Il bel saggio di Filippo Barbera approfondisce la figura poliedrica di Ippodamo di Mileto, attivo nella Grecia del V secolo a.C., tradizionalmente definito come “l’urbanista dell’età di Pericle” o “l’architetto della democrazia”.
L’approccio di tipo genealogico à la Foucault decostruisce queste credenze diffuse, indagando i differenti tagli interpretativi di discipline più o meno affini all’arte di costruire la città e all’arte del governo.
Nella dispersività degli argomenti e argomentazioni tipica delle formazioni discorsive – la filosofia, la storia, la filologia, ma anche l’architettura, l’urbanistica, l’archeologia -, si evidenziano scarti, discontinuità e fraintendimenti, ma anche corrispondenze e convergenze in relazione a due tratti distintivi del pensiero di Ippodamo: da un lato, una competenza sia come scienziato politico che come architetto-pianificatore che non ha precedenti nell’antichità; dall’altro, il dispositivo della griglia ortogonale applicato alle città di nuova fondazione, già frequentato nell’antichità per supportare l’organizzazione e disposizione delle emergenze urbane, che viene qui posto in diretta relazione con la scrittura ex novo delle regole del vivere associato. Nonostante la ramificazione degli interessi storiografici in un arco temporale così esteso, questa duplice narrazione non perde consistenza grazie agli apporti fondamentali di intellettuali di grande spessore, primo tra tutti Aristotele e, per restare alla tradizione italiana, Tommaso Campanella e Gaetano Filangieri.
L’atto della divisione (diairesis) consustanziale alla elaborazione di ogni teoria della città - spartizione delle terre disponibili, separazione dei cittadini secondo le mansioni svolte - scandisce tutte le tappe del processo di diversificazione del corpo sociale in relazione alle esigenze di una polis sempre più perfezionata e plurale che reclama forme di organizzazione aderenti all’orizzonte mobile dei diritti. Non solo: ogni divisione ha proprie regole e misure. In un passo illuminante, Plutarco sottolinea come l’aritmetica utilizzando i nomi distribuirebbe le cose in modo uguale, la geometria invece usando la proporzione le distribuirebbe secondo il merito. In ragione di ciò, la griglia ortogonale è stata interpretata come manifesto spaziale degli ideali democratici: come è stato acutamente osservato, la retta giustizia impone che ciascuno abbia la sua parte, secondo misura. Ma la misura non è la stessa per tutti.
L’attenta rilettura effettuata da Barbera del secondo Libro della Politica di Aristotele colloca la teorizzazione di Ippodamo alla confluenza di due tradizioni statuali: quella di Sparta, che continua ad attribuire le più ampie prerogative alla classe dei militari; e quella di Atene, ingentilita da una storiografia di parte, in cui si sono voluti rileggere i germi della moderna democrazia. Di fatto, già alla fine del VI secolo la polis ateniese aveva affrontato con Clistene una riforma intesa a scompaginare i preesistenti assetti di potere, attraverso l’istituzione di rappresentanze su base territoriale per mescolare la popolazione nell’intera regione dell’Attica.
Nella proposta di Ippodamo, il tema della giustizia sociale (isonomia) si declina come ampliamento delle prerogative dei tre ceti - militari, contadini, artigiani - ammessi alla vita politica attiva con il diritto di voto e il sorteggio delle cariche pubbliche, e in un’estensione ai primi due dei diritti di proprietà della terra. Le ragioni pratiche di questa apertura, compatibile con una cauta mobilità sociale, sono state lungamente dibattute, e si possono leggere anche come misure di prevenzione nei riguardi di sommosse determinate dall’eccessiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi.
Non è dunque una città ideale quella delineata da Ippodamo, ma una realizzazione concreta abitata da uomini: e il Pireo, Thurii e Rodi, città di fondazione non tutte di certa attribuzione al pensatore milesio, attestano di una concezione che si misura sul terreno del nous e del logos, lo spazio razionale del consesso umano, rispetto alle forze della natura (fusis) e degli dei (kratos).
Una concezione, questa, debitrice alla tradizione per quanto riguarda i riti propiziatori, ma fortemente protesa verso specifiche esigenze della comunità, con dimensionamenti e misure dettati dalla disponibilità di risorse oltreché dall’esigenza di partecipazione alla cosa pubblica: è ritenuta adeguata una popolazione massima di 10.000 abitanti. Ma la griglia di Ippodamo, sostiene Barbera, porta il suo logos oltre le mura colonizzando i territori della cora, la regione circostante ove hanno sede le attività agricole, e operandovi la consueta tripartizione praticata intra moenia tra terre sacre, pubbliche e private. Ciò che non viene specificato è se i ceti menzionati da Ippodamo siano destinati ad occupare aree distinte entro la scacchiera urbana, né come avvenga la distribuzione delle terre tra gli aventi diritto.
Un ulteriore topos riguarda la relazione tra urbanistica e architettura, alimentata ma non univocamente determinata dal tracciamento della griglia, la quale, rimanendo sul piano della forma urbis, si limita a fornire una metrica alla divisione dello spazio urbano senza varcare le soglie del privato. L’affermazione della libertà tipologica all’interno della regolarità morfologica dell’impianto stempera l’opposizione spontaneo/istituzionale, libertà/controllo, su cui tanta critica anche recente ha incanalato il dibattito. Piuttosto, si enuncia il tema della molteplicità nell’uniformità come portato della terza dimensione, quella dei volumi edilizi, della materia e della densità del costruito entro i singoli isolati.
Le tematiche cui il saggio dà voce, nel riportare le congetture sull’idealtipo urbano ippodameo e nello scandagliare le ricostruzioni ipotetiche delle sue città di fondazione, si ricompongono nel robusto ancoraggio a tre dominanti fondamentali: territorio, legge, politica, indagati nei loro rapporti di necessità lungo il cammino della polis verso traguardi sempre più impegnativi e complessi. Nelle testimonianze di vita vissuta - e nel caso di Thurii in maniera decisamente cruenta - emerge come elemento problematico la regolazione della convivenza tra etnie diverse, vincitori e vinti, nuovi abitanti e vecchi occupanti, chiamati a contribuire al bene comune con attribuzioni e ranghi differenziati.
Oltre lo spazio, esiste un tempo della città, un tempo che cospira contro i principi enunciati dalle costituzioni urbane e messi in pratica con i tracciati ordinatori. Era ben chiaro ai Greci lo scotto da pagare volta per volta alla rottura del patto sociale per effetto di guerre e di lotte intestine, di sommosse e accaparramenti delle terre, di eventi imprevisti e imprevedibili. Ugualmente chiara appariva negli ondivaghi sviluppi e involuzioni delle società urbane la necessità di opporre al mito della separazione e alla prassi della divisione, al clima delle opinioni e al denso e fluido contraddittorio tra idee di città, un nucleo forte di razionalità e di consenso nutrito dall’alleanza tra tekné e politeia, tra saperi e poteri: un nucleo e un senso dello stare insieme di cui la città in transizione di oggi avverte acutamente la mancanza.