Q1. Sulla demolizione e ricostruzione
La soluzione radicale dell’abbattimento delle vele di Scampia, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche, solleva questioni di portata più generale riguardo alla rigenerazione delle periferie pubbliche in condizioni critiche. Può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile? Più in generale, come scegliere tra strategie drastiche a favore del recupero della legalità e strategie più articolate e contestuali, che mettono in gioco altri valori ma con esiti inevitabilmente più incerti sul piano della sicurezza sociale?
Il fallimento di molti progetti abitativi degli Anni Settanta è dovuto secondo me a più fattori. Ne ricorderò solo alcuni. Il primo è la dimensione degli interventi, una grandezza eccessiva che doveva essere risolta in una maggiore complessità nel programma, sul quale peraltro gli architetti non potevano incidere dal momento che esistevano normative alle quali era necessario attenersi. Ciò che i progettisti potevano fare era cercare di interpretare tali richieste ma non modificarle. La seconda è la composizione sociale omogenea, una monoclasse che costituiva e continua a costituire una sorta di ghetto urbano. Parti di città grandi come le 167 hanno bisogno di abitanti di diverse classi per riflettere la molteplicità dell’abitare urbano. Se ciò non avviene sopravvengono inevitabilmente fenomeni negativi. Il terzo fattore è la presenza di funzioni a servizio delle abitazioni limitate al solo quartiere, senza relazioni più ampie con tutta la città. Funzioni che, per inciso, molto spesso o sono assenti o vengono realizzate dopo le costruzioni degli edifici residenziali quando la vita dell’insediamento è già compromessa. Una quarta ragione del degrado di interventi come le Vele di Scampia, il Corviale o lo Zen a Palermo - il gruppo di progettazione guidato da Vittorio Gregotti comprendeva anche me - riguardava il rapporto con la città. Non a caso si parlava allora della ricucitura della periferia, che non era un’operazione anticipatrice dell’improprio rammendo proposto da Renzo Piano ma, semplicemente, una connessione morfologico-funzionale di questi insediamenti che avrebbe dovuto rendere le stese periferie un continuum interrelato, con polarità metropolitane che avrebbero reso attivo il tessuto dei grandi quartieri dotandoli di luoghi collettivi, di nodi di comunicazione, di strutture commerciali diversificate, di spazi per la cultura e il tempo libero. L’ultimo fattore che è a base di questo fallimento, per me inspiegabile nei suoi motivi, è la scomparsa del rispetto del proprio ambiente di vita da parte degli abitanti. Se si considera lo stato in cui sono ridotte le architetture urbane dal progetto più che dignitoso come le Vele di Scampia, il Corviale o lo Zen, prima citati, ci si chiede che cosa motivi gli abusi compiuti dai residenti, l’abbandono a se stesse delle zone comuni, la distruzione di alcuni ambienti. Gli architetti avranno anche commesso alcuni errori, come credo sia avvenuto al Corviale per quanto riguarda il dimensionamento di alcuni spazi, ma certo non tali da causare quell’attitudine degli abitanti a considerare l’edificio come un luogo sostanzialmente da devastare. Ovviamente esiste anche il problema dell’assenza di manutenzione, ma esso non giustifica l’insistenza con la quale, ad esempio, l’architettura dello Zen è stata sconvolta da una miriade di modifiche, molte volte insensate o inutili, che lo hanno trasformato in uno scenario, come è accaduto anche alle vele di Scampia, per narrazioni letterarie e televisive della disperazione urbana.
Q2. Sul caso Scampia
Scampia è ormai diventato -in negativo e in positivo- un importante simbolo della città, come appare paradossalmente anche nel film “Ammore e malavita” dei fratelli Manetti. Tenendo conto del suo potente ruolo nell’immaginario collettivo del nostro Paese, sarebbe stato possibile considerare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative almeno della capacità simbolica di questo insediamento? Soprattutto, è un tema che si presta a una progettualità integrata volta al futuro, o vengono prima le istanze di tutela della legalità e di lotta alla devianza che richiedono approcci separati e specifici, magari con la discutibile bonifica preventiva “a prescindere” delle aree da recuperare?
