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Il riuso temporaneo per l’innovazione nel progetto
Andrea Rinaldi, Elisa IoriPDF




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Parole chiave:          Riuso temporaneo, Innovazione, Identità, Economia circolare, Cittadinanza attiva

 

Abstract:
Il riuso temporaneo è un nuovo ciclo di vita di un edificio, una terra di mezzo tra vecchi e nuovi usi, in attesa di risorse economiche che permettano di agire in modo definitivo. L’Ordine degli Architetti PPC di Reggio Emilia e l’Assessorato alla Rigenerazione Urbana del Comune di Reggio Emilia hanno pensato a un workshop di progettazione volto a innovare e sperimentare metodologie di processo e di progetto per il riuso temporaneo di alcuni edifici in disuso nel quartiere S. Croce.
L’esito del workshop, finanziato dal Bando Periferie 2016, ha dato origine a progetti esecutivi che costruiranno nuovi spazi di vita dove la vita non c’era più.

 

 

Perché il riuso temporaneo sarà una condizione futura del progetto di architettura

La condizione attuale ci dice che il modello di città che si è costruito negli ultimi cinquant'anni è ormai inservibile. Ci dice che la tecnologia digitale ha portato enormi cambiamenti negli ultimi decenni, che l’innovazione supera in rapidità ogni possibile immaginazione, che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza (Bauman, 2011).
In questo scenario, il 70% del patrimonio immobiliare italiano è ormai prossimo a fine vita per ragioni di obsolescenza o, ancor peggio, per errori di eccessiva regolazione e controllo edilizio, troppe norme e vincoli alla progettazione. Prima di recuperarlo definitivamente trascorreranno anni, forse decenni se lo scenario economico e normativo attuale non cambieranno rotta. L’architettura è, infatti, un sistema con una sua logica. Il peso connesso alla sua storia, lunga secoli e ricca di fatti importanti, le conferisce una consistente inerzia, rendendolo particolarmente lento nelle trasformazioni. La storia supporta pensieri, metodi e risultati già provati e consolidati, finendo con l’oscurare le idee e le innovazioni che vale la pena diffondere. Mentre ogni volta che innovo lascio qualcosa di certo nella speranza di un risultato atteso migliore, quando conservo non perdo nulla: nel sistema di garantire la sopravvivenza della specie su cui è impostato, il nostro cervello rende molto più semplice la seconda soluzione rispetto alla prima. Ma è la seconda che ha permesso l’evoluzione della specie. Innovazione e conservazione hanno caratterizzato l’evoluzione dell’architettura nel corso del tempo, in un continuo oscillare tra i due estremi, ma è la prima che ha consentito di passare dalla capanna alle abitazioni contemporanee. Non possiamo pretendere che le cose cambino se non cambiamo il modo con cui le affrontiamo: rischiamo decenni di abbandono, di degrado dello spazio urbano e conseguente degrado sociale che non possiamo permetterci. Se si sanno cogliere le opportunità, lo spazio urbano può, sfruttando le grandi trasformazioni tecnologiche ed economiche, subire una rivoluzione simile a quella che ha cambiato il software (Ratti, 2017).
