D1. Tra archeologia e urbanistica
Nella varietà delle soluzioni che sono state prospettate fino ad oggi per l’Area Archeologica Centrale di Roma, uno dei temi decisivi e più controversi riguarda il senso primario da attribuire a questo grande spazio composito dall’immenso valore simbolico, storico e culturale e al tempo stesso ricco di straordinarie valenze di animazione urbana e di attrazione turistica. Nella visione al futuro dell’area dei Fori e del suo immediato intorno urbano, sono da confermare le condizioni attuali? Oppure si devono privilegiare gli obiettivi della conoscenza archeologica e conseguentemente un uso condizionato delle nuove aree di scavo, destinate poi a diventare un parco archeologico recintato e sorvegliato? O ancora devono essere mantenute e migliorate le funzioni di attrazione urbana, lasciando lo spazio a disposizione delle molteplici popolazioni che lo affollano nei diversi tempi e lo usano come uno dei luoghi dove la città incontra gli strati più profondi della sua lunga storia? È possibile insomma conciliare archeologia e urbanistica? A quali condizioni?
Conciliare archeologia e urbanistica è non solo possibile, ma doveroso. Conciliare cioè la storia, le memorie del passato con lo sviluppo, le condizioni presenti e l’evoluzione futura della città, di qualunque città, dovrebbe essere un presupposto ovvio e inderogabile. Però normalmente questo non accade, anzi, avviene esattamente il contrario, perché spesso prevalgono le esigenze immediate di interessi particolari da soddisfare, che sono poi quelli che, purtroppo per Roma, hanno sempre condizionato in maniera pesante qualunque provvedimento di interesse generale. Nella storia moderna e in quella contemporanea di Roma, la politica della città è stata sempre condizionata eccessivamente dagli interessi immobiliari, interessi particolari che poi si sono tradotti in assetti normativi, cioè nei piani regolatori, che risultano così il frutto di una mediazione tra i diversi interessi. Devo purtroppo constatare che prevalgono sempre tornaconti molto particolari, quelli privati, e basta guardare una carta di Roma su cui sono indicate le trasformazioni che stanno avvenendo nella città.
Mantenere le condizioni attuali, in maniera particolare per il centro di Roma e per quella parte più caratterizzata dai monumenti antichi che è la zona fra il Campidoglio e il Colosseo, incluso il Foro romano, il Palatino, i Fori imperiali, insomma tutta l’area in cui è prevalente l’aspetto archeologico della città, non è assolutamente possibile. Significherebbe destinare quest’area a forme inaccettabili di separazione, prima di tutto dal contesto urbano. Al centro della città non si può fare un recinto grande quanto un’altra città – perché se si includono le aree che abbiamo menzionato si raggiungono le dimensioni di una città media italiana – chiuderlo e farne una riserva turistica, escludendola dalle funzioni urbane. È una follia che solamente questi singolari governi dei tempi più recenti hanno potuto concepire, interrompendo quel processo che era stato avviato non molti anni fa: liberalizzare l’uso e la frequentazione di questi spazi per tutti – cittadini, turisti, visitatori – e, in qualche modo, renderli analoghi alle aree monumentali come piazza del Popolo o piazza del Pantheon, che hanno uno spiccato carattere storico-monumentale ma al tempo stesso sono città viva, vissuta non solo dai turisti – anche se questo turismo un po’perverso sta escludendo aspetti che dovrebbero invece essere rafforzati. Anni addietro si era sperimentata l’apertura del Foro romano, senza tuttavia sottrarlo ai controlli e alle attenzioni che meritano le zone più delicate, perché è ovvio che un’area archeologica ha frammenti, monumenti delicati, reperti che non possono essere lasciati incustoditi. Queste zone erano sottratte al pagamento del biglietto e quindi restituite proprio alla loro funzione di spazio urbano. Di notte non c’era una frequentazione libera, era prevista una protezione notturna che comunque consentiva le visite accompagnate. In questo modo le aree archeologiche potevano essere usate come spazi di per sé vivibili per chi voleva aprirsi all’esperienza di situazioni così peculiari. Una città come Roma è estremamente diversificata nei suoi diversi quartieri e quindi vi sono anche aree di notevole estensione, come quelle archeologico-monumentali che si prestano ad essere frequentate e vissute da quanti intendono godere di quegli spazi pubblici, traendone il beneficio che ciascuno può ricavare dalla conoscenza storica e dalla contemplazione estetica. Non è detto, infatti, che debba andare al Palatino