Politiche per l’abitare tra scienze sociali, architettura e urbanistica
Da vari anni il possibile apporto delle scienze sociali alla progettazione urbana e architettonica è stato tematizzato a livello accademico (Gasperini, Stagni, 2001; Amendola, 2009; Signorelli, Caniglia Rispoli, 2008; Chiesi, 2010) più di quanto, tuttavia, sia stato effettivamente praticato in ambito professionale (Scarpelli, Romano 2011).
D’altra parte, anche a livello teorico, l’interdisciplinarietà sconta i limiti dovuti non solo, come ovvio, alle specificità lessicali e concettuali di ciascun sapere, ma anche a una sostanziale differenza nelle modalità di costruzione delle rispettive domande di ricerca.
La valenza immateriale e simbolica del rapporto tra spazi e persone privilegiata dall’antropologia culturale, così come le ricostruzioni tassonomiche perseguite dalla sociologia, dialogano spesso a fatica con gli assetti legislativi, economici e istituzionali ben più cogenti per chi si occupa di progettazione.
Nondimeno, una qualche convergenza si è potuta creare tra antropologia e studi urbani, che sempre più spesso hanno adottato l’approccio etnografico tra le proprie metodiche di ricerca.
Come osservava Bernardo Secchi, infatti, il discorso urbanistico ha gradualmente espanso il proprio campo di riferimento, i propri obiettivi e le proprie strategie, includendo nuovi temi, nuovi oggetti e nuovi attori, in soluzione di continuità rispetto al rigore dei termini e dei criteri di inferenza coltivati nel passato (Secchi, 2012 p. VIII). Entro questo scenario si è collocata la cosiddetta programmazione complessa, che a partire dagli anni Novanta ha teso a sostituire la pianificazione tradizionale di tipo prescrittivo, riformulando la pratica urbanistica da esercizio anzitutto tecnico-giuridico ad attività rivestita di valenze politico-sociali e territoriali più ampie (Clementi, 2006).
Parallelamente, da sapere esperto, rivolto a un limitato pubblico di riferimento, l’urbanistica ha gradualmente sfumato le proprie certezze, assumendo su di sé anche il punto di vista di quanti conoscono luoghi e città in virtù della propria esperienza. Non è un caso che le esperienze di collaborazione interdisciplinare e interprofessionale più significative tra policy maker, urbanisti e scienziati sociali si siano espresse finora nell’ambito dei processi partecipativi e, in maniera derivata, nei più recenti interventi di housing sociale.
Il termine social housing si è definito in Italia negli ultimi quindici anni a partire da iniziative anche molto eterogenee tra loro, in alcuni casi focalizzate più sull’accessibilità economica, in altri più sulla valenza comunitaria, in definitiva accomunate dalla natura privata dei soggetti che le promuovono e finanziano.
Entro questa cornice, il social housing basato sui fondi immobiliari sembra configurare un settore particolarmente interessante sotto il profilo dell’interdisciplinarietà e della collaborazione interprofessionale. Presuppone infatti una pluralità di livelli, che spaziano dalla progettazione finanziaria su cui si gioca la fattibilità degli interventi, alla progettazione architettonica e urbana, dato che, dal punto di vista delle politiche abitative, nella gran parte dei casi si tratta di edilizia concordata; fino alla progettazione sociale, in un’ottica di mixité sociale e funzionale.
Dall’edilizia pubblica all’edilizia privata sociale
Il primo testo italiano interamente dedicato ad “analisi e prospettive” del social housing in Italia risale ormai a una decina di anni fa (AA.VV. 2009). Pubblicato dal Gruppo Sole24Ore, si avvaleva delle riflessioni di esperti di finanza e real estate di formazione bocconiana, con la sponsorizzazione di grandi società immobiliari e associazioni di categoria di realtà industriali e bancarie.
Il tema della casa era rientrato nell’agenda politica italiana proprio nei mesi precedenti, scandito da diversi passaggi legislativi fino al DPCM del 16 luglio 2009, che in attuazione al Piano nazionale di edilizia abitativa ex lege 133/2008 sanciva l’introduzione del sistema integrato di fondi immobiliari per l’housing sociale.
