Quattro domande a partire dal progetto per le vele di Scampia

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Tommaso Valle,
quattro domande a partire dalle vele di Scampia,
a cura di Domenico Potenza PDF




Q1. Sulla demolizione e ricostruzione
La soluzione radicale dell’abbattimento delle vele di Scampia, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche, solleva questioni di portata più generale riguardo alla rigenerazione delle periferie pubbliche in condizioni critiche. Può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile? Più in generale, come scegliere tra strategie drastiche a favore del recupero della legalità e strategie più articolate e contestuali, che mettono in gioco altri valori ma con esiti inevitabilmente più incerti sul piano della sicurezza sociale?

Le Vele di Scampia rappresentano uno degli esempi più drammatici di come gli assunti architettonici della contemporaneità non abbiano, a Napoli come altrove, saputo fornire una risposta “identitaria” al problema abitativo che ne ha determinato la realizzazione. Scampia non costituisce, quindi, un caso isolato ma esemplifica problematicità di più ampia portata in cui profonde “fratture” urbane, sociali ed istituzionali sono alla base di una  condizione umana dell’abitare degenerata nell’alienazione, nel degrado e nella criminalità diffusa. La diversa tipologia di intervento in aree depresse, sia esso di demolizione o recupero dell’esistente, è una problematica controversa e non generalizzabile, la cui risposta  non è da ricercarsi esclusivamente in rapporti di fattibilità tecnico-economica. In quegli ambiti in cui la memoria sociale e la disappartenenza assumono  un ruolo di primo piano, ritengo, invece, debba essere assunto come denominatore comune un approccio “critico” al contesto che, attraverso, approfondite analisi multicampo, coinvolga tutti gli aspetti “sensibili” in gioco al fine di individuare la strategia ottimale a ricostruire quelle micro tessiture di relazione tra istituzioni e individui che possano condurre ad una risoluzione del disagio, e non ad una potenziale delocalizzazione della sua evidenza.

Il crescente interesse mediatico che l’ha recentemente investita, vede Scampia non solo “sfondo” cinematografico, ma “interprete” e “portavoce” delle derive della contemporaneità. Scampia è se stessa: simbolo della degenerazione degli aspetti economici, urbanistici, istituzionali e, soprattutto, sociali. Scampia ha, quindi, assunto un’identità “prismatica”, non univoca all’occhio dei diversi osservatori, che possono rileggervi l’incisività del simbolo o le ferite della memoria sociale, auspicandone il recupero o la relativa demolizione/cancellazione.

 
Q2. Sul caso Scampia

Scampia è ormai diventato -in negativo e in positivo- un importante simbolo della città, come appare paradossalmente anche nel film “Ammore e malavita” dei fratelli Manetti. Tenendo conto del suo potente ruolo nell’immaginario collettivo del nostro Paese, sarebbe stato possibile considerare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative almeno della capacità simbolica di questo insediamento? Soprattutto, è un tema che si presta a una progettualità integrata volta al futuro, o vengono prima le istanze di tutela della legalità e di lotta alla devianza che richiedono approcci separati e specifici, magari con la discutibile bonifica preventiva “a prescindere” delle aree da recuperare?

La tipologia di intervento è stata al centro di un complesso dibattito sul tema, di cui il progetto Restart, nel rapporto tra esigenze di recupero, demolizione e riqualificazione complessiva dell’area, rappresenta l’ultima fase di sviluppo. 
Azioni meno traumatiche sarebbero state percorribili partendo dal  presupposto che l’estremizzazione conservativa della soluzione necessita della sempre più accurata analisi conoscitiva della “radice” essenzialista della problematica e dell’individuazione delle possibili ipotesi di ricostruzione di un’appartenenza. Da un lato, un’operazione di profonda escavazione delle lacerazioni della memoria sociale alla base del diniego alla conservazione; dall’altro, un disegno di “riconversione” della stessa.
In altri termini, sussiste un rapporto proporzionale tra dimensione dell’intervento di recupero e stimolo della memoria sociale. Quanto maggiore è la conservazione dell’esistente, tanto più di ampio spettro deve essere l’approfondimento problematico delle “resistenze” dei sub-strati coinvolti. Individuare una soluzione di lungo termine per Scampia richiede una delicatissima indagine delle corrette modalità di interazione con la memoria sociale, un’operazione integrata che, attraverso un approccio sinergico al problema, individui eventuali percorsi e strumenti di dialogo condivisi affinché possano avviarsi quelle “cicatrizzazione” determinanti nella trasposizione da “ferita” collettiva  a  “monumento”.