solo chi studia la casa di Augusto o la pittura di secondo stile. Ogni cittadino dovrebbe poter andare e godere del bello che la storia di questa città può offrire. Questi spazi possono diventare anche luoghi di attraversamento. Quando liberammo l’accesso al Foro romano c’era gente che doveva andare da via Cavour all’Anagrafe, e invece di fare tutto il giro da piazza Venezia, poteva attraversare direttamente l’area archeologica senza porsi tanti problemi, avendo così l’opportunità di attraversare un luogo bello, non in mezzo alle macchine, o dentro un autobus affollato, ma ricorrendo a una pedonalità che faceva anche risparmiare tempo. Un altro tipo di percorso molto apprezzato era quello dal Campidoglio verso il Colosseo attraverso il Foro romano. Si attraversava la zona archeologica - il bellissimo percorso storico monumentale della via Sacra, che già anticamente univa il Campidoglio con la zona del Colosseo - invece di fare il giro a piedi attraverso le strade invase dalle automobili come la via dei Fori imperiali. Io vedrei in questa prospettiva la possibilità di trasformare l’esistente continuando il recupero degli aspetti monumentali, anche attraverso lo scavo, il restauro o semplicemente, la cosa meno costosa che incredibilmente non si fa, l’organizzazione di un diverso assetto della zona monumentale, senza la necessità di alterarla fisicamente. Tutto ciò per esempio è possibile vicino al Velabro e alla Bocca della Verità, dove c’è una concentrazione di monumenti straordinari ancora integri - due templi romani conservati perfettamente, due chiese medievali di una bellezza straordinaria come Santa Maria in Cosmedin e San Giorgio al Velabro, l’Arco quadrifronte. In un contesto del genere, già soltanto queste presenze basterebbero per rendere un’altra città meta di interesse e di visita, un luogo d’attrazione. Però questo spazio straordinario è tenuto oggi nella maniera più sciatta e volgare possibile, con un fiume di traffico che lo assedia e un parcheggio al centro. Certo non sarebbe facile, e forse nemmeno opportuno, eliminare tutto il traffico esistente, anche se tutto è possibile. Ma si può regolarlo, e qui subentrano le doti creative e inventive di chi è chiamato a dare un assetto allo spazio urbano e a studiare le soluzioni migliori, tenendo conto di tutte le esigenze, compresa quella del traffico di attraversamento. Credo che tutto ciò si possa fare, e già solamente questa trasformazione, se venisse attuata con una soluzione ragionevole, consegnerebbe alla città uno spazio nuovo e diverso. In questo senso dico che accontentarci delle situazioni preesistenti non è opportuno, perché c’è sempre la possibilità di studiare assetti migliori. C’è comunque la necessità di stare dietro ai tempi perché le condizioni non sono statiche, tutto è comunque in trasformazione, e anche se noi decidessimo che non si cambia più nulla, cambierebbe lo stesso. Faccio un esempio: le vecchie leggi di tutela imponevano che non si potesse costruire, non si potesse demolire e specificavano altre azioni inammissibili perché nocive per i monumenti. Ma a nessuno era passato per la mente che il deterioramento atmosferico e l’inquinamento rappresentano una forma aggressiva talmente grave da lesionare i monumenti molto più di qualunque altra diretta azione vandalica. Poiché tutto cambia, dobbiamo di volta in volta adeguarci ai cambiamenti in corso e trovare nuove forme di uso, di conservazione e gestione degli spazi di quelle parti della città da privilegiare e da tenere in grande considerazione. Non si può predire il futuro e programmare oggi un’azione che si ripeterà per sempre. Si può, invece, auspicare che vi sia sempre maggiore attenzione verso il patrimonio. Saranno coloro che la dovranno esercitare ad esprimerne una loro propria, senza essere vincolati dalla nostra sensibilità. Da parte nostra, quello che possiamo fare è cercare di avviare, per quanto ci compete, processi di conservazione e di trasformazione ispirati alle nostre intenzioni migliori. Si torna così al punto di prima, ossia ci si trova inevitabilmente di fronte a un conflitto di interessi grandi e piccoli (a volte molto piccoli) che possono essere percepiti come fondamentali per i singoli. Per esempio l’interesse di un ristoratore che invade uno spazio pubblico con un tavolino. Per lui si tratta di una questione fondamentale. Però si arriva al punto che questo processo non è più sostenibile e ci troviamo situazioni di piazze intere, come piazza Navona o piazza del Pantheon per esempio, che sono diventate una selva di ombrelloni, compromettendo qualunque ragionevole forma di uso dello spazio.