Invece di lasciare i vuoti urbani e gli spazi dismessi nella lunga attesa di risorse economiche e adeguate destinazioni d’uso, non è più logico introdurre un nuovo ciclo di vita tra quello che c’era e quello che ci sarà? Diviene pertanto necessario rivedere con umiltà e intelligenza il nostro modo di progettare la città, utilizzando metodi diversi e strumenti capaci di intervenire sulla modificazione urbana. All’interno della città devono essere definite nuove trame capaci di riflettere i mutamenti dovuti alla precarietà economica e alla temporaneità dei cicli di vita, del lavoro e dello svago.
Questa modalità, fatta di trame, è propria del riuso temporaneo. Il riuso temporaneo non va confuso con la pratica del restauro (dal quale è lontano anni luce, per fortuna), che sta pericolosamente impedendo ogni innovazione nel progetto e nella costruzione dell’architettura, né con la riqualificazione o il recupero che hanno come obiettivo un intervento a lungo termine. Il riuso temporaneo è un nuovo ciclo di vita di un edificio, una terra di mezzo tra vecchi e nuovi usi, in attesa di risorse economiche che permettano di agire in modo definitivo. Si tratta di una metodologia dai benefici evidenti che consente di rigenerare porzioni di città dimenticate, di recuperare spazi di socialità e innovazione, e di riattivare processi economici diffusi nel territorio che sono le basi di una migliore uguaglianza sociale su cui regge l’equilibrio di una comunità. Come diceva Giancarlo De Carlo (in Spazio e società): “il riuso è un processo che per forza di cose è costruito sulla base di una dimensione collettiva”.
Tuttavia il riuso può originare rischi, altrettanto evidenti. Il primo, è il pericolo che il riuso temporaneo venga strumentalizzato dalle istituzioni come modo per eludere o procrastinare investimenti e problemi. Questo è in realtà poca cosa rispetto al fatto che questa pratica riguardi esclusivamente le minoranze (religiose, di origine, di cultura) senza intercettare la domanda, dell’intera comunità, di riappropriazione degli spazi in abbandono. Ultimo, il peggiore, è l’assenza d’idee e di una metodologia di progetto (certamente differente da quella che si utilizza per il progetto dell’architettura), come condizione che rischia di generare spazi inospitali o inadeguati. Diventa necessario pertanto imparare a concepire il progetto di architettura come dialogo critico con le condizioni al contorno (di luogo, di necessità, di compatibilità ambientale, economica, sociale) e non come disciplina isolata o ”incessante novità senza necessità” (Gregotti, 2014).
Innovare l’architettura dello spazio urbano: le scelte che facciamo oggi determinano la portata delle possibilità che si presenteranno domani.

