Opinioni a confronto. Tre domande per un possibile Progetto urbano: Esperti

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Paolo Desideri
intervista a cura di Maria Pone
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D1. Tra archeologia e urbanistica
Nella varietà delle soluzioni che sono state prospettate fino ad oggi per l’Area Archeologica Centrale di Roma, uno dei temi decisivi e più controversi riguarda il senso primario da attribuire a questo grande spazio composito dall’immenso valore simbolico, storico e culturale e al tempo stesso ricco di straordinarie valenze di animazione urbana e di attrazione turistica. Nella visione al futuro dell’area dei Fori e del suo immediato intorno urbano, sono da confermare le condizioni attuali? Oppure si devono privilegiare gli obiettivi della conoscenza archeologica e conseguentemente un uso condizionato delle nuove aree di scavo, destinate poi a diventare un parco archeologico recintato e sorvegliato? O ancora devono essere mantenute e migliorate le funzioni di attrazione urbana, lasciando lo spazio a disposizione delle molteplici popolazioni che lo affollano nei diversi tempi e lo usano come uno dei luoghi dove la città incontra gli strati più profondi della sua lunga storia? È possibile insomma conciliare archeologia e urbanistica? A quali condizioni?

Mi piacerebbe, nel rispondere a queste domande, partire da un dato che ritengo molto significativo. Da un tempo molto limitato (circa un anno, un anno e mezzo) è stata presa una decisione particolarmente importante: consegnare una vasta zona dell’Area Archeologica Centrale di Roma all’istituzione di un museo, il “Museo dell’area del Palatino e del Colosseo”. Questo rappresenta, a mio avviso, un passaggio fondamentale, che arriva settanta anni dopo gli ultimi interventi significativi sull’area: quelli di epoca modernista che puntavano alla costruzione di uno “scenario monumentale”, il quale doveva diventare prevalente, da realizzarsi soprattutto attraverso le demolizioni e la rimozione degli stati antropici giudicati allora non congrui. Un simile scenario, tra l’altro molto filmico, non ambiva a produrre un intervento filologico sullo strato antico; era invece volto a ricostruire una monumentalità di tipo fortemente mediatico. Cercando di mettere da parte tutto quello che di ideologico si è depositato su questa storia, risulta comunque evidente che questa operazione ha avuto una portata senza eguali nei processi di trasformazione dei tessuti urbani esistenti.
La decisione di istituire l’ente del nuovo Museo, che oggi ha un suo direttore e un suo statuto, può piacere o non piacere, ma rappresenta un atto amministrativo con cui bisogna in ogni caso fare i conti; nei poteri del direttore sono infatti entrate le competenze del Comune, della Provincia, e in parte quelle di precedenti “Enti Parco” (come il parco dell’Appia Antica). E’ evidente che si tratta di un’operazione molto importante dal punto di vista amministrativo, anche perché, come è noto, la riorganizzazione degli assetti amministrativi è condizione sine qua non, o comunque è un aspetto fortemente condizionante,per qualsiasi operazione progettuale. È necessario partire dalla presa d’atto di questo importante e nuovo dato: immaginare altri futuri possibili che lo rimettano nuovamente in discussione rischia di rimandare “la nave a largo”.
Detto questo, il tema dell’Area Archeologica va ricondotto seriamente al ragionamento sulla presenza di questo grande frammento di territorio urbano che galleggia all’interno di un’area centralissima: è assolutamente evidente che questo frammento non può essere totalmente perimetrato e confinato, vanno individuate delle vie d’accesso, di penetrazione, di sovrapposizione che ne devono garantire una forma di “galleggiamento” sostenibile.
