Opinioni a confronto. Tre domande per un possibile Progetto urbano: Istituzioni

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Ruggero Martines
intervista a cura di Anna Laura Palazzo e Tiziana Casaburi
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D1. Tra archeologia e urbanistica
Nella varietà delle soluzioni che sono state prospettate fino ad oggi per l’Area Archeologica Centrale di Roma, uno dei temi decisivi e più controversi riguarda il senso primario da attribuire a questo grande spazio composito dall’immenso valore simbolico, storico e culturale e al tempo stesso ricco di straordinarie valenze di animazione urbana e di attrazione turistica. Nella visione al futuro dell’area dei Fori e del suo immediato intorno urbano, sono da confermare le condizioni attuali? Oppure si devono privilegiare gli obiettivi della conoscenza archeologica e conseguentemente un uso condizionato delle nuove aree di scavo, destinate poi a diventare un parco archeologico recintato e sorvegliato? O ancora devono essere mantenute e migliorate le funzioni di attrazione urbana, lasciando lo spazio a disposizione delle molteplici popolazioni che lo affollano nei diversi tempi e lo usano come uno dei luoghi dove la città incontra gli strati più profondi della sua lunga storia? È possibile insomma conciliare archeologia e urbanistica? A quali condizioni?

Una breve, ma necessaria, premessa alle domande poste. Il vincolo dell’Area Archeologica Centrale di Roma, apposto nel 2001, trae origine da una situazione giuridica che si era determinata poche settimane prima del provvedimento. Erano decaduti per legge tutti i vincoli ope legis. Le proprietà pubbliche da inalienabili erano diventate teoricamente alienabili. Nell’area erano incluse anche proprietà che avrebbero potute essere immesse sul mercato, come, ad esempio, Villa Rivaldi oppure l’Antiquarium del Colle Oppio, quello costruito nell’era fascista, e naturalmente potevano essere alienate anche alcune proprietà comunali che sorgono all’interno del parco della Passeggiata Archeologica: serre storiche, casine, e molti altri piccoli e grandi immobili. Questa fu la prima delle ragioni.
La seconda era che il vincolo “ricalca” il perimetro della “zona verde” prevista dal Piano Quaroni e, sostanzialmente, concorre a solidificare la destinazione dell’area. Infine, esso comprende una serie di emergenze per le quali era venuta meno la tutela “ope legis”, quali Piazza Venezia, via dei Fori Imperiali. Ad esempio il Palatino era privo di vincolo ed anche il Colosseo, la via di San Gregorio, il piazzale della Fao, la Passeggiata archeologica e l’inizio di via Cristoforo Colombo fino alle Mura, gli stessi Bastioni sangalleschi. Per il decoro del Colosseo, tempo dopo, venne emanato un ulteriore provvedimento.
Si tratta di un vincolo che abbraccia una grande area monumentale, l’area centrale della città così come concettualmente previsto nel Piano Quaroni. E questa è una premessa secondo me molto importante.
Il vincolo fu, invece, interpretato poi (e su questo io sono profondamente in disaccordo) come un tentativo di “cristallizzare” un monumento dell’era fascista. Al riguardo è opportuno un ragionamento complesso; nel senso che, personalmente, non sono favorevole ad una glorificazione di quel periodo storico, ma non riesco a immaginare una storia che faccia delle selezioni e condanni qualche cosa, qualche momento o qualche realtà alla damnatio memoriae. Il Colosseo nasce cancellando il lago di Nerone; dobbiamo comportarci nello stesso modo in età contemporanea? Abbiamo la medesima concezione per la storia? Rinnegare un momento tragico non vale a cancellarlo.
La storia non è né positiva, né negativa; è quello che è. L’interpretazione degli uomini è altra cosa; ma sottrarre gli oggetti che sono la testimonianza della storia, mi sembrerebbe un abominio in tema di conservazione. Se noi accettiamo che il restauro è in buona misura conservazione, non si capisce, poi, perché si debba applicare concettualmente l’idea di distruggere quella strada per sostituirla con un vuoto urbano enorme.
L’abitato di Pompei è una città che sta a corona di un’area archeologica; ma l’area archeologica spezza la città. Pompei non potrà mai essere un reale tessuto urbano, un luogo, un sito, perché il sito è l’area archeologica.
La stessa cosa non si può dire di Roma, non si possono sottrarre a Roma gli assi generatori che l’hanno creata: via dei Fori Imperiali replica, insieme a via Baccina, una serie di assi che fanno parte della storia urbana e che ne hanno sempre fatto parte, in altri termini ne sono la vera e propria origine: e quindi cancellarli mi sembra antistorico.