La conoscenza è qualcosa insito nelle nostre aspirazioni che comunque si può ragionevolmente esercitare e attuare attraverso tutte le forme di intervento consapevole, ragionevole e corretto per uno spazio urbano. È sbagliato pensare che non si possano realizzare trasformazioni, come scavare una metropolitana o costruire un nuovo edificio, perché c’è un problema conoscitivo. La conoscenza si acquisisce attraverso la trasformazione in atto, se questa è realizzata correttamente, non se, invece, viene effettuata tanto per sgombrare il suolo. Non vi devono essere forme di impedimento pregiudiziale, però che una città come Roma privilegi tra i suoi obiettivi quello di mantenere il più possibile intatti e valorizzati i suoi caratteri storici, archeologici anche di epoche più recenti, mi sembra un obiettivo ovvio, perfino se visto da una posizione molto economicistica. Il benessere di questa città si fonda su questi aspetti, non su altro; e ne dipende in maniera talmente acuta da esporsi ad una usura eccessiva. Intendo dire che il turismo sfrenato porta benessere alla città, ma al tempo stesso la consuma molto. Andrebbe gestito in maniera più consapevole e saggia. La speculazione turistica agisce negativamente non solo sulle cose, ma anche nei confronti degli stessi turisti che sono trattati come limoni da spremere.
D2. Del possibile Progetto urbano
Nonostante il conflitto ancora irrisolto delle visioni e i numerosi fallimenti progettuali finora incontrati, non c’è dubbio che sia diventato ormai urgente dotarsi di un Progetto urbano credibile e alla scala giusta, per indirizzare in modo coerente i diversi interventi che a vario titolo investono l’Area Archeologica Centrale. Ma la forma tradizionale del Progetto urbano, come disegno compiuto di un assetto fisico-funzionale a medio-lungo termine, appare ormai del tutto inadeguata a guidare le trasformazioni future. C’è piuttosto da immaginare una convincente visione per l’avvenire dell’Area; e poi l’avvio di un processo di progettazione aperto, finalizzato al conseguimento della visione prefigurata: in pratica una combinazione flessibile ed evolutiva di interventi multiscalari, traguardati in funzione della visione assunta. La visione dovrebbe essere condivisa quanto più possibile dalla città, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica internazionale, e alimentata operativamente dalle ingenti risorse attivabili in presenza di un progetto ben costruito e affidabile. Quali dovranno essere i temi più rilevanti del nuovo Progetto urbano per l’Area archeologica centrale di Roma, quale la sua forma e soprattutto quali le modalità d’attuazione possibili, nella nostra epoca sempre più dominata dall’incertezza e dall’imprevedibilità per il futuro?