A mio parere sono tre le questioni fondamentali da affrontare. La prima riguarda ciò che avviene all’interno di questa grande “isola galleggiante” nel mare dei tessuti urbani centrali. Al suo interno bisognerà realizzare dotazioni infrastrutturali necessarie a trasformare l’assetto di ottanta anni fa (un assetto da “rovine romantico-moderniste”), in un museo di oltre 60 ettari, un museo-territorio. Questo è un tema che da solo meriterebbe la partenza di due o tre concorsi di architettura non soltanto nazionali ma “interplanetari”, una volta che l’urbanistica fosse riuscita a individuare, in questa “isola galleggiante”, i punti e le funzionalità appropriate.
La seconda questione attiene alla riflessione progettuale sui bordi di queste aree. Il sistema di perimetrazione dell’Area Archeologica è molto cogente sul piano amministrativo, anche se non sempre assume una dimensione materiale; non si può immediatamente e banalmente identificare con dispositivi fisici, con filo spinato o  cancellate, perché l’area è parte integrante della città. Nondimeno, alcune porzioni di questo territorio i cancelli li devono necessariamente avere.
Quindi, se il primo tema riguarda l’interno dell’area, questo secondo si riferisce al perimetro. Urge una importante riflessione progettuale circa il destino della ridefinizione, riprogrammazione, risistemazione dei bordi. Alcuni di questi bordi hanno già prodotto condizioni di paradossale “periferizzazione” interna al centro storico. D’altra parte in tutti quei luoghi in cui questo confine passa virtualmente, in forma immateriale, si rende necessario ripensare gli spazi di bordo come occasione per rigenerare le aree circostanti, e quindi, sostanzialmente, per avviare dei ragionamenti progettuali sullo spazio pubblico connesso.
Un terzo argomento fondamentale è quello legato alle “linee di attraversamento”. Stiamo parlando di un’area di 60 ettari che non è completamente perimetrata ma che fa parte, è attraversata, è re-inglobata, all’interno della città. Le linee di attraversamento vanno allora urgentemente ripensate secondo i termini complessi che impone il tema: devono cioè tenere conto delle diverse modalità e della diversa composizione dei flussi; devono prendere in carico i vari modi di fruizione dell’area, perché questo spazio  contiene simultaneamente alcuni nodi appartenenti al funzionamento urbano, che sono talvolta punti nevralgici nella vita quotidiana della città (penso ad esempio a quel nodo gordiano che è Piazza Venezia, con l’attestamento delle fermate degli autobus, l’arrivo ormai prossimo della metropolitana, ma anche semplicemente rispetto al flusso del traffico veicolare). D’altra parte, sono presenti alcuni flussi che devono essere pensati e dedicati prevalentemente, se non esclusivamente, alla funzione turistica. Questo tema va affrontato al più presto, nell’ambito di uno studio complessivo dei flussi, perché al momento ciò che avviene è frutto di un fai-da-te pressoché totale, in cui i pullman turistici arrivano, scaricano e se ne vanno. È necessario, insomma, organizzare un piano dei trasporti serio, che preveda la individuazione di alcuni spazi dedicati all’arrivo dei flussi turistici, dai quali risulti possibile la loro “presa in carico” da parte di mezzi appropriati (anche dimensionalmente), se possibile operati dagli apparati di gestione del nuovo grande museo. Ma esiste anche una terza categoria di flusso, quello che riguarda la percorrenza libera e mista tra flusso turistico e urbano; si tratta della linea del ferro. Non c’è dubbio infatti che il disegno delle stazioni “Colosseo” e “piazza Venezia” sarà assolutamente decisivo, poiché le linee del ferro sono le uniche sulle quali è sensato  prevedere una sovrapposizione del flusso turistico e di quello urbano, che a sua volta ha un layer autonomo.
Studio dei flussi vuol dire sostanzialmente studio della sistemazione dello spazio pubblico interno e perimetrale; ma a questa impostazione si uniscono una miriade di altre questioni.