Il Quartiere Santa Croce come processo esperienziale di un nuovo modo di “fare città pubblica”

Per individuare le corrette forme del fare città pubblica in un contesto di criticità urbana occorre innanzitutto un’assunzione di responsabilità della società civile nell’individuazione di funzioni di interesse pubblico, in grado di ridare nuova vitalità a luoghi a lungo dismessi, ricostruendo nuove identità di luoghi, spazi e comunità.  Non è più il tempo della quantità, della stabilità, del grande progetto autoreferenziale, anche l'urbanistica ha le sue responsabilità. L'eccessiva pianificazione del territorio e il costante inseguimento della rendita fondiaria, ha generato conurbazioni di luoghi disfunzionali e sempre più lontani dal quel senso di comunità che ha strutturato i quartieri storici delle città italiane. Il quartiere storico di Santa Croce, localizzato nella prima cintura nord del Comune di Reggio Emilia1 è, più di ogni altro luogo della città di Reggio Emilia, quello che ha vissuto e recentemente subito questo processo che è intimamente connesso all’insediamento e alla dismissione poi delle ex Officine Reggiane, indiscusse testimoni dell’industria locale. Nei primi anni del ‘900 le Officine Righi si insediarono nell’area periferica di Santa Croce in prossimità dei binari ferroviari, trasformate successivamente in Officine Meccaniche Reggiane, specializzate nella produzione di materiale rotabile ferroviario. Il territorio agricolo che caratterizzava l’intorno dell’insediamento produttivo, si trasformò nei primi anni 20 del Novecento con puntuali interventi residenziali e nuove realtà produttive lungo l’asse stradale di via Gioia. Ma è nel periodo della ricostruzione che il quartiere si estese fino a raggiungere l’attuale estensione territoriale: le aree circostanti gli insediamenti produttivi vennero occupate dalle residenze degli operai, la città si ampliò, il quartiere crebbe attorno alle aree produttive, determinando usi differenti spesso in conflitto tra loro. A una situazione di marginalità economica e sociale data da una forte presenza di residenti stranieri, pari al 38,8% della popolazione residente, e di degrado edilizio e ambientale, con rischi per la salute pubblica derivanti da un'alta concentrazione di terreni da bonificare, si sono aggiunte diversificate forme di fragilità, che hanno generato un forte impatto sul sistema del welfare locale.
La condizione attuale “ post metropolitana”, (Harvey, 2015), è una conseguenza e non la causa dello stato delle cose, e si caratterizza per abbandono, povertà e nuovi conflitti. Già Le Corbusier asseriva: le città non sono più degne del nostro tempo. Non sono più degne di noi; le città logorano il fisico e mortificano lo spirito.
Lavorare sulla città esistente, con i suoi conflitti, aspettative, ed esigenze sempre rinnovate, impone un insieme di azioni parallele che spesso si declinano in riqualificazione, recupero, riuso, rigenerazione. Termini diversi, a volte simili a volte profondamente diversi per indicare la necessità di agire con metodologie diverse in una sinergica e rinnovata progettualità urbana.
A Santa Croce negli ultimi anni sono state attivate politiche economiche e di rigenerazione urbana della città orientate alla riduzione del consumo di suolo, e a favorire la rigenerazione della città esistente; il quartiere, ancora oggi, si trova in una fase, molto delicata, di progressiva ricostruzione della propria identità.
Ed è in una fase congiunturale economicamente complessa come quella attuale che il quartiere Santa Croce si è trasformato in un laboratorio sperimentale in cui un nuovo approccio alla rigenerazione si fonda sulla ricerca di accordi e regole condivise in grado di incentivare pratiche attive e di utilizzo di beni e spazi,dare risposte all’utilizzo dell’area in quel tempo di mezzo, a volte indeterminato di perdita delle originarie funzioni e potenzialità.
La nascita del Parco Innovazione con il recupero degli ex insediamenti industriali delle officine Reggiane, a fianco del Centro Internazionale Loris Malaguzzi (Centro Internazionale per l’infanzia volto a valorizzare la cultura e la creatività di bambini, ragazzi, genitori e insegnanti, nato grazie all’impegno pedagogico di Loris Malaguzzi) e l’inserimento di funzioni e servizi ad altissimo potenziale d’innovazione, creatività e attrazione per le imprese e il mondo della ricerca, sta attraendo investitori pubblici e privati. Parallelamente, attraverso un forte investimento sulla “città pubblica”, si sta ridefinendo il forte ruolo di struttura urbana del quartiere quale connessione e integrazione non solo tra porzioni di città, ma soprattutto tra i cittadini che la abitano e la vivono.
La riqualificazione delle ex Officine Reggiane (fig. 1), rappresenta un volano straordinario per la rigenerazione urbana e sociale di Santa Croce. Un quartiere attrattivo, dinamico e sicuro rappresenta una condizione necessaria per sostenere il processo di profonda trasformazione, fondata su sapere, lavoro e qualità urbana, in atto alle ex Officine Reggiane.
Le città come sostiene La Cecla  “sono entrambe le cose, un interno, un identità di appartenenza, e un esterno, quello che esse rappresentano a una scala più ampia e l’immagine imposta dall’esterno” (La Cecla, 2015). Riqualificare uno spazio complesso come l’area delle ex Officine Reggiane, dense di memoria storica cittadina, implica ridefinire una nuova immagine urbana sostenendo quell’appartenenza ai luoghi dell’intera comunità che vive la città2.