Si apriva così uno scenario inedito nella tradizione delle politiche abitative italiane, che lungo tutto il Novecento si era sostanziata in forma di edilizia pubblica (e a cui nel testo si fa comunque riferimento con il termine social housing), secondo un’accezione più ampia, di matrice europea, in virtù della quale il discrimine non sta nella natura pubblica o privata dei finanziamenti, quanto nell’obiettivo di offrire abitazioni a costo inferiore a quello di mercato.
Al di là dell’anacronismo che produce l’accostamento del termine social housing alla legge Luzzatti del 1903 o al piano Fanfani del 1949, il testo affrontava le politiche per la casa non in termini di welfare, ma di rapporto tra assetti giuridico-legislativi e mercato immobiliare, e del resto non poteva essere altrimenti vista l’affiliazione degli autori.
Di fatto, questa accezione di social housing caratterizzò la prima ondata di interesse sul tema, sia in letteratura che nel dibattito di settore, come testimoniano le traiettorie di approfondimento privilegiate in rassegne come UrbanPromo o Expo Italia Real Estate, fiera dedicata agli investitori in ambito immobiliare. La stessa impostazione del discorso sul social housing era stata assunta anche da un documento a cura del gruppo di lavoro su Politiche e Strumenti per la Residenza Sociale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, che lo definì allora come “un settore ampio, di cui l’Edilizia Residenziale Pubblica rappresenta il sottoinsieme caratterizzato dall’intervento pubblico più forte e diretto, soprattutto dei Comuni e delle ex-IACP” (INU 2007, p. 89).
La natura “estensiva” della categoria di social housing venne rilevata circa un anno dopo da Fondazione Anci Ricerche, che sottolineò tuttavia come il riferimento all’accessibilità economica degli alloggi a prescindere dalla natura pubblica o privata dei finanziamenti costituisse solo una delle molteplici accezioni in uso, benché quella “comunemente accettata” (2010, p. 49).
Di contro, veniva rilevata l’affermazione di “un significato più circoscritto”, riferito a “quegli interventi di politica abitativa di interesse pubblico che vanno oltre i confini tradizionali della edilizia residenziale pubblica e che vedono il concorso di soggetti privati e non profit” (ibid.).
Fu dunque in un secondo momento che la specificità del social housing fu ascritta alla natura privata dei soggetti che vi concorrevano, in soluzione di continuità rispetto all’edilizia residenziale pubblica. Il carattere innovativo di queste politiche si sostanziava così fondamentalmente nella novità degli operatori che concorrevano alla loro implementazione.
L’indagine condotta da Fondazione Anci Ricerche rilevava parallelamente anche un’altra accezione di social housing, “volta a enfatizzare, piuttosto che gli aspetti innovativi di natura finanziaria o immobiliare, quelli di carattere strettamente sociale” (ibid., p. 51). Entro questa cornice venivano ricomprese le più eterogenee forme di risposta al problema abitativo: le agenzie sociali immobiliari per sostenere nella ricerca di un affitto persone in condizioni di fragilità, con funzione di mediazione e garanzia; comunità protette; pensioni e alberghi sociali rivolti a categorie specifiche, come immigrati e rifugiati, persone sottoposte a sfratto, familiari di ricoverati in strutture sanitarie; residenze con servizi comuni, come miniappartamenti destinati a donne sole con bambini o ad anziani; esperienze di co-housing o auto-recupero di immobili.
L’attributo “sociale” vi si declinava quindi, da un lato, in termini di socialità, ovvero di promozione della dimensione collettiva dell’abitare; dall’altro, in ragione dei destinatari socio-economicamente vulnerabili e perciò inquadrabili in ottica di welfare.
A seguire, tra le definizioni di social housing che l’indagine sintetizzò compariva quella che nei mesi e anni successivi si sarebbe imposta all’attenzione: il social housing come “un’area di politica abitativa non ricompresa nella tradizionale edilizia residenziale pubblica e che da questa si differenzia per la flessibilità, per il target (non i più poveri, ma una fascia più ampia di persone in difficoltà), e per i soggetti coinvolti (non solo gli attori pubblici, ma anche il privato e il non profit)” (ibid., p. 52).
In definitiva, quattro erano gli elementi peculiari ascritti al social housing: una funzione di interesse generale, intesa come promozione della coesione sociale nei territori di intervento; il riferimento prioritario a un’area di disagio sociale non estremo; il richiamo a una “sussidiarietà orizzontale”, espressione della convergenza di risorse e attori pubblici, privati e non profit; l’obiettivo di integrare le politiche della casa e le politiche sociali, associando agli interventi edilizi un’azione di accompagnamento sociale.