Per ritornare alla prima questione posta, va considerato che l’archeologia, dal 1870, diventa l’immagine della Nazione; perché, fino a quel momento, l’Italia era stata l’Italia dei Comuni. Quindi, quando l’archeologia viene, insieme alla presa di Roma, insignita del compito di testimoniare l’unitarietà della cultura nazionale, il periodo che viene scelto è, naturalmente, quello a cavallo tra la Repubblica e l’Impero; cioè il regno della dinastia Giulio Claudia (preferibilmente, ma non soltanto). Quindi si dà molto impulso agli scavi, anche agli scavi nelle colonie, e soprattutto alle operazioni di ricostruzione; proprio per rifabbricare un’immagine urbana congruente ed unitaria dappertutto. Io penso, ad esempio a Florestano di Fausto a Rodi, o ad Amedeo Maiuri che fu Soprintendente di Pompei.
Ancora si deve citare qualche altra circostanza circa la volontà di cancellare questa strada.
L’origine della aspirazione alla “dannazione” della strada la ho quasi da sempre prefigurata ed auto-raccontata come fosse una novella. Siamo a Palazzo Venezia, in una enorme sala. In mezzo alla sala c’è un mappamondo. Alla fine della sala in semioscurità, c’è un enorme scrivania e un uomo in piedi, in attesa che siano introdotti due personaggi. Il segretario bussa alla porta (naturalmente varie decine di metri separano la porta dalla scrivania). I signori, un archeologo e un architetto, entrano guidati dal segretario. Colui che sta accanto alla scrivania li fa sedere e si siede anch’egli, prende l’enorme testone fra le mani e fa cenno al primo dei due di parlare. In realtà non lo ascolta, fa finta di meditare, ma non ascolta nulla. Dopo che il primo ha finito, dà, con un gesto della mano, la parola al secondo. Aspetta ancora, ogni tanto annuisce, ogni tanto guarda l’altro interlocutore.... alla fine congeda i due e spegne la luce. Perché lui aveva già deciso.
Quello che si verificò allora, fu un violento vulnus alla cultura archeologica, che fu umiliata, offesa e “sconfitta” dalla politica della comunicazione e non dalla cultura architettonica.
È ovvio, naturalmente, che la ragione per cui l’archeologia all’epoca fu sconfitta non aveva nulla a che vedere con l’urbanistica, non aveva nulla a che vedere con la disciplina scientifica della conservazione, o forse non aveva nulla a che vedere con la cultura in generale, se non quella del regime. Ma chi curò la realizzazione, la cultura, invece, la possedeva. Sia Piacentini che Muñoz avevano insieme l’intero bagaglio culturale necessario a realizzare l’operazione.
La via dei Fori Imperiali è un segno che per l’urbanistica e l’architettura di un ventennio (non del ventennio in cui è stato costruito, ma di quello successivo) è stato un simbolo fortissimo. Sicché cancellarlo, a mio giudizio, è completamente antistorico. È contrario alla teoria del restauro. È contrario alla storia presa in toto, che non ha una qualità o una quantità. La storia non è oggetto di giudizio, non ha giudici la storia, gli atti degli uomini si, mentre la storia è storia e basta.
Il giudizio può essere positivo o negativo, e in questo caso basterebbe porre ben in vista una targa lì davanti: ‘l’ha fatta Mussolini, esecrate!” Se una cosa è esecrabile la si dichiara tale anche soltanto perché l’ha fatta Mussolini. Prestiamo però attenzione. Non è opera del solo Mussolini. Ben prima è l’origine di Roma, nel senso che quella strada è la replica di un’altra, che è parallela e lì accanto: la via Sacra. Così come l’incrocio fra via dei Fori Imperiali e via di San Gregorio replica l’incrocio tra la via Sacra e la via Triumphalis. Queste due strade sono fondamentali. Posto che questi elementi sono la genesi della città; andarne a cancellare uno, significa costringere i romani a immaginare una città che non è più, e quindi portare a contemporaneità il passato, cancellando il presente.
