizzata sul piano dell’arena del Colosseo con immagini multimediali, ricostruzioni virtuali e l’impiego di ologrammi proiettati su un telone di 17 metri.
Anche in questo caso una più forte cooperazione tra i soggetti gestori potrebbe far aumentare e diversificare il numero delle sperimentazioni, e per ragioni sia quantitative che qualitative questo potrebbe accrescere gli impatti sull’economia locale.
Se qualcosa si muove nelle aree interne dell’AAC, tutto è ancora da fare in quelle esterne. Nella presentazione del programma da realizzare entro il 2019 la direttrice del Parco del Colosseo, Alfonsina Russo, si augura che in un tempo non eccessivo si possa intervenire anche sui percorsi di avvicinamento al Colosseo, oggi lasciati a sé stessi, usufruendo degli interventi di riqualificazione previsti per le aree antistanti i monumenti. Tra questi interventi dovrebbero essere inclusi anche quelli relativi alla riorganizzazione della piazza del Colosseo, con l’elaborazione in particolare di un piano di sicurezza per gestire al meglio il consistente flusso di visitatori.
In sintesi, la piena valorizzazione dell’ACC e il potenziamento dei suoi impatti sulla città avrebbe bisogno che nel medio periodo fossero ideate e realizzate due grandi azioni strategiche con la partecipazione di tutti i principali attori: una prima azione che dia vita a un progetto territoriale ampio di riqualificazione dei contesti, e un’altra che definisca e poi attivi forme di cooperazione operativamente robuste, anche se informali, tra gli stakeholder, soprattutto quelli pubblici.
Una visione e un progetto territoriale ampio è indispensabile per dare inizio a un coerente intervento di riqualificazione dell’intero contesto dell’AAC e, soprattutto, per risolvere i problemi di mobilità locale. Un ipersfruttamento turistico investe l’AAC mettendo a repentaglio non solo la conservazione fisica delle risorse ma anche la loro qualità culturale in quanto tende a banalizzare le valenze storiche, iconografiche ed estetiche di quel patrimonio. Nella buffer zone dell’AAC romana, non solo il fenomeno dei gladiatori, ma anche la tipologia delle attività commerciali insediate, dei prodotti venduti e delle modalità di uso degli spazi pubblici (dai tavolini alle insegne) sono tali da offendere e svilire i segni e i messaggidepositati dalla storia.
In un’area iscritta alla Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco è quindi urgente intervenire con un Management Plan integrato di medio periodo, per salvaguardare la qualità complessiva dei contesti e renderla coerente con quella di livello globale delle risorse ivi localizzate. Un intervento strategico territoriale è urgente anche per mitigare i gravi problemi connessi alla mobilità. Mi aveva colpito alcuni anni fa, lavorando al progetto SDO, che il nodo di Piazza Venezia veniva ancora considerato nei modelli origine/destinazione dei trasportisti come un nodo centrale per l’intero traffico urbano. Ascoltando le considerazioni degli esperti ero arrivato alla conclusione, che ancora ritengo valida, che una drastica riduzione del traffico privato nell’area centrale potrebbe essere raggiunta accrescendo e rendendo gratuito il trasporto pubblico in una zona a traffico limitato, che dovrebbe essere significativamente ampliata rispetto all’attuale. L’offerta di trasporto pubblico potrebbe in particolare essere ottimizzata, date le risorse a disposizione, con l’aggiunta di nuovi mezzi, con il prolungamento e la realizzazione di nuove linee di tram (come l’archeo-tram) e, ancor più, con una drastica riprogrammazione delle attuali linee: per esempio, prevedendo una serie di shuttle collegati alle stazioni ferroviarie e della metropolitana e mirati a redistribuire i viaggiatori nella ZTL. La gratuità e la crescita dell’offerta di trasporto pubblico avrebbero effetti benefici, non solo sui tempi di percorrenza e sull’inquinamento ma anche sul bilancio dell’azienda di trasporto. I minori ricavi infatti, vista anche l’attuale elevata tendenza all’elusione del biglietto, potrebbero essere facilmente compensati attraverso l’introduzione di una congestion charge (che sarebbe giustificata dalla velocizzazione e dalla crescita di offerta del trasporto pubblico) e dal pagamento di una tariffa per la sosta nelle zone di scambio intermodale. L’esazione di queste tariffe sarebbe più semplice e l’elusione molto più bassa di quella registrata per i titoli di viaggio.  I benefici netti (sia finanziari che sociali) sarebbero alla fine positivi.