Mi verrebbe da segnalare una questione specifica, che può essere significativa in termini di concreta visione progettuale: nell’area in questione esiste già ora una straordinaria possibilità legata al fatto che il sedime archeologico si trova circa otto o dieci metri ribassato rispetto all’attuale ground level, cioè il livello del suolo urbano. Questi otto/dieci metri dipendono, come sappiamo, dal fatto che la quota della città è risalita per i motivi più diversi nel corso della storia. Io credo che dal punto di vista progettuale questo fatto può rappresentare una risorsa straordinaria. L’area contiene già in sé quella condizione che consente di sovrapporre layer diversi, condizione che ad esempio la città di Venezia è costretta a procurarsi attraverso un innalzamento forzato. E’ come se tutto il livello emerso di Venezia si trovasse già comodamente otto metri al di sopra del livello dell’acqua. Tra l’altro questi otto metri, in molte occasioni, aumentano ulteriormente per la peculiare morfologia della città dei sette colli (si pensi all’area del Celio, della Velia, che arriva ad altezze anche rilevanti; a tutta la zona di via Cavour: il ponte degli Annibaldi su progetto di Francesco Cellini, è stato costruito non su questi otto metri, ma su ulteriori dieci metri). Allo stesso modo, si estendono al di sotto della quota archeologica, alla quota infrastrutturale, quella delle linee del ferro che oggi passano circa venti metri sotto il livello della quota urbana.
I progettisti che si impegneranno in questa complessa sfida avranno perciò a disposizione una risorsa notevole e dovranno avere la capacità di impostare i progetti pensando sì alle possibilità offerte dal controllo planimetrico, ma senza mai perdere di vista la sezione, per sfruttare le straordinarie opportunità offerte dalla latitudine dello spessore archeologico, ampliata dallo spessore geomorfologico che caratterizza la Roma dei sette colli e, aggiuntivamente, dagli spessori infrastrutturali che si stanno sviluppando nel sottosuolo.
In questa prospettiva, la questione dello scavo archeologico è certamente un tema importante ma, considerando le problematiche poste dallo spessore e dalla latitudine di questi layer, ritengo che la vera scommessa da affrontare sia quella che riguarda la gestione del rapporto tra il livello della visita turistica e il livello della vita urbana.


D2. Del possibile Progetto urbano
Nonostante il conflitto ancora irrisolto delle visioni e i numerosi fallimenti progettuali finora incontrati, non c’è dubbio che sia diventato ormai urgente dotarsi di un Progetto urbano credibile e alla scala giusta, per indirizzare in modo coerente i diversi interventi che a vario titolo investono l’Area Archeologica Centrale. Ma la forma tradizionale del Progetto urbano, come disegno compiuto di un assetto fisico-funzionale a medio-lungo termine, appare ormai del tutto inadeguata a guidare le trasformazioni future. C’è piuttosto da immaginare una convincente visione per l’avvenire dell’Area; e poi l’avvio di un processo di progettazione aperto, finalizzato al conseguimento della visione prefigurata: in pratica una combinazione flessibile ed evolutiva di interventi multiscalari, traguardati in funzione della visione assunta. La visione dovrebbe essere condivisa quanto più possibile dalla città, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica internazionale, e alimentata operativamente dalle ingenti risorse attivabili in presenza di un progetto ben costruito e affidabile. Quali dovranno essere i temi più rilevanti del nuovo Progetto urbano per l’Area archeologica centrale di Roma, quale la sua forma e soprattutto quali le modalità d’attuazione possibili, nella nostra epoca sempre più dominata dall’incertezza e dall’imprevedibilità per il futuro?