Sono sostanzialmente d’accordo con ciò che si sostiene in questa domanda, ossia che le soluzioni devono rimanere aperte, non fosse altro che per un semplice motivo. Le trasformazioni richiedono tempi molto lunghi. Si considera come eccezionale quanto è avvenuto nell’area dei Fori imperiali negli anni Trenta – la demolizione in soli cinque anni di un quartiere intero grande come una piccola città italiana, in maniera alquanto affrettata – e si è trattato effettivamente di una mutazione assai rapida, indotta da condizioni non auspicabili per il futuro. Ma normalmente questi processi avvengono in tempi lunghissimi. Si tenga conto che si è cominciato a scavare il Foro romano con Pio VII agli inizi dell’Ottocento; e che lo scavo, non quello conoscitivo che continuerà in profondità in tanti aspetti, ma proprio la trasformazione delle superfici in aree monumentali, quindi le zone scavate e considerate spazi archeologici fra il Campidoglio e il Colosseo, si è concluso soltanto negli anni Ottanta del Novecento. Ci sono voluti dunque quasi due secoli per trasformare il Campo Vaccino in Foro romano e per collegarlo al Colosseo. Io ho partecipato a questa trasformazione soprattutto per le due estremità, la zona del Colosseo, che fu sottratta al traffico e aggregata di fatto alla zona del Foro romano, e l’eliminazione della strada che attraversava il Foro romano sotto il Campidoglio tra via della Consolazione e la chiesa dei Santi Luca e Martina. Con questi due interventi si è completata l’operazione iniziata con Pio VII e al tempo stesso si sono avviate trasformazioni di altre aree adiacenti, come i Fori imperiali. Però, per quanto lo si voglia fare rapidamente, concepire un progetto e attuarlo richiede decenni; tra l’altro questo processo deve subire necessariamente rimaneggiamenti per adeguarsi a condizioni che è improbabile prevedere anticipatamente nel loro insieme. Per questo motivo, come si è affermato giustamente nella domanda, le previsioni devono restare aperte. Si dovranno assumere intenzioni e obiettivi ben chiari; però questi dovranno poi adeguarsi alla realtà nel momento in cui si realizzeranno. In secondo luogo, trattandosi di trasformazioni di zone caratterizzate soprattutto dalla archeologia, alcune soluzioni emergono anche dal tipo di ritrovamenti e dalla conoscenza di situazioni che non sempre possono essere prevedibili. Non sono in generale prefigurabili gli assetti antichi, i resti che si ritrovano, le stratificazioni. Normalmente realizzando questi scavi si ha l’obiettivo di portare alla luce i resti romani, ma talvolta si sono ritrovati importantissimi resti dell’età medioevale che era necessario mantenere; soprattutto, direi, ci sono luoghi che hanno avuto una continuità storica straordinaria, come il Foro romano. Questi luoghi non possono essere presentati per quello che sono stati in un determinato momento, ma occorre restituire la percezione della loro profondità storica, ricomponendo un paesaggio urbano evocativo di tutta la storia della città; e questa diventa una tipica operazione di progettazione nel moderno. Quando Boni ha effettuato gli scavi al Foro romano ha ritrovato resti che in parte ha conservato ed in parte eliminato. Il Foro romano, come appare oggi, comprende monumenti barocchi, monumenti medievali, resti romani di età tardo imperiale, quelli di età imperiale, quelli di età repubblicana. Si presenta, quindi, in una situazione che è frutto di una nostra composizione, perché non è mai stato realmente in questo modo. È molto semplicistico e ingenuo per tante persone che vedono questa scena pensare che rappresenta Roma antica, perché non lo è affatto. Prima di tutto sono i ruderi di Roma antica, perché in ciascuna delle fasi storiche la configurazione era ben altra di quello che ci è rimasta. Inoltre si tratta di una composizione di fasi diverse determinata da noi, perché non c’è tutto quello che si è trovato ma piuttosto quanto è sopravvissuto alle trasformazioni indotte dalle attività di scavo e anche di distruzione. Scavare significa rimuovere, eliminare, non solo la terra ma anche le strutture. Nel fare questo non si può