Dalla rigenerazione urbana al riuso di edifici dismessi

È indispensabile operare un cambio di paradigma della cultura del fare città: dal controllo tipico di visioni monodirezionali dall’alto verso il basso, alla responsabilità diffusa della cura, collettiva ed individuale, dei luoghi dell’abitare quotidiano entro un rinnovato sistema normativo.
La rigenerazione di un quartiere necessità di azioni sinergiche sociali, culturali e progettuali che da un importante investimento sulla città pubblica siano in grado di innescare micro processi di rigenerazione e riuso dei luoghi e degli spazi in abbandono riconnettendo funzioni, identità perdute e nuove esigenze della collettività.
Per innescare questo processo virtuoso nel Quartiere di Santa Croce è stato avviato un procedimento partecipativo che ha coinvolto gli spazi dismessi e in attesa di trasformazione (figg. 2-3), potenziali luoghi di degrado sociale e incubatori di insicurezza e abbandono, considerandoli come aree occasione per progetti legati al mondo della cultura, associazionismo culturale e sociale, produzione culturale, artigianato e innovazione sociale. Si è perseguita una profonda rivoluzione della cultura del ‘fare città’, attraverso l’incentivazione e l’attrazione di economie informali e nuovi servizi auto-organizzati per la città. Il riuso, infatti, pone al centro dell’azione progettuale il contenuto, la funzione, le persone che lo promuovono e il loro rapporto con il contesto sociale in cui si innestano. Il valore, soprattutto sociale, del contenuto è dunque più importante del valore economico delle opere necessarie per il suo funzionamento. È stata avviata una raccolta di manifestazioni di interesse, tramite avviso pubblico, al fine di raccogliere da un lato le disponibilità di privati nella concessione di aree e immobili non utilizzati e, dall’altra, sollecitare la presentazione di proposte da parte di cittadini, imprese, associazioni, di progetti per il riuso temporaneo degli stessi. Alla manifestazione di interesse hanno partecipato i proprietari dei principali complessi immobiliari e oltre cinquanta, fra associazioni, imprese, cittadini, che hanno presentato progetti di rilevante interesse pubblico. Le manifestazioni d'interesse comprendevano una molteplicità di funzioni: artigianato di servizio all’impresa e alle persone, esposizioni temporanee, spettacoli teatrali, laboratori didattici e attività sportive.
È stato attivato un workshop di progettazione per coinvolgere gli ordini e i collegi tecnici (architetti, ingegneri, geometri, periti) di Reggio Emilia, funzionale per cambiare il punto di vista dei progettisti sulla metodologia di progetto del riuso temporaneo. Provare a generare spazi ad alta qualità di vita a costi limitati era l’obiettivo principale del workshop. Come facilitare, supportare, progettare lo spazio di queste nuove forme dell’abitare, del lavoro e dello svago con progetti di riuso temporaneo, era il quesito principale cui rispondere. Che cosa si potesse ottenere con un processo condiviso ponendo al centro il progetto, era la scommessa.
Le proposte presentate prevedevano molteplici funzioni – artigianato di servizio all’impresa e alle persone, esposizioni temporanee, spettacoli teatrali, laboratori didattici e attività sportive – che sono state verificate nella loro fattibilità tecnico-economica ricercando la soluzione più performante per un progetto a ‘bassa definizione’ edilizia, ma ad alto contenuto sociale3.
Sono stati proposti progetti semplici, costruiti in parte con tecniche realizzabili in autocostruzione. Qualità e costo sono stati i temi principali dei progetti per il riuso temporaneo, i quali hanno tenuto conto anche di una serie di fattori quali la durata prevista per il riuso, il programma di riuso, lo stato di manutenzione dello spazio, oltre agli attori coinvolti nel processo. Questo processo ha visto il proprietario dello spazio e l’usufruttuario diventare attori principali, con il supporto di figure specializzate quali un intermediario facilitatore e un team di progettisti; una nuova modalità di progettare, in cui proprietari, progettisti e nuovi fruitori lavorano insieme per ridare forma e vita a spazi dismessi attraverso soluzioni innovative.
Questo tipo di approccio va di là del profitto economico, della dimensione funzionale o formale della progettazione, e sia addentra nella dimensione più sociale e intima della riconquista dello spazio come bene per la collettività.
L’esito del workshop, finanziato dal Bando Periferie4, ha dato origine a progetti esecutivi che costruiranno nuovi spazi di vita dove la vita non c’era più e ha permesso di attivare un rapporto sinergico tra la riqualificazione di un ex comparto produttivo dismesso, le ex Officine Reggiane, Parco Innovazione di servizi e funzioni, e azioni puntuali di riuso urbano di spazi e luoghi, con un forte investimento sulla “città pubblica” e sulla struttura urbana di connessione, costituita soprattutto di cittadini in cerca di nuova identità sociale. (Figg. 4-9).