Ho già fatto riferimento, nella risposta precedente, alla questione dei temi a mio parere fondamentali che il nuovo Progetto urbano dovrebbe affrontare. Qui intendo concentrarmi soprattutto sulle possibili modalità di attuazione. Io credo che, viste le particolarità del Museo Colosseo-Palatino, bisognerebbe assumere la prospettiva di conferire, in qualche forma, poteri straordinari dell’Ente museo, al quale dovrebbero essere garantite le risorse, culturali ma anche economiche, per produrre un masterplan complessivo degli interventi interni e perimetrali, e quelli necessari esternamente all’area per garantirne il funzionamento complessivo dentro la città. Se è vero che di progetti per l’area ce ne sono stati un’infinità a partire dagli anni ’70 (un esempio su tutti il progetto Panella con l’assessorato Aymonino, un assessorato che, per la prima volta, era stato istituito appositamente per il centro storico), è altrettanto vero che ognuno di questi progetti si è andato a scontrare con l’impossibilità di confrontarsi concretamente con il tavolo dell’attuazione. A questo tavolo sono infatti sempre stati seduti attori istituzionali differenti e, paradossalmente, contrastanti: Regione, Provincia, Comune, Enti Parchi vari, Sovrintendenze (non dimentichiamo, tra l’altro, che a Roma vigono due Sovrintendenze: la Soprintendenza archeologica statale e la Soprintendenza capitolina). La complessità del tavolo ha reso impossibile superare l’impasse applicando la procedura canonica della conferenza dei servizi, ormai ordinaria e prevista per legge. È necessario, quindi, consegnare ad un primus inter pares i poteri dell’attuazione. Questo soggetto, come se fosse un ente territoriale autonomo, deve poter esercitare un ruolo sovraordinato rispetto agli altri. Siccome siamo arrivati finalmente alla istituzione del Museo territoriale, credo che il passaggio successivo sia quello di conferirgli questo ruolo. Allo scopo si potrebbe affiancare (o costituire presso questo nuovo ente) un ufficio apposito, in grado di elaborare la proposta (l’azione progettuale urbanistica in generale) e poi la sua attuazione attraverso le modalità proprie dell’urbanistica, cioè con un piano particolareggiato, ovvero un masterplan.
La questione delle possibili modalità dell’attuazione credo sia davvero un tema fondamentale. C’è da aggiungere che questo nuovo argomento dovrà fare i conti con enormi potenzialità dal punto di vista del ricorso a capitali privati. Il museo è un business che mette in gioco svariati milioni di presenze annuali, un flusso incessante di turismo. In questo momento il flusso, viene intercettato dal punto di vista economico solo attraverso la bigliettazione, e mai attraverso la promozione. Nessuno vuole suggerire la vendita di “gadget di Paperino” o il business dei gladiatori ma, paradossalmente, proprio la presenza dei “gladiatori figuranti” dovrebbe essere presa in considerazione e analizzata sul piano della domanda di mercato di cui è espressione: è evidente, infatti, che le domande di mercato, se non intercettate, trovano soluzioni fai-da-te. O siamo in grado di individuare le domande di mercato e di “coltivarle” (nel senso di renderle “più colte”), incanalarle e utilizzarle come risorsa, oppure non c’è poi da stupirci se il mercato si attrezza sul solo livello su cui è capace di operare: quello che io definisco del fish and chips. Insomma, per volare alto, c’è sempre bisogno dell’intervento della mano pubblica alla quale spetta necessariamente la governance di un’operazione di notevole complessità. Nondimeno una serie di iniziative già avviate da alcuni operatori privati (in parte favoriti da un “colpo d’ala” che proviene dall’amministrazione) sembrano muoversi nella giusta direzione. Si prendano ad esempio i percorsi di visita e di multimedializzazione ideati da Paco Lanciano e Piero Angela per il foro di Augusto e il Foro di Cesare, e quello per palazzo Valentini, o la recentissima “Welcome to Rome” all’interno del cinema Augustus. Qui Paco Lanciano ha creato una installazione multimediale che consente ad un flusso pressoché continuo di turisti di farsi un’idea, in mezz’ora, di cosa fosse l’Impero Romano.