A livello programmatico, quindi, il social housing si candidava a essere un dispositivo per: “la costruzione di nuovi sistemi di governance territoriale, grazie al coinvolgimento di attori diversi”; “la definizione di interventi mirati su target specifici, individuati non ‘in astratto’ ma sulla base di una lettura sociale del territorio”; “l’ambizione di rispondere non solo all’esigenza primaria di una casa, ma a una più complessiva domanda di ‘qualità dell’abitare’, in termini di relazioni sociali, di servizi, di promozione dell’ambiente”; “l’incontro con le politiche sociali”; “l’utilizzo di nuovi strumenti di tipo finanziario”; l’attenzione a evitare “nuovi ghetti” assumendo come principio “un miglior utilizzo del patrimonio abitativo già esistente” (ibid., pp. 53-54).
Almeno a livello programmatico, veniva così ricorrentemente chiamato in causa un rapporto tra abitare e città fortemente basato su asset intangibili, e in questo senso di interesse antropologico. Si trattava inoltre di favorire la “compartecipazione alla vivibilità del luogo e alla sua rappresentazione civile (quartiere, isolato) allo scopo di ridurre il disagio abitativo”, la “condivisione socializzante dei costi dell’housing soprattutto nei suoi significati relazionali”, la “costruzione di un’identità residenziale in grado di promuovere l’inclusione sociale a livello di gruppo” (Di Zio, Pasotti, Venditti, 2010 p.45).
Entro questo orizzonte, il coinvolgimento del settore privato tendeva a incidere non solo in termini finanziari, ma anche discorsivo-promozionali. Il concetto di social housing, insomma, da anglicismo utilizzato per identificare un’offerta abitativa a costo ridotto indipendentemente dalla natura pubblica o privata dei finanziamenti, era divenuto un elemento di discontinuità rispetto all’edilizia pubblica e ai suoi limiti, in virtù della presunta maggior efficienza degli attori privati e dell’attenzione da questi programmaticamente espressa verso le molteplici valenze dell’abitare.
In questo senso è condivisibile l’idea secondo cui l’introduzione nel campo delle politiche abitative di “una nuova etichetta, dal forte impatto evocativo, capace di creare aspettative in attori nuovi o generare nuove aspettative in attori vecchi, è un segnale di novità, almeno potenziale” (Plebani, 2011 p. 71).
Quali attori per il social housing?
La discontinuità marcata dal social housing basato sui fondi immobiliari rispetto all’edilizia residenziale pubblica si giocava su due fronti interconnessi: da un lato, i destinatari degli interventi; dall’altro, i soggetti preposti alla gestione degli immobili.
Mentre infatti le aziende pubbliche per la casa sono chiamate a presidiare il disagio abitativo assoluto di quanti non sarebbero in grado di sostenere un canone di locazione privato, l’housing sociale introdotto dal Piano Nazionale di Edilizia Abitativa del 2008 assumeva il target della cosiddetta “fascia grigia”, ovvero della popolazione che, per caratteristiche socio-economiche e reddituali, non soddisfa i criteri di assegnazione dell’ERP e tuttavia fatica a sostenere i costi del libero mercato.
Non si tratta dunque di una condizione di bisogno conclamato, bensì di rischio abitativo, che amplifica l’esposizione alle conseguenze di eventi critici o “anche in assenza di elementi di detonazione o di cumulazione dei problemi, [descrive] situazioni di difficile equilibrio tra benessere e disagio, evidenziandone il carattere dinamico” (Torri 2006, p.80).
In questo senso, il social housing, al di là dell’offerta di alloggi a basso costo, si candida a diventare un campo di integrazione tra risposta abitativa e intervento sociale, prospettando quell’orizzonte di “politiche abitative sociali” rimasto tipicamente incompiuto in Italia (Tosi, 2008, p. 158) e sollevando la questione di chi potesse operativamente farsene carico.
Con l’esaurimento dei fondi GESCAL, infatti, il ruolo delle aziende pubbliche per la casa si è sempre più ristretto alla gestione immobiliare dei complessi residenziali (Guerrieri, Villani 2006, pp. 31-44), scontando anzi una scarsa qualità dei servizi erogati, dovuta a gestioni non ottimali, ma anche alla morosità degli inquilini, con conseguenti deficit di bilancio.