Il riuso temporaneo in un’economia circolare

Il ciclo economico che caratterizza il modo di vivere della società contemporanea è definito lineare. Significa che dalla materia prima necessaria per costruire un prodotto passiamo al prodotto stesso, poi al suo uso e, terminato il ciclo di vita, al rifiuto. Il ciclo di prestazione dei prodotti è sempre più frequentemente inferiore al loro potenziale ciclo di vita. Stampanti e computer fuori uso dopo un tempo predeterminato, telefoni cellulari superati da modelli sempre più performanti anno dopo anno che, dismessi, si trasformano in rifiuti, trapani utilizzati mediamente tra i 6 e 20 minuti durante il loro ciclo di vita, sono ormai un fenomeno comune che è parte integrante della società della crescita (Latouche, 2013).
È un ciclo che va definitivamente invertito in favore di quello che è invece definito circolare, dove dalla materia prima si passa al prodotto, al suo uso e in ultimo al suo riuso, generando nel corso del processo una quantità di rifiuto irrisoria. Ciò che ora consideriamo uno scarto può divenire una risorsa.
Che cosa esiste di più circolare di un processo di riuso temporaneo, che con poche risorse a disposizione genera attività ed economie diffuse? Nulla.
Distribuire su più persone è un diverso modo di pensare l’economia: tende a diffondere il valore ove è necessario, invece che concentrarlo nelle mani di pochi (Raworth, 2017). Nel riuso, inoltre, non si progettano oggetti che sono già disponibili, ma nuove relazioni che l’oggetto è in grado di produrre. Abbiamo bisogno di pensare il progetto della città come una progettazione rigenerativa, per restituire alle persone, e non agli oggetti, il ruolo di attori.
Tre sono i possibili passaggi che, riscoperti, possono originare innovazione nella metodologia di progetto e, di conseguenza, nel risultato.

Primo, cambiare il modo di vedere le cose.
Gli architetti, e con essi il progetto di architettura e della città, sono destinati a scomparire, sempre che non escano dalla loro gabbia dorata e inventino cose nuove. Come architetti possiamo fare molto di più che costruire edifici o città, possiamo cambiare le cose.
La semplicità, molto diversa dalla semplificazione o dall’appiattimento, è un modo per invitare a restituire necessità ed essenzialità al mestiere dell’architetto (di conseguenza all’architettura) e renderlo meno esercizio decorativo o rappresentativo. Il concetto di semplicità è uno dei più ingannevoli del mondo: dal latino simplex, composto dalla radice sem uno solo e da quella di plectere, piegare. Piegato una sola volta. Quindi il semplice non è il non-piegato, o piegato mille volte in maniera organizzata, bensì il piegato una sola volta. L'immagine della piega singola è molto espressiva: il semplice non è quella cosa che si comprende in modo automatico e pleonastico, ma è quell'unicum non ulteriormente scomponibile, autentico e originale per definizione. È raro che le cose siano effettivamente semplici come sembrano, soprattutto oggi, nella società contemporanea dell’eccesso, dove il troppo è diventato normale e il senso della misura e dei limiti qualcosa di arcaico.
Ricercare e riscoprire la semplicità richiede un gran lavoro. Il modo più efficace per raggiungere la semplicità è attraverso una riduzione ragionata. Ridurre il superfluo, usare di meno per ottenere di più, è un principio etico (oltre che economico) a ogni livello di vita. Ridurre significa lavorare sul concetto di minimo, significa concentrare le percezioni sulle cose gerarchicamente più importanti incorporando le altre, significa evitare di mostrare ciò che non è utile al raggiungimento dell’obiettivo.
Semplice in questo caso è il contrario di misto, caotico, indefinito, eccessivo. Corrisponde all’idea di un ordine ragionato, di limite, di esatto: come disse Hans Hoffmann, “la capacità di semplificare significa eliminare il superfluo in modo che sia la necessità a parlare”5.

Secondo, servire a uno scopo.
Servire a uno scopo ben definito è il compito principale del progetto di architettura. Per riscoprire l’utilità di un progetto di architettura è necessario partire dal perché lo facciamo e riuscire a rispondere a questa domanda in modo esatto. Per esattezza, in questo caso, non s’intende il concetto di precisione della misura benché fondamentale per la pratica dell’architettura, ma quello, appunto, del servire a una causa ben definita.
Esatto, in questo modo, vuol dire efficace, scelto, definito. La crisi dell’energia e i cambiamenti climatici degli ultimi anni ci hanno fatto capire che la qualità di vita dipende molto di più dall’energia e dalle risorse disponibili di ciò che credevamo in passato. È ovvio che come società costruiremo macchine più efficienti, sistemi di mobilità a ridotto impatto ambientale, edifici a consumo zero, ecc. Quest’attitudine ad aumentare l’efficienza è utile e inevitabile. Tuttavia in questo modo si curano i sintomi piuttosto che la causa dei problemi, si antepone il concetto tecnico dell’efficienza al concetto umano dell’efficacia. Ricerca dell’esattezza vuol dire in questo caso coniugare l’efficacia del progetto con l’efficienza delle condizioni tecniche. Definire e scegliere ciò che è utile e ciò che è inutile al risultato finale e riuscire a costruirlo in modo efficiente.