Allora la possibilità di implementare il sistema in un modo non “gladiatorio”, ma colto (come dimostrano le esperienze che sto citando) è infinita. Dobbiamo avere la capacità, noi come progettisti sul piano creativo e i politici sul piano amministrativo, di intercettare tutto questo come una straordinaria possibilità. Partiamo dal fastidio del gladiatore e da qui risaliamo a capire quali sono le domande implicite del mercato e le possibilità che si schiudono.          


D3. Un programma a breve
Intanto che si discute la visione programmatica sono in corso interventi eterogenei ed emergenziali che rischiano di modificare in modo rilevante lo stato dell’area, prima ancora di avere a disposizione una prospettiva convincente per il progetto d’insieme, mirato a migliorare l’assetto complessivo evitando gli effetti controproducenti di interventi estemporanei o troppo settoriali. In particolare alcune questioni aperte che attendono risposte tempestive riguardano: a. l’inserimento della nuova stazione della linea C della metropolitana; b. la sistemazione dello scavo degli Auditoria di Adriano a piazza Venezia; c. la disciplina del traffico dei bus turistici; d. la regolazione dell’uso di via dei Fori imperiali; e. come far fronte al persistente degrado indotto da presenze abusive che involgariscono tutta l’area. In attesa della definizione del Progetto urbano complessivo, quali sono a suo avviso le azioni più urgenti da intraprendere? E chi dovrebbe farsene carico?

Capisco molto bene il senso della domanda e lo condivido. Se mi passate la battuta sarei in questo senso molto “sovietico”: rigida programmazione fino al varo del masterplan. In nessun’altra realtà territoriale come nel caso dell’Area Archeologica Centrale credo ci sia necessità urgente di sospendere ogni attività in assenza di un documento minimo di programmazione condiviso. Insomma, prima di qualsiasi intervento è necessaria una visione al futuro complessiva e condivisa perché in una situazione della complessità come quella descritta fino ad adesso, l’intervento sporadico, anche se mosso dalle migliori intenzioni, rischia di essere esiziale, di costituire un ulteriore vincolo che può mandare irrimediabilmente in crisi un sistema già troppo pieno di vincoli. Quindi per la prima volta mi sento di dire che dovrebbe essere sospesa qualsiasi azione di trasformazione, benché minima, del territorio; propongo una moratoria generale per l’interruzione immediata del “mosaico di interventi”.
Io sono convinto che arrivare a redigere un masterplan per l’area non è una cosa impossibile; oggi la situazione è estremamente più definita rispetto agli anni ‘70-’80; l’unica questione che davvero resta indefinita (e tuttora forse indefinibile) è il destino del Campidoglio. Questa è la vera variabile che sarebbe molto urgente definire al momento, cosa che appare estremamente difficile. Non c’è dubbio, infatti, che qualsiasi azione concreta e reale di completamento della musealizzazione passi per l’inclusione del Campidoglio. Evidentemente è necessario trasformare il Campidoglio da complesso edilizio utilizzato per l’amministrazione a museo. Farlo, sembra sorprendentemente impossibile, e lo dico come progettista vincitore del concorso di appalto integrato. Il concorso per i Campidoglio 2 è stato aggiudicato in via definitiva nell’ultimo anno di consiliatura Alemanno, nel 2013. Poi ci sono stati due anni e mezzo di consiliatura Marino, nel corso dei quali con il sindaco abbiamo fatto almeno due conferenze stampa di avvio dei lavori.  Eppoi altri due anni e mezzo di consiliatura Raggi, senza alcun passo avanti. La realizzazione del programma Campidoglio 2 (che ricordo è priva di costi per il Comune di Roma, ed anzi porta ad un risparmio di vari milioni di euro l’anno per fittanze dismesse) è un programma propedeutico alla liberazione del Campidoglio, ma oggi sembra definitivamente e desolatamente dimenticato. La trasformazione del Campidoglio nella “testa” di questo enorme museo-territorio rimane, per me, l’unica incertezza rispetto alla fattibilità della stesura di un masterplan, come progetto generale per l’area archeologica centrale che appare sempre più urgente.