Veniamo ora alle ragioni della archeologia. Il motivo per il quale gli archeologi lasciano i margini dello scavo incompleti è un comportamento, nei confronti dei ruderi, che consente anche di conservare anche le piastrelle “della zia Felicita, le buone cose di cattivo gusto”, cito a mente dalla lezione di Francovich, un insegnamento importante. Francovich ha sempre sostenuto che lo scavo è una attività scientifica in itinere, e che non esiste mai il momento in cui è concluso, ma, soprattutto, che non si deve mai rinunciare alla sezione dello scavo; perché la sezione dello scavo può essere interpretata in cento modi. In sostanza, non ritiene che si debbano mai modificare gli strati; nel senso che vanno conservati tutti quanti. Perché è come sfogliare un libro, e tu non consumi il libro nello sfogliarlo. L’archeologia, invece, generalmente nello sfogliare il libro distrugge le pagine precedenti, perché per leggere le pagine successive che stanno sotto, occorre togliere le pagine che sono sopra. Perciò si deve attribuire un importante peso alla sezione stratigrafica.
Non si sistemano i margini perché, sistemando i margini, si consuma e si cancella la stratigrafia insieme alle informazioni che essa racchiude.
A questo punto, a mio avviso, la strada va conservata per una ragione di storia, è essa stessa uno “strato”. La strada deve essere una strada carrabile, non può essere un percorso aereo pedonale; perché un conto è una passerella aerea su uno scavo, oggetto costruito per guardare, un conto è la realtà urbana consolidata in un luogo che comunque è necessario sia potenzialmente carrabile. Potrebbe non essere usato come tale, ma se è carrabile, è strada, se non è carrabile, non è più strada. E il “segno” di via dei Fori è il segno di una strada.
Se io la rendo un piacevole percorso pedonale, attenzione: qui c’è una pretesa scientificità che collide e tende a distruggere la storia; e questo non è supportabile. Via dei Fori Imperiali è proprio il simbolo di un’identità civile e addirittura costituisce un’identità “sociale” dei singoli individui. Quando, al liceo, si faceva “sega”, la via era la passeggiata sotto i pini da percorrere emozionati mano nella mano con l’amica del momento. Queste realtà in una città contano forse più dell’unitarietà dei Fori che, peraltro, è tranquillamente praticabile! Si deve tener conto che al di sotto del piano stradale si può transitare da un foro all’altro. Se si desidera un passaggio più ampio si sostituiscano i piloni in mattoni con dei sostegni in struttura più sottile e si avrà il vantaggio di una continuità visiva maggiore.
Il problema concreto del centro storico della città non è costituito da via dei Fori, ma risiede nella gestione della città. Dovendo optare per una “teorica priorità” tra archeologia e urbanistica, allora suggerisco di invertire il binomio in: “tra urbanistica e archeologia”. Non si può non privilegiare la condizione di esistenza del presente, che certamente vede il passato come presupposto, ma non può considerarlo come limite obbligato. E’ questa la risposta al primo quesito.


D2. Del possibile Progetto urbano
Nonostante il conflitto ancora irrisolto delle visioni e i numerosi fallimenti progettuali finora incontrati, non c’è dubbio che sia diventato ormai urgente dotarsi di un Progetto urbano credibile e alla scala giusta, per indirizzare in modo coerente i diversi interventi che a vario titolo investono l’Area Archeologica Centrale. Ma la forma tradizionale del Progetto urbano, come disegno compiuto di un assetto fisico-funzionale a medio-lungo termine, appare ormai del tutto inadeguata a guidare le trasformazioni future. C’è piuttosto da immaginare una convincente visione per l’avvenire dell’Area; e poi l’avvio di un processo di progettazione aperto, finalizzato al conseguimento della visione prefigurata: in pratica una combinazione flessibile ed evolutiva di interventi multiscalari, traguardati in funzione della visione assunta. La visione dovrebbe essere condivisa quanto più possibile dalla città, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica internazionale, e alimentata operativamente dalle ingenti risorse attivabili in presenza di un progetto ben costruito e affidabile. Quali dovranno essere i temi più rilevanti del nuovo Progetto urbano per l’Area archeologica centrale di Roma, quale la sua forma e soprattutto quali le modalità d’attuazione possibili, nella nostra epoca sempre più dominata dall’incertezza e dall’imprevedibilità per il futuro?

Il tema, forse, più rilevante per un possibile progetto urbano dell’area archeologica centrale consiste nel risolvere l’accessibilità in maniera sostenibile. Non è accettabile veder posteggiati i pullman a via di San Gregorio.
L’accessibilità è un problema importante, che non so quanto possa essere risolto dalla Linea C. Non credo che la Linea C possa interamente risolvere il problema dell’agibilità dell’area centrale; neppure raggiungendo anche Piazza Venezia.