Terzo, innovare nel progetto.
Costruire significa anche dare un ordine tecnico alle cose, sperimentare nuove tecnologie e metodologie costruttive, forzare i limiti della conoscenza per ampliarli e innovarli. Un quarto di secolo fa si costruiva allo stesso modo con cui si costruisce nella condizione attuale. Nel frattempo, la tecnologia ha compiuto passi da gigante passando dal computer rudimentale al tablet, dalla tecnologia analogica a quella digitale, mutando profondamente modi di vita, di comunicazione, di evoluzione. Gli smartphone, che ci distraggono da ciò che è attorno a noi, ci fanno però capire quanto è vecchio il mondo dell’architettura. L’incapacità della condizione tecnica dell’architettura di innovare ha limitato anche la sperimentazione di nuovi linguaggi di espressione. La tecnica deve riappropriarsi del suo ruolo per rafforzare i concetti di contemporaneo, di durata, di adattabilità e flessibilità, di disassemblaggio a fine vita utile.
È l’idea di una progettazione per strati, (Chesire, 2016) (fig. 10) individuati dal progettista e riconoscibili dall’utente. Una progettazione per strati ha un carattere semplice e immediato ed è concepita per durare ed essere reversibile nel tempo; è flessibile perché capace di adattarsi ai diversi mezzi esistenti, è coerente perché crea un senso di appartenenza e di riconoscibilità, è chiara perché nota a tutti gli attori coinvolti. Ogni strato ha una sua funzione, una sua durata nel tempo, una sua incidenza economica. Da questi principi deve passare una nuova metodologia di progetto per il riuso della città: usare il passato per ricostruire il presente guardando al futuro.

 

Conclusioni

L’innovazione è un modo nuovo di fare le cose, capace di produrre un cambiamento positivo. In un’epoca storicamente complessa e di cambiamento come quella attuale, l’innovazione quale processo di rinnovamento diventa elemento essenziale di riorganizzazione delle relazioni produttive e sociali di una comunità. Occorre ripensare i sistemi di produzione materiale e immateriale del costruire città in senso integrato, ponendo al centro dell’azione il riciclo e il riuso, un processo continuo di esperimenti quotidiani d’innovazione dal basso.
In un progetto di architettura esiste sempre un altro risultato orientato su un obiettivo diverso piuttosto che su quello indirizzato da una particolare condizione, giudizio, o generalizzazione: innovare vuol dire sperimentare invece di dimostrare ciò che si sa già fare perfettamente, re-incorniciare per conoscere nuovi metodi per nuovi problemi.
La cornice di un quadro è una metafora utile per comprendere il concetto: noi possiamo ampliare o restringere la cornice di un quadro e questo cambia completamente la percezione di quel quadro. Reincorniciare ci consente pertanto di vedere le cose attraverso una cornice più ampia, cosi che possano essere valorizzate le scelte e le azioni più appropriate (Dilts, 2009).

 

Gli autori:

Andrea Rinaldi, Professore aggregato in Composizione Architettonica e Urbana, Dipartimento di Architettura Università di Ferrara.

Elisa Iori, Architetto, Dirigente Rigenerazione e Qualità Urbana Comune di Reggio Emilia.

 