verosimilmente eseguire un progetto, prima di tutto perché non si sa che cosa c’è e in che condizioni versa. Per esempio scavando in uno dei fori si presume che si dovrebbe rinvenire una piazza di certe dimensioni a una certa profondità. Però cosa si era stratificato sopra non lo si conosce finché non viene ritrovato. Si tratta dunque di un progetto aperto, che sta alle decisioni di chi lo attua. Il Foro romano potrebbe oggi presentarsi in maniera molto diversa se fossero state fatte scelte diverse. Noi non possiamo fare altro che porci degli obiettivi di carattere generale. Possiamo pensare di indagare e trasformare questa area nella maniera in cui meglio è in grado di rappresentare la conoscenza del passato. Però quella che oggi noi pensiamo sia la soluzione migliore, non è necessariamente la stessa che sarà considerata migliore tra venti o trenta anni, perché nel frattempo si scopriranno cose nuove, verranno nuove idee, si darà importanza ad aspetti che adesso sono considerati meno rilevanti. Insomma non possiamo pregiudicare il futuro. Il futuro, per sua natura, è incerto e imprevedibile. Indubbiamente su ogni tipo di trasformazione incide la consapevolezza e la sensibilità della committenza. Nei tempi nostri la consapevolezza della committenza è alquanto rara, se non in quegli interventi di trasformazione radicale in cui sono stati assunti obiettivi che non erano certamente di conoscenza storica, ma piuttosto di uso retorico del patrimonio per dare una sensazione di potere e di grandezza. Comunque c’era l’esplicito intento di una committenza politica – certo autoritaria, ma che comprendeva al suo interno una certa dialettica tra le diverse posizioni intellettuali in gioco. Quindi non influiva soltanto il volere politico, perché questo si combinava con gli intendimenti e con la cultura di chi doveva realizzare i progetti, e quindi con la capacità dei progettisti.
D3. Un programma a breve
Intanto che si discute la visione programmatica sono in corso interventi eterogenei ed emergenziali che rischiano di modificare in modo rilevante lo stato dell’area, prima ancora di avere a disposizione una prospettiva convincente per il progetto d’insieme, mirato a migliorare l’assetto complessivo evitando gli effetti controproducenti di interventi estemporanei o troppo settoriali. In particolare alcune questioni aperte che attendono risposte tempestive riguardano: a. l’inserimento della nuova stazione della linea C della metropolitana; b. la sistemazione dello scavo degli Auditoria di Adriano a piazza Venezia; c. la disciplina del traffico dei bus turistici; d. la regolazione dell’uso di via dei Fori imperiali; e. come far fronte al persistente degrado indotto da presenze abusive che involgariscono tutta l’area. In attesa della definizione del Progetto urbano complessivo, quali sono a suo avviso le azioni più urgenti da intraprendere? E chi dovrebbe farsene carico?
Per quanto riguarda le azioni da svolgere a breve, ossia quello che intanto si può fare e anzi si sarebbe dovuto già fare, c’è purtroppo il dramma della inettitudine e della incapacità della politica. Siamo nel centro di Roma, e quando si tratta di lavorare su fermate di una linea metropolitana o quando si interviene a piazza Venezia si presentano situazioni spesso inattese. Si trovano ad esempio resti archeologici di altissimo valore simbolico. Sono emersi in effetti i resti di quella che potremmo chiamare l’università di Roma antica, il luogo dove si è formata una cultura che ha contribuito alla gestione di un impero, e non si possono semplicemente rinterrare. Rappresentano qualcosa che arricchisce questa città. Trovare la soluzione adatta per mantenere i reperti visibili e visitabili è molto delicato e problematico. Non si possono nascondere sotto una soletta di cemento, cosa che teoricamente si potrebbe anche fare perché c’è la profondità sufficiente per realizzare una copertura, ricostituendo il piano della piazza, che consenta l’accesso alla visita. Sarebbe una soluzione semplice e un po’riduttiva, che svilirebbe l’importanza del monumento. È pur vero che alterare una piazza come questa, un paesaggio