Tenendo presente questi cinque fattori, demolire questi interventi - ricordo a questo proposito l’ipotesi formulata da alcuni architetti, quando Francesco Storace era Presidente della Regione, tra i quali Leon Krier, di distruggere il Corviale, difeso invece sulla stampa da Bruno Zevi, da Giorgio Muratore e da me nel corso di un Convegno al MIBACT in cui si doveva decidere come procedere - ritengo sia inutile se non si cambia radicalmente l’idea di edilizia abitativa pubblica e privata. Per costruire un rapporto diverso tra l’abitante e la sua casa occorrerà una rivoluzione profonda delle modalità di considerare la vita della comunità in tutti i suoi aspetti, compresi quelli relativi ai modi di considerare la città, i suoi significati, i doveri e i diritti legati all’abitare. Doveri sempre più dimenticati e diritti sempre più rivendicati. Per quanto riguarda il futuro di Scampia, penso che le amministrazioni di Napoli abbiano avuto una responsabilità decisiva del fallimento dell’opera di Franz di Salvo e Riccardo Morandi. Vivere in un edificio sperimentale implica un lavoro preliminare di autoeducazione, un condividere un bene comune non pensando che solo il proprio alloggio, che si è peraltro portati subito ad alterare, è qualcosa da conservare, mentre l’insieme può andare alla deriva. In breve la responsabilità del fallimento di cui sto parlando è divisa tra una piccola porzione dovuta agli architetti e due più grandi, e praticamente pari, alle amministrazioni pubbliche e agli abitanti. Pier Paolo Pasolini è uno scrittore che amo, anche perché fino ai tredici anni ho vissuto al Quadraro, una borgata di Roma che egli, quando venne nella Capitale, frequentò filmandolo poi in Mamma Roma, ma credo che il pasolinismo, con l’estetica del degrado che ne discende, sia un malinteso che molti intellettuali continuano ad alimentare. Dopo il Quadraro la mia famiglia si spostò a San Lorenzo, allora un quartiere povero ma che gli abitanti rispettavano. Il disordine urbano che lo ha colpito, ormai da troppi anni, era ancora molto lontano.
Q3. Responsabilità e potenzialità dell’architettura
Spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica di valutazione dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?
Vorrei aggiungere una ulteriore considerazione sulle responsabilità degli architetti. Se un errore va riconosciuto nel loro lavoro sui grandi interventi residenziali di cui ho parlato, tra i quali, oltre a quelli già citati, Rozzol Melara a Trieste, di Celli e Tognon, il Laurentino 38 di Pietro Barucci, a Roma, il Librino a Catania, di Kenzo Tange, è stato quello di disegnare insediamenti urbani fortemente utopici. Ricollegandosi alle proposte moderne più radicali queste opere presupponevano l’esistenza negli abitanti di una forte coerenza ideologica che li avrebbe portati a una gestione unitaria e avanzata di un abitare che li rappresentasse perché radicalmente alternativo all’ordinamento sociale capitalista. Ricorrendo a uno slogan si potrebbe dire che alla richiesta di un’abitazione di massa, contrapposta a quella individualizzata della borghesia, anche se si trattava di una riconoscibilità all’interno di una stessa tipologia – a Roma quella della palazzina – si è risposto con una massa di abitazioni che non poteva non creare difficoltà. Tra l’altro la classe operaia ideale e la piccola borghesia, alla quale i grandi interventi erano destinati, era già allora non più compatta, ma disarticolata in una miriade di ceti confrontabili solo per il loro reddito e non per i progetti di vita che ciascuno di essi coltivava. Aver proposto eroici familisteri mentre la società si avviava a divenire “liquida”, frammentaria ed estremamente conflittuale è stato quindi un eccesso di fiducia nelle capacità dell’architettura di rappresentare, di per sé e fuori tempo massimo, una comunità determinata ad affermare i propri ideali condivisi e a realizzare le proprie aspettative.
Q4. Tra politiche e pratiche di rigenerazione
La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di una pluralità di politiche (sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi), con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche top down di regolazione sociale e di sicurezza urbana, laddove non è possibile confidare realisticamente sulle disponibilità individuali e sul capitale sociale e sul capitale umano locale troppo condizionato dalla criminalità?
In altri termini, il recupero di queste aree di elevata criticità può diventare tema di progetto urbano flessibile e aperto alla partecipazione, o è una questione da affrontare soprattutto con politiche di sviluppo locale e di sicurezza pubblica eterodirette?
Concludendo queste considerazioni, e ricordando che l’architettura deve essere un’arte positiva che migliori costantemente l’abitare umano, sono convinto che per rigenerare le periferie sia necessario fare un lavoro difficile e prolungato con gli abitanti, un lavoro partecipativo attraverso il quale ridefinire obiettivi e modalità di intervento da verificare poi, punto per punto, con le amministrazioni. L’unica soluzione che io intravedo è rompere la condizione della monoclasse facendo sì che i quartieri da riformare ospitino ceti diversi. Le possibilità vanno trovate secondo più modelli, tra i quali preferire caso per caso quelli migliori. Densificare e diradare dovrebbero essere due strumenti operativi, così come nuove idee sullo spazio pubblico potrebbero essere sperimentate con un costo relativamente contenuto. Inoltre bisognerebbe distribuire nei quartieri grandi funzioni urbane con una strategia che non tanto decentri tali funzioni ma le migliori rendendole compatibili con la dimensione metropolitana. Per quanto riguarda Roma un progetto per il Corviale ispirato a questi principi, e non a quelli di mimetizzarlo, come si è proposto di recente, ingentilirlo, o farlo a pezzi sottraendo ad esso parti per trasformarlo in una sequenza di palazzine, potrebbe costituire una buona occasione per invertire una rotta che si è dimostrata quanto mai negativa. Per tutti.