Ma Scampia non è solo un simbolo per abitanti e non. È, soprattutto, territorio di criminalità diffusa, in cui la ricostruzione della memoria sociale non avrebbe senso se priva di azioni di “re-integrazione” di parte della sua popolazione. Ripensare Scampia  vuol dire ridurre la militanza  nei meccanismi  anti-statali. In quest’ottica, i soli accentramenti istituzionali definiscono sistemi di controllo unilaterale, spesso non risolutivi delle problematiche in essere. Scampia necessita dello sviluppo del potere di autocontrollo individuale e collettivo, della re-instaurazione dei meccanismi di “dialogo” e partecipazione attiva, dell’approfondimento di quei fenomeni che dall’alienazione  sociale hanno condotto alla criminalità diffusa. E’ fondamentale che l’approccio alle problematiche avvenga, prioritariamente, con la ricerca non delle azioni “correttive”, ma delle “cause” determinanti, individuandone, poi, le possibili risposte.  La metodologia di lavoro deve, quindi, configurarsi come interazione e coesione degli apporti dei diversi ambiti disciplinari all’interno di un “campo” di interoperatività e complementarità trasversale.


Q3. Responsabilità e potenzialità dell’architettura
Spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica di valutazione dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?

Architetti ed urbanisti incidono in maniera non irrilevante sugli aspetti individuali e collettivi della condizione umana dell’abitare alimentando stati di benessere o profondo disagio strettamente legati a forme di percezione dello spazio di vita. La progettazione, più che come incipit degenerativo, assume un ruolo fortemente incisivo nell’accentuazione del disavanzo sociale derivante da processi in atto di incubazione e/o esasperazione delle marginalità. Nelle aree sensibili o depresse è necessaria una lettura multidisciplinare, congiunta e fortemente integrata, delle relazioni tra soggetti e oggetti in campo: spazio, individuo, collettività. Verso i soggetti, ovvero individuo e collettività, devono essere indirizzate, da un lato, strategie istituzionali volte ad arginare le derive anti-statali; dall’altro, forme di dialogo che possano recepirne i disagi, le aspettative, le azioni correttive. Verso l’oggetto, ovvero lo spazio, devono indirizzarsi gli esiti delle precedenti fasi di “dialogo” e “ascolto”. Un’azione sinergica, quindi, integrata e coordinata, contestualmente inclusiva dei soggetti e degli oggetti interessati.
In questi termini, pensare l’architettura e l’urbanistica come sole interlocutrici di criticità sociali di diversa natura ed entità darebbe luogo ad un modello ibrido che, oltreché carente dell’ampiezza di campo tale da consentire l’inquadramento globale delle problematiche di sovrascala, attribuirebbe a discipline che ricercano configurazioni ottimali dell’oggetto, l’indiretta risoluzione delle problematiche del soggetto.


Q4. Tra politiche e pratiche di rigenerazione
La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di una pluralità di politiche (sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi), con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche top down di regolazione sociale e di sicurezza urbana, laddove non è possibile confidare realisticamente sulle disponibilità individuali e sul capitale sociale e sul capitale umano locale troppo condizionato dalla criminalità?
In altri termini, il recupero di queste aree di elevata criticità può diventare tema di progetto urbano flessibile e aperto alla partecipazione, o è una questione da affrontare soprattutto con politiche di sviluppo locale e di sicurezza pubblica eterodirette?

Ritengo che, affinché si avvii una rigenerazione di tipo olistico, le estreme derive delle moderne marginalità urbane, anche fortemente segnate dalla diffusa criminalità, non possano essere approcciate con la rigidità di una politica top down. L’inclusione dei soggetti, siano essi individui o collettività, è un aspetto determinante che richiede un approccio “diretto” e non il semplice ausilio di discipline o soluzioni che “indirettamente” vi esercitano delle influenze. Al fine di non incorrere nel meccanismo di “rigetto” che tante scelte imposte “dall’alto” hanno implicato, sarebbero, quindi, auspicabili indirizzi condivisi, verso cui i destinatari possano sviluppare un senso di appartenenza. Ne consegue un processo inclusivo come metodologia a maggior potenziale di efficacia che, attraverso l’apporto di strategie multilivello, possa attivare condizioni di re-integrazione sociale e di diradamento delle sotto-trame criminali. Un’operazione tanto complessa quanto ambiziosa, che necessita di uno sguardo in avanti e di un radicale ripensamento degli strumenti da adottare.