Nel tentativo di contenere tali dinamiche, sotto l’impulso del disegno di legge promosso dall’allora Ministero dei Lavori Pubblici in merito a “misure urgenti per il ripianamento dei deficit degli IACP” (29 luglio 1996), a partire dalla fine degli anni Novanta tutte le Regioni avviarono un processo di riforma di questi istituti, legiferandone la trasformazione in enti dotati di autonomia imprenditoriale e dunque stabilendo le condizioni affinché si aprisse per loro un nuovo spazio di mercato. Entro questa cornice di ridefinizione della propria attività, alle aziende per la casa fu inoltre chiesto di introdurre nel proprio raggio d’azione “servizi aggiuntivi a favore dei fruitori di edilizia sociale” allo scopo di “migliorare le prestazioni offerte e agevolare i rapporti con l’utenza e gli adempimenti burocratici” (Federcasa 2010, p. 14).
Furono così istituiti sportelli a disposizione dell’utenza e si diffuse lo strumento della “carta dei servizi”, come assunzione di impegno da parte degli enti rispetto alle proprie procedure e ai tempi necessari per evadere le richieste.
La discussione sul nuovo posizionamento delle aziende per la casa tra mercato e finalità sociale fu tema di un seminario promosso da Federcasa nel giugno 2001 dal titolo “I nuovi modelli dell’edilizia sociale: esperienze a confronto”, dedicato a “cogliere in positivo la sfida degli anni duemila e offrire un’occasione di scambio fra le esperienze dei nostri associati al fine di valorizzare quelle più innovative e che meglio rispondono all’esigenza di miglioramento dell’attività tradizionale o di confronto con il mercato, in quanto riteniamo che solo in un giusto equilibrio fra questi due momenti possa individuarsi una via per il futuro dell’edilizia sociale” (Federcasa, circolare 63/2001).
È interessante osservare come il richiamo alla “novità”, che si è visto permeare l’odierno discorso sul social housing, ricorresse già in quel momento in modo del tutto simile, anche in relazione agli argomenti trattati: “partenariato con altri enti e operatori e modelli finanziari innovativi”; “innovazione nella progettazione e realizzazione degli interventi edilizi”; “miglioramento dei rapporti con l’utenza”; “modelli di gestione innovativi”. Il primo punto veniva declinato in riferimento a “creazione di società miste per la gestione di servizi”; “partenariato nella realizzazione di interventi di riqualificazione urbana”; “promozione di interventi di project financing o di concessioni di costruzione e gestione”. Il secondo punto sarebbe stato illustrato attraverso interventi esemplificativi in tema di “abitazioni a basso costo costruite con progetti o materiali innovativi” o “efficienti sul piano energetico”, “abitazioni per categorie con esigenze particolari (giovani, anziani, immigrati, portatori di handicap)”, “recupero e risanamento di aree degradate”. Il terzo veniva connesso al “miglioramento della comunicazione con gli utenti”, attraverso “l’organizzazione ottimale di uffici per la relazione con il pubblico”, “bollettini di diffusione dell’informazione”, “siti internet”, “punti informativi decentrati”, “call centers”. Alla voce “modelli di gestione innovativi”, infine, il richiamo correva a “interventi che mirino a migliorare il servizio di gestione e a renderne più trasparenti le regole di funzionamento, come ad esempio la carta dei servizi, e che “ottimizzino il rapporto con le imprese che forniscono il servizio di manutenzione”.
È evidente come l’attenzione ruotasse intorno al potenziamento di property e facility management e non dell’attività di gestione sociale. Eppure, era un segnale di come “la missione sociale degli Enti, che pareva ormai passata in secondo piano a fronte dell’esigenza di economicità, di efficienza ed efficacia che erano state il leitmotiv della fine degli anni Novanta, riemerge in tutta la sua importanza e impone di trovare le forme più appropriate, le risorse e le alleanze per poter affrontare adeguatamente la nuova situazione” (Guerrieri, Villani 2006, p. 118).