Nell’ambito di un progetto territoriale ampio, che investa i molteplici aspetti prima illustrati, potrà trovare soluzione anche l’annoso problema dello smantellamento (o meno) di via dei Fori Imperiali che, preso isolatamente, per varie ragioni non sembra avere soluzione. Ho partecipato qualche anno fa, insieme a famosi archeologi e urbanisti a due progetti del Consorzio Civita sull’ACC: il Progetto PARCHO (1992-93), una proposta di un parco archeologico orientato all’innovazione tecnologica ed organizzativa e il Progetto Fori Imperiali (1996-97), che aveva come obiettivo la individuazione di linee guida per un piano di assetto urbanistico e gestionale dell’area archeologica centrale. Dalle relazioni di archeologi e urbanisti emergeva che lo scavo della via sarebbe stato costoso (basti pensare allo spostamento di tutti i sottoservizi) e sarebbe durato a lungo per poter analizzare ed evidenziare tutte le manomissioni legate ai sommari sterri effettuati in varie occasioni, e per rendere fruibile la nuova area di scavo. L’idea che si delineò allora era di procedere con un intervento scadenzato nel medio-lungo periodo che sarebbe dovuto partire con una significativa riduzione della carreggiata carrabile e con lo scavo archeologico nelle aree liberate dal traffico veicolare. Lo scavo stratigrafico e gli interventi per la fruizione avrebbero preso infatti un tempo considerevole, in quanto l’area liberata avrebbe un’estensione di circa 1 ettaro.
La scarsa accessibilità culturale dell’area scavata negli anni recenti mostra l’importanza di un progetto di comunicazione insieme a quello di scavo. Oggi transitando per via dei Fori Imperiali non siamo messi in grado di comprendere se i ruderi che si vedono dalla strada emersi dagli ultimi scavi si riferiscono alle murature di una cantina del ‘900 o a quelle di una domus romana. L’ipotesi di riduzione della carreggiata avrebbe anche il vantaggio di evitare lo spostamento nell’immediato di tutti i sottoservizi e sarebbe compatibile sia con la realizzazione dell’archeo-tram che con l’eliminazione di tutti i pullman turistici (anche quelli a due piani) dal centro della città. Per l’archeo-tram ho in mente l’intervento che è stato realizzato intorno alla cattedrale a Siviglia, trasformata in una zona pedonale anche se attraversata da un tram silenzioso e senza fili. La connessione fisica tra i Mercati traianei e il Foro, la continuità che la strada interrompe, in parte esiste già ed è rappresentata da quel pezzo della Cloaca Massima noto come “Chiavicone della Suburra”. Per riattivare il collegamento sarebbe sufficiente la cooperazione tra i due soggetti pubblici responsabili delle due aree intercluse. L’intervento su via dei Fori Imperiali richiederebbe anche un ripensamento della funzione urbana di via Cavour, che per non essere ridotta a un cul de sac potrebbe essere ridefinita come una strada deputata all’ingresso pedonale nell’AAC da est (dalla Stazione Termini e da quella della Metro), con un ruolo e una dignità tale da contribuire anche alla riqualificazione di funzioni e attività lungo tutto il suo percorso. Tutte queste annotazioni sottolineano quanto già detto: l’indispensabilità di agire sulla base di una strategia territoriale non troppo circoscritta.
La seconda azione strategica riguarda la ricerca di strumenti e momenti di raccordo tra Sovrintendenza Capitolina e Soprintendenze e Istituzioni autonome statali, come anche tra Sindaco e Ministro. Credo che sia necessario abbandonare la strada del rinvio a modifiche legislative (forse costituzionali) che finora non ha portato a nulla, e individuare invece, sulla base di regole condivise di governance, momenti per la definizione prima di obiettivi strategici comuni e poi dei necessari interventi, lasciandone l’attuazione ai singoli soggetti. La questione centrale, in altri termini, non è come ripartire le entrate e i biglietti, ma piuttosto come definire i programmi da realizzare con tempi e risorse. Per evitare che ad ogni cambiamento di amministrazione si cambi anche le strategie,  condannando la città ad un eterno stallo, i processi di partecipazione dovrebbero coinvolgere tutti gli stakeholder in gioco (dai cittadini agli studiosi, dalle associazioni ai portatori di interesse), in modo che la strategia individuata rappresenti quella maggiormente condivisa. Questo è uno di quei casi complessi dove la strategia partecipata, per la fragilità delle risorse, deve costituire il risultato di una visione top down (delle autorità e degli esperti) che venga sposata con le esigenze identitarie e di qualità della vita che, in modo bottom up, provengono dalle collettività. E sarà solo una forte governance (la condivisione più larga possibile di obiettivi e azioni e l’attivazione congiunta di un processo di partecipazione duraturo nel tempo) che potrà difendere le grandi opzioni strategiche dai temporanei avvicendamenti delle maggioranze politiche.