Bisognerebbe studiare quali sono gli schemi di percorrenza dei turisti all’interno della città, e in seguito andarli a confrontare con i tour operator. Perché il problema vero della città, come anche a Venezia e a Firenze, è il tempo. La permanenza dei turisti si limita al massimo a due giorni e mezzo per Roma. Questo vale per l’80-90% dei turisti. Sarebbe necessario capire quali monumenti attirano l’immaginazione del turista americano o del turista neozelandese e in che modo intende raggiungerli ed infine confrontare il dato con la realtà possibile.
Un'altra riflessione riguarda i margini dello scavo. Devono essere oggetto di un unico progetto. Sia la Soprintendenza Statale che la Sovrintendenza Comunale hanno consentito a ogni singolo architetto di fare, per ogni segmento e per ogni affaccio, una diversa ringhiera, una diversa scaletta, una diversa pavimentazione. Si osserva una gamma di pavimenti che va dall’alluminio nocciolato, al cotto dell’Impruneta, fino ai battuti di cocciopesto. Le ringhiere sono di almeno otto-dieci tipi diversi; e questo determina una immagine di disordine.
E’ doloroso vedere il Circo Massimo utilizzato come un Luna Park. L’iperconsumo sta tragicamente riformando la vita urbana per sostituirla con la “città Luna Park/fast food”. E’ la risposta ad un turismo a ritmo sincopato, irresponsabile, incolto, ma che tuttavia è un affare!
Quindi, forse, almeno per la cultura, è meglio farne a meno/farne meno.
Credo sia indispensabile un progetto urbano, ma deve essere un progetto di arredo? Il progetto vero, cioè il progetto di via dei Fori non è un progetto d’arredo. Il progetto vero è quello che crea una dimensione della fruizione, che risolve il come si raggiunge l’area centrale, e come la si utilizza. Ma questo enunciato richiede, a mio avviso, dei presupposti che sono estranei tanto all’architettura quanto all’archeologia. Bisogna fare un’indagine, diciamo, sotto il profilo turistico-merceologico, trarre le conseguenze, indicare gli orientamenti correttivi e, sulla base di questo, poi procedere a ragionare sugli accessi e le percorrenze. Il fatto che, per esempio, si entri da un lato e non si possa poi uscire dall'altro e che vi siano delle uscite obbligate, non è affatto un vantaggio. Si potrebbe voler entrare a via dei Fori ed uscire al Colosseo; e questo è consentito. Ma se, invece, si desiderasse uscire al Circo Massimo, si incontrano forti difficoltà. Se infine si volesse uscire alla salita che porta al Carcere Mamertino, non si potrebbe, non perché non esistano i percorsi, ma perché gli accessi sono chiusi.


D3. Un programma a breve
Intanto che si discute la visione programmatica sono in corso interventi eterogenei ed emergenziali che rischiano di modificare in modo rilevante lo stato dell’area, prima ancora di avere a disposizione una prospettiva convincente per il progetto d’insieme, mirato a migliorare l’assetto complessivo evitando gli effetti controproducenti di interventi estemporanei o troppo settoriali. In particolare alcune questioni aperte che attendono risposte tempestive riguardano: a. l’inserimento della nuova stazione della linea C della metropolitana; b. la sistemazione dello scavo degli Auditoria di Adriano a piazza Venezia; c. la disciplina del traffico dei bus turistici; d. la regolazione dell’uso di via dei Fori imperiali; e. come far fronte al persistente degrado indotto da presenze abusive che involgariscono tutta l’area. In attesa della definizione del Progetto urbano complessivo, quali sono a suo avviso le azioni più urgenti da intraprendere? E chi dovrebbe farsene carico?

Il primum movens del Progetto urbano è questo studio. Ci vorrebbe anche una visione d'insieme; ma la visione la si costruisce correggendo via via lo studio. Che cosa richiede la fruizione? Ma prima ancora il quesito da porsi è quale sia la fruizione di un bene di questo genere; il secondo riguarda il tipo di fruizione in atto e secondo quali meccanismi.
Cosa bisogna mantenere a pagamento e cosa no? Di mio, ho un'opinione etica che non corrisponde alla realtà: tutto gratis! Altrimenti si contraddice nei fatti l'articolo 9 della Costituzione. Se, però, si considera anche la pratica per così dire commerciale-mercantilistica, essa ci assicura che la gente va a vedere solo quello che si paga, e apprezza solo quello che costa. Non lo ritengo ragionevole.