Eppure, come sottolineato dall’allora direttore di Aler Milano – poi presidente nazionale di Federcasa –, contestualmente a queste ridefinizioni, “la popolazione dei quartieri di edilizia pubblica inizia[va] a esprimere nuovi bisogni”, dovuti in particolare all’invecchiamento della gran parte degli utenti e all’ingresso di nuovi inquilini stranieri, tali da riprodurre “con toni anche più aspri, la situazione che agli inizi degli anni Sessanta aveva indotto la GESCAL a dotarsi di assistenti sociali di quartiere, che favorissero il processo di integrazione” (Guerrieri 2006, p. 109).
La necessità di “trasparenza, capacità di dialogo con il cittadino, professionalità, qualità del servizio” richiese agli ex IACP di “stingere alleanze con altri soggetti qualificati per l’intervento sociale” (ibid.), non disponendo di professionalità adeguate al proprio interno.
Un banco di prova per queste nuove alleanze fu certamente la partecipazione delle aziende per la casa a interventi urbanistici complessi, come i contratti di quartiere, nel cui ambito, come già accennato, stavano maturando quelle professionalità legate alla facilitazione di processi partecipativi e alla mediazione sociale che successivamente avrebbero trovato spazio nella filiera del social housing.
Verso politiche abitative sociali?
Fino a cinque anni fa (*), il limitato numero di interventi di social housing completati rendeva prematura una valutazione della loro valenza sociale, al di là della risposta al bisogno abitativo strettamente inteso. Oggi, come documentato dal portale che Fondazione Cariplo ha implementato per mapparne gli avanzamenti – http://www.housing-sociale.it/ –, il settore si è consolidato, i fondi immobiliari sono venti e i progetti realizzati circa 180, per oltre 12.000 alloggi.
Inoltre, a conferma di quanto il nodo delle competenze implicate nella gestione sociale sia rilevante per garantire l’efficacia ed efficienza degli interventi, sono stati promossi percorsi di approfondimento e condivisione di buone pratiche inerenti, fino alla recente pubblicazione dal titolo Cambiare l’Abitare cooperando. Il Gestore Sociale Cooperativo infrastruttura dell'housing sociale e del welfare urbano (2017), esito dell’attività congiunta svolta da Fondazione Housing Sociale e Legacoop Abitanti.
Qui il social housing viene apertamente riconosciuto come settore in cui “si ridisegna continuamente il perimetro del welfare locale, in quella zona intermedia in cui le politiche per l’abitare incrociano quelle urbane e sociali” (p.169), e la gestione sociale come attività che si colloca “in un punto di intersezione mobile e sfumato tra diverse discipline e attori” (p. XIX).
L’orizzonte è quello della “transizione della Cooperazione di Abitanti […] nella direzione di un progetto imprenditoriale” (p. XX); l’obiettivo è pervenire a una modellizzazione dell’attività di gestione sociale, esportabile nei diversi contesti di intervento.
Si tratta di una prospettiva inedita, soprattutto se si considera, come evidenziato dalla letteratura, che l’integrazione tra livelli di intervento – abitativo, sociale, territoriale – si sostanzia in modi differenti a seconda del contesto e dunque richiede la capacità di “interpretare le specificità della situazione locale” (Cottino 2008, p. 66). In altri termini, si tratta di superare la logica della “territorializzazione dei problemi”, in cui tutt’al più le politiche settoriali vengono combinate per adattarsi ai bisogni, a favore della “problematizzazione del territorio”, in cui quest’ultimo non è mero sfondo dell’implementazione delle politiche, ma uno “strumento di policy” (Bifulco 2005, p. 17), una leva di intervento.
L’obiettivo di codificare l’attività di gestione sociale, i suoi metodi, strumenti e le competenze che richiede coesiste con la necessità di situare gli interventi nella specificità dei territori. Si tratta di un nodo rilevante per lo sviluppo del social housing in Italia, perché solo il radicamento territoriale è in grado di garantire una reale integrazione tra valenza abitativa e sociale.
Per i soggetti del terzo settore chiamati alla gestione sociale degli interventi, la sfida di misurarsi con l’interdisciplinarietà e inter-professionalità è dunque quanto mai attuale.
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(*) Questo articolo è una rielaborazione dell’introduzione alla tesi di dottorato in Politiche Territoriali e Progetto Locale dell’Università degli Studi Roma Tre dal titolo “Abitare a progetto. Le politiche, i territori, le competenze del Social Housing”. Discussa il 27.06.2014, la ricerca ha ottenuto il riconoscimento del premio Giovanni Ferraro edizione 2014.