Molte delle proposte qui presentate sono in linea con i contenuti del documento della Commissione paritetica MiBACT-Roma Capitale per l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma presentato nel dicembre 2014.


Requisiti e condizioni per la concertazione pubblico-privato

Il tema delle sponsorizzazioni, e più in generale, del rapporto pubblico-privato, costituisce un capitolo estremamente delicato. Il problema vero risiede spesso nella mancanza di fiducia; la gestione mista tipo trust anglosassone è da noi difficile -se non impossibile- per ragioni non solo giuridiche. Molti privati, quando intervengono a Roma ( ma non solo a Roma), lo fanno direttamente, dando spesso vita a una loro Fondazione, poiché hanno difficoltà a condividere iniziative con le amministrazioni pubbliche che non sempre sono in grado di  rispettare gli impegni assunti; e poi perché spesso i tempi di realizzazione si allungano a dismisura, per effetto di “barocche” procedure amministrative che finiscono sotto la mannaia dei TAR.
Nell’AAC romana si è verificata la più grande sponsorizzazione mai realizzata in Italia da un privato, ma le difficoltà che l’iter amministrativo ha dovuto superare dimostrano la complessità del rapporto pubblico-privato nelle attività di restauro e valorizzazione del nostro patrimonio culturale. La sponsorizzazione per il recupero del Colosseo, sebbene sostenuta dai vantaggi fiscali, è stata possibile soprattutto per le ricadute di immagine connesse alla fama mondiale del monumento. Ed è proprio sul valore da attribuire a questa fama che è intervenuta la Corte dei Conti, non considerando congruo l’ammontare della sponsorizzazione della Tod’s s.p.a., ovvero 25 milioni di euro nel 2011. L’attribuzione di un valore alla fama è un tipico caso di “prezzo ombra” e non è affatto di semplice determinazione. Di sicuro il mercato non sembra che sia stato disposto a pagare un prezzo più elevato per la fama del Colosseo rispetto a quello offerto dalla Tod’s s.p.a., e infatti non sono pervenute offerte economiche più vantaggiose. Tra bandi di gara non andati a buon fine, ricorso in seconda battuta alla procedura negoziata e richieste al TAR di sua invalidazione, l’iter amministrativo ha preso diversi anni. In un altro caso, e sempre con riferimento al Colosseo, le somme messe a disposizione per la sponsorizzazione non sono mai state utilizzate. Pochi, forse, ricordano che la Banca di Roma, più di 20 anni fa, aveva finanziato sia  numerose attività di monitoraggio e studi che interventi, i quali avrebbero dovuto assicurare il raddoppio dello spazio aperto al pubblico e il restauro di tutto il prospetto nord del Colosseo. La sponsorizzazione ammontava a circa 9 milioni di euro (diciotto miliardi di lire di allora). Gli interventi non furono mai realizzati (le somme sono tornate nella disponibilità della Banca), ma l’immagine stilizzata del Colosseo ha per anni caratterizzato le carte di credito e quelle di bancomat emesse dalla Banca, come previsto nel contratto di sponsorizzazione.