Note

1. Reggio Emilia è un Comune di medie dimensioni con un’estensione di circa 23.000 ha di cui il 21% è territorio urbanizzato. La popolazione  residente è pari a 171.879 abitanti, localizzati prevalentemente nella zona sud della città.
La struttura insediativa all’interno del territorio comunale si caratterizza per la dominanza dell’abitato del capoluogo che assume un’estensione pari a circa il 14% nella città consolidata e 4,5% nelle frazioni. Il centro abitato di Reggio si è infatti sviluppato, nel tempo, lungo le direttrici principali in uscita verso il territorio extraurbano, inglobando progressivamente i nuclei frazionali sorti nelle immediate vicinanze in parte modificandone i caratteri e trasformando il loro rapporto con la campagna circostante. Ciò che ha caratterizzato l’economia reggiana è la presenza e la forte crescita, soprattutto fino al 2001, del settore industriale contraddistinto da una forte vocazione di tipo produttivo manifatturiero, che non ha lasciato spazio allo sviluppo del settore terziario, il quale ancora oggi, pur a fronte di un notevole incremento in questi ultimi anni, sconta tuttavia una minore diffusione rispetto agli altri territori emiliano-romagnoli.
2. È indispensabile operare un cambio di paradigma della cultura del fare città: dal controllo tipico di visioni monodirezionali dall’alto verso il basso, alla responsabilità diffusa della cura, collettiva ed individuale, dei luoghi dell’abitare quotidiano entro un rinnovato sistema normativo. Non a caso il recente dibattito sull’attualità degli standard urbanistici come unica risposta alla città pubblica, che dalla La teoria di Le Corbusier, recepita nella Carta d’Atene, porterà il decreto ministeriale sugli standard, D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, a istituire le zone territoriali omogenee, caratterizzate da un’accentuata monofunzionale, cerca una sua declinazione normativa all’interno delle nuove legislazioni regionali. La nuova Legge 24 in Emilia Romagna introduce per la prima volta il termine riuso temporaneo all’interno del lessico legislativo, nel tentativo di istituzionalizzare pratiche innovative già sperimentate in molto comuni con modalità autonome e articolate. Si è quindi spettatori-attori di un importante processo di rinnovamento culturale all’interno del quale le azioni e pratiche messe in campo a livello locale diventano spunto di riflessione normativo. Il pericolo più immanente è l’eccesso di regolazione che nella prassi legislativa italiana rischia di vincolare e imbrigliare processi creativi di riappropriazione degli spazi collettivi.
3. I progetti selezionati che sono stati candidati successivamente al finanziamento del bando periferie sono stati:

4. ll Pru Reggiane-Santa Croce raggiunge una dimensione di investimento pubblico-privato stimabile in 50 milioni di euro, costituita principalmente dal contributo ottenuto attraverso il Bando nazionale aree urbane e periferie, del valore di 17,8 milioni di euro, e dal cofinanziamento da parte di soggetti pubblici e privati per un importo di circa 29 milioni di euro:  rappresenta uno dei maggiori investimenti sul territorio degli ultimi decenni, funzionale ad un nuovo modello di sviluppo produttivo e tecnologico, al passo con gli hub europei.
Si tratta del secondo finanziamento governativo per l'area Reggiane-Parco Innovazione e il quartiere Santa Croce, dopo quello di circa 10,9 milioni di euro, ottenuto attraverso il Piano nazionale Città, a cui si sono aggiunti due milioni di euro finanziati dalla Regione Emilia-Romagna attraverso il Documento unico di programmazione e due milioni di euro da parte del Comune per il rinnovo e il potenziamento delle reti sotterranee, a servizio del quartiere.
5. Hans Hoffmann, (1880-1966) pittore tedesco, considerato uno dei più significativi esponenti dell'Espressionismo astratto.

 

Riferimenti bibliografici

Bauman Z. (2011), Modernità liquida, Editori Laterza, Bari, IT.
Chesire D.  (2016), Building Revolutions, Riba Publishing, Newcastle upon Tyne, UK.
Dilts R. (1999), Sleight of Mouth, Meta Publications, Capitola, California, USA.
Gregotti V. (2014), Il possibile necessario, Bompiani, Milano, IT.
Harvey D. (2015), La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, IT.
Inti I., Cantaluppi G., Persichino M. (2014), Temporiuso – Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono, Edizioni Altraeconomia, Milano, IT.
La Cecla F. (2015), Contro l’Urbanistica, Einaudi, Torino, IT.
Latouche S. (2013), Usa e getta- Le follie dell’obsolescenza programmata, Bollati Boringhieri, Torino, IT.
Le Corbusier (2014), La Carta d’Atene, Ghibli Editore, Roma, IT.
Ratti C. (2017), La città di domani, Einaudi, Torino, IT.
Raworth K. (2017), L’economia della ciambella, Edizioni Ambiente, Milano, IT.