Sono ancora legato a quello che scrissero i Costituenti a Parigi nel 1789, quando avvenne la rivoluzione. Essi affermarono che il palazzo del Louvre doveva essere espropriato e consegnato ai cittadini della Francia, doveva restare in eterno gratuito e museo, a testimonianza perenne della cultura dei Francesi… monito, testimonianza e scuola (materia) della cultura dei Francesi.
Dovrebbero essere gratuiti tutti i musei. Certamente è una soluzione fuori tempo, non perseguibile, quindi a questo punto, li si faccia a pagamento tutti quanti.
Tuttavia stupisce la ratio di alcune scelte. Nella politica dei biglietti occorrono scelte chiare. Nel Circo Massimo, ad esempio, perché tagliare fuori i Carceres? Perché il Comune lascia libera una parte come spazio ludico destinato, come dire, alle “sagre di paese”, e un’altra l’ha posta a pagamento? Che senso ha?
Anche senza considerare che la recinzione separa in due lo spazio e fa perdere l’unitarietà del monumento, è quasi un’offesa... Molte volte le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.
Un altro tema è il Colosseo: oggi il monumento è chiuso dai cancelli disegnati dall’architetto Piero Meogrossi. Una ipotesi prevede una seconda cancellata esterna sul limite della pavimentazione in travertino. Dove terminano le lastre di travertino ed inizia la pavimentazione di basoli, parrebbe essere in corso di studio un’altra recinzione. A che serve? Sarebbe più logico, invece, posizionare i cippi. Se l’area di travertino aveva i cippi, si provveda a ricollocare i cippi.
Quanto alla ipotesi di riuso del Colosseo, se questo luogo si deve usare per gli spettacoli, come avviene nell’Arena di Verona, allora è necessario che sia pavimentato. Non credo che il parterre attuale sia tale da poter accogliere spettacoli della dimensione dell’Arena di Verona; nel senso che o si ricostruiscono le sedute, oppure, usufruendo soltanto di quei 200 posti esistenti, si deve rispettare un limite congruente per gli spettacoli.
In queste riflessioni, la questione delle competenze è un tema all’ordine del giorno: in una città come Roma, ci deve essere per l’archeologia un Soprintendente unico. La funzione che avevano i Direttori Regionali e i Direttori Generali prima era quella di raccogliere e coordinare opinioni, pareri e progetti e uniformare le attività in un disegno unitario.
La riforma risponde a un modo settoriale di interpretare l’economia della cultura. L’innovazione del ministro Franceschini distingue beni suscettibili di sostentare, in tutto od in parte, la gestione. Ciò disarticola l’idea di “patrimonio” quale sistema unitario diffuso sul territorio. I diversi segmenti, una volta separati, possono anche essere affidati a gestori differenti: lo Stato, gli enti locali e le fondazioni, i privati. Il processo intende dimostrare che alcuni segmenti sono economicamente sostenibili, ma comporta rischi, oltre a quelli già evidenziati da molti, che il ministro ed i suoi consiglieri forse non hanno valutato. Permette, in un futuro prossimo o remoto, di assoggettare il patrimonio, una volta segmentato, ad un processo analogo a quanto accade alle grandi aziende composite, alle multinazionali americane. Quando esse diventano “decotte” le attività in perdita si cancellano e le altre, una volta frammentate, si offrono sul mercato. La realtà è che i beni culturali, col turismo, producono un reddito significativo, talvolta tale da sostenere città, ma non diretto, bensì esternalizzato ai settori del turismo.
Sono ben poche le realtà, oltre Pompei, il Colosseo e, forse, gli Uffizi, ad autosostentarsi davvero. Gli stessi servizi interni autonomi sono talvolta un altro elemento di criticità. Un caso per tutti. L’ipotetico ristorante interno degli Uffizi e il miglior ristorante di Firenze potrebbero distare poche decine di metri. Perché quindi aprire un ristorante dentro gli Uffizi? Per creare una fonte di reddito per qualcheduno, sottraendola al resto della città? Lo scopo di un pubblico servizio, come quello alla cultura, non è produrre reddito interno ma beneficio ai cittadini.
Il discorso sull’area dei Fori, di dimensioni urbane, è probabilmente diverso, ma va effettuato con particolari cautele, superando consistenti difficoltà tecniche e logistiche.
Per quanto attiene alla Linea C, serve pensare a come si raggiunge l’area archeologica nella sua reale dimensione che non è limitata al Colosseo od ai Fori; la metropolitana non è la panacea. La stazione del Colosseo può essere molto invasiva e forse non è necessaria una mega struttura dotata di servizi commerciali già ampiamente presenti nel centro storico.