I cambiamenti recenti nella normativa ( in particolare il Codice degli appalti) dovrebbero facilitare l’iter amministrativo e rendere meno complicate le forme di sponsorizzazione, ma c’è da tenr conto del fatto che Roma -rispetto ad altre capitali e città anche italiane come Milano- sconta il fatto che non è sede di multinazionali o di grandi imprese. Questo handicap potrebbe essere facilmente superato se, utilizzando la fama mondiale dei suoi monumenti, le politiche culturali messe in atto dalla città fossero in grado di coinvolgere i potenziali sponsor sparsi per il mondo. Per disporre di questa capacità attrattiva si dovrebbe immaginare Roma come una città globale della cultura, declinata in tutte le sue accezioni e filiere. Una Roma che è, nello stesso tempo, centro internazionale di attività di ricerca e produzione nel campo dell’arte e dell’archeologia, dell’architettura e dell’urbanistica, della conservazione e del restauro, del cinema e dell’audiovisivo. Potenziando, aggiornando e razionalizzando le attività di valorizzazione e di accoglienza ( come mostre, musei, alberghi, porti, aeroporti ), la città potrebbe accrescere la sua capacità di attrarre una domanda culturale e turistica sempre più qualificata. Soprattutto, potrebbe recuperare un ruolo che in un passato remoto ha già svolto e che nell’ultimo secolo è stato appannaggio di Parigi, Londra e New York: quello di diventare la città preferita dai creativi e dagli artisti contemporanei di tutto il mondo. Non bisogna dimenticare che Roma è la città delle accademie straniere, ne esistono più di 25, che già danno vita a una vivace scena artistica internazionale e all’accoglienza di molti artisti.
Le potenzialità ci sono, ma per attivare nuove e più attrattive politiche culturali, fortemente integrate con il contesto sociale e territoriale, diventa di nuovo importante la capacità di istituire un sistema di governance che coaguli intorno a una visione strategica condivisa i principali attori della città. Roma non deve cioè dare solo l’immagine di città statica e “conservativa”, ma è chiamata a trasformarsi in una città che produce cultura e la dissemina sul territorio locale e globale per i cittadini, i turisti e le imprese. Tutti si lamentano per la bassa permanenza media dei turisti, che si attesta su due giorni e mezzo, ma se nell’immaginario la città si riduce a pochi monumenti (Colosseo, Fori e Cappella Sistina), allora basta una visita a questi spazi e, una volta adempiuti questi obblighi, il turista si sarà convinto non solo di conoscere Roma ma anche di non aver alcun bisogno di ritornarci. A Parigi, Londra, o Berlino, la scena culturale è variegata e mutevole, cambiano continuamente gli eventi e le offerte culturali: è l’effimero, la grande invenzione di Renato Nicolini, a rendere queste città sempre diverse e attrattive.
Quando gli operatori culturali romani si sono presentati con una offerta nuova e di qualità sul mercato globale, i risultati sono stati soddisfacenti. Per esempio con il miglioramento di qualità delle sue offerte, e quindi con una crescita di reputazione, il Sovrintendente dell’Opera di Roma  è riuscito a esportare con successo la Traviata a Tokyo, ottenendo una significativa sponsorizzazione da parte di un imprenditore malese (Francis Yeoh Tan Sri) che ha donato un milione di euro, e che nel suo sito presenta in modo anche enfatico questo suo contributo:  “He is the first non-Italian board member of the historic Rome Opera House and helped fund its restoration to keep it from closing”.
La trasformazione di Roma in una città globale richiede prima di tutto che la conoscenza accumulata e in via di accumulazione sia sistematizzata ed elaborata per fini scientifici e di comunicazione.
Immagino sempre un processo partecipato da Istituzioni locali, nazionali e sovranazionali, da università, studiosi e centri di ricerca (sia italiani che stranieri), da creativi e da imprese del settore culturale che si ritrovino in una visione del futuro culturale e turistico della città. Il processo in prima istanza potrebbe concretizzarsi nella realizzazione di un Museo della città. Un museo in senso lato, perché lo immagino come una factory dove convivano un centro di ricerca interdisciplinare, una biblioteca e banca dati anche virtuale, un laboratorio per la sperimentazione di nuovi strumenti di comunicazione, e infine un centro espositivo dove attraverso mostre e ricostruzioni (dai disegni ai plastici alla realtà virtuale) venga narrata e rappresentata la storia della città, il suo passato e le idee per il futuro. Un Museo che cambi in continuazione, che sia in grado di comunicare e attrarre  pubblici molto differenti, che diventi la porta di accesso alla città per i turisti e un centro per il consolidamento identitario dei cittadini vecchi e acquisiti. Gli spazi non mancano: da Pantanella al Mattatoio passando per via dei Cerchi, sono tante le proprietà pubbliche utilizzabili.
In conclusione, la città si trova ormai da tempo ferma a un bivio: o i principali attori della città diventano consapevoli e si impegnano a produrre cultura attrattiva a livello globale, a sostegno anche dello sviluppo economico della città (conservando e valorizzando l’esistente e creandone di nuova), o la città continuerà a sopravvivere consumando lentamente ma inesorabilmente il patrimonio di cultura accumulato in migliaia di anni.