consolidato a ridosso di chiese barocche e con le prospettive sulla Colonna Traiana non è facile. È un tema che penso potrebbe essere risolto molto bene, ma richiede qualità, senso di responsabilità e moderazione; richiede inoltre una grande capacità creativa nel rispetto di un contesto unico. Penso che il nostro Paese abbia tutte le qualità per farlo, ma è difficile che le migliori energie progettuali possano esprimersi in presenza di un assetto politico così vergognoso e inadeguato ai livelli del nostro Paese. La politica è sempre stata rivolta a combinazioni di specifici interessi e di piccoli calcoli elettorali. Se prendiamo in considerazione quanto è avvenuto a Roma in epoca moderna, quindi senza considerare la fase precedente dello Stato pontificio, possiamo affermare che la progettazione urbanistica di Roma non ha mai considerato meritevole di particolare attenzione il patrimonio storico. Le grandi trasformazioni avvenute alla fine dell’Ottocento, con la costruzione di quartieri interi, hanno praticamente invaso tutta l’area della città antica. Alcune aree sono state rispettate rivolgendo loro una particolare attenzione, ma per molte altre si è agito diversamente. L’Aventino, ad esempio, non è meno importante del Foro romano. In generale possiamo dire che non è stato privilegiato l’obiettivo di valorizzare nella migliore maniera possibile i caratteri della città. Non parliamo, poi, della situazione attuale. Adesso siamo proprio al livello più basso. Non si può continuare ad assistere al crollo delle mura di Roma. La situazione è gravissima, anche perché la città è oberata da un debito spaventoso e la colpa è di chi da vent’anni a questa parte ha fatto crescere il debito in modo così assurdo. Non è nemmeno possibile individuare un singolo responsabile, perché questa è una situazione che dura ormai da tanto tempo ed ha riguardato tutti. Gli attuali governanti credo siano incapaci, ma è assolutamente ingeneroso dire che è colpa loro. Non possono tagliare l’erba e togliere l’immondizia ma non hanno nemmeno i mezzi per porre riparo. Bisognerebbe capire quali sono stati i motivi che hanno portato a questo impressionante decadimento di capacità nella gestione politica e amministrativa. Probabilmente la causa va ricercata nell’euforia che è scaturita dagli anni di benessere e progresso, quando l’Italia era in condizioni economiche non gravate da eccessivi debiti e lasciava sperare uno sviluppo continuo. In seguito invece siamo caduti nelle mani di politici che hanno approfittato del bilancio per fare spese pazze e le più inutili, anche al fine di favorire determinati interessi. L’Italia è piena di opere pubbliche incompiute o finite e mai usate: pensiamo alle stazioni ferroviarie di Roma costruite per i mondiali o la vela di Calatrava. Si sarebbero potuti fare investimenti più mirati e spendere il denaro per realizzare opere pubbliche utili, per fare manutenzione, per rinnovare le scuole, cioè per fare tutto quello che adesso ci troviamo sulle spalle, e non c’è più modo di porre riparo. Ora ci stiamo rendendo conto che sono passati sessanta anni e i ponti iniziano a crollare, che tutte le scuole sono insicure, e così anche i monumenti. Anche il territorio ha bisogno di essere curato e coltivato. Si è mai sentito parlare di una riforma agraria dopo quelle fatte successivamente alla seconda guerra mondiale? Eppure ci troviamo adesso intere regioni con terra incolta. Tutte le zone appenniniche dall’Abruzzo in giù sono terre incolte. Andrebbe fatta una riforma agraria perché non si può permettere che un bene produttivo primario come il suolo agricolo venga tenuto in abbandono e addirittura decada. Se non si curano i terreni, se non si coltivano e se non si realizzano terrazzamenti, se non ci si prende cura dei fiumi, la terra viene giù. Con il dissesto idrogeologico stiamo assistendo alla moltiplicazione di frane devastanti e a tutti i disastri provocati dalle alluvioni. Bisognerebbe avere il coraggio di fare una riforma agraria, ma non si fanno le cose impopolari, mai una. Eppure non sarebbero impopolari se venissero spiegate. Le persone le capirebbero sicuramente.