Quattro domande a partire dal progetto per le vele di Scampia

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Massimo Ilardi,
quattro domande a partire dalle vele di Scampia,
intervista di Claudia Di Girolamo PDF




Q1. Sulla demolizione e ricostruzione
La soluzione radicale dell’abbattimento delle vele di Scampia, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche, solleva questioni di portata più generale riguardo alla rigenerazione delle periferie pubbliche in condizioni critiche. Può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile? Più in generale, come scegliere tra strategie drastiche a favore del recupero della legalità e strategie più articolate e contestuali, che mettono in gioco altri valori ma con esiti inevitabilmente più incerti sul piano della sicurezza sociale?

Le Vele di Franz Di Salvo come il Corviale di Mario Fiorentino e come altri progetti di edilizia pubblica popolare, progettati e realizzati in Italia dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’80 del Novecento, rappresentano in architettura le grandi utopie degli anni ’60 e il loro fallimento. Queste megastrutture, progettate come vere e proprie ‘città autonome’ che si opponevano al territorio circostante che avanzava sotto la forma dissacrante della metropoli contemporanea, avevano lo scopo di ricreare ‘città’ con al centro la comunità dei suoi abitanti, fondata sulla integrazione, sulla partecipazione e sulla solidarietà. Valori distrutti rapidamente dall’individualismo, dal consumismo, dalla conflittualità, dalla illegalità della metropoli che si stava imponendo, proprio in quegli anni, nella città del moderno. Furono progetti ‘politici’ o, meglio, ideologici realizzati tardi rispetto alle trasformazioni sociali e antropologiche che stavano avvenendo, ma che comunque rimangono dei grandi segni architettonici, non solo testimoni di una storia, ma esempi significativi di un’epoca rilevante dell’architettura italiana.  Proprio per questo non andrebbero distrutti. D’altra parte la legalità e la sicurezza non si costruiscono creando il vuoto. La loro legittimità la conquistano sul territorio nel confronto e nello scontro con la realtà. Se per farle sopravvivere è necessario produrre un deserto sociale, allora anche questo è un segno che denuncia la morte della politica.

 

Q2. Sul caso Scampia
Scampia è ormai diventato -in negativo e in positivo- un importante simbolo della città, come appare paradossalmente anche nel film “Ammore e malavita” dei fratelli Manetti. Tenendo conto del suo potente ruolo nell’immaginario collettivo del nostro Paese, sarebbe stato possibile considerare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative almeno della capacità simbolica di questo insediamento? Soprattutto, è un tema che si presta a una progettualità integrata volta al futuro, o vengono prima le istanze di tutela della legalità e di lotta alla devianza che richiedono approcci separati e specifici, magari con la discutibile bonifica preventiva “a prescindere” delle aree da recuperare?

Non credo molto alla possibilità che si trovino soluzioni meno traumatiche, perché la conservazione comporterebbe un maggior impegno finanziario, e soprattutto una maggiore capacità di governo da parte delle istituzioni. Come si attua invece il governo di un territorio in un sistema dove vige il primato del mercato? Con il controllo: il territorio lo si blinda, attraverso sistemi di sicurezza di ogni specie, o lo si smaterializza con le immagini e gli immaginari che il mercato continuamente produce, o, come nel caso delle Vele, si distrugge. E questo perché il mercato, a differenza della politica, non ha valori da proporre con cui mediare il presente, un presente per di più drammatico come Scampia; non ha un futuro da indicare verso cui indirizzare energie e speranze. E’ la regola del profitto quella che comanda. E come si sa, il profitto, come le merci, non ha bisogno di valori ma solo di guardie armate che lo proteggano.

 

Q3. Responsabilità e potenzialità dell’architettura
Spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica di valutazione dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?

Non spetta all’architetto risolvere i problemi della sicurezza e non possono ricadere su lui e sul suo operato responsabilità sociali. E’ come se chiedessimo conto a un pittore o a un poeta delle eventuali ricadute che potrebbero avere sulla società le opere che stanno creando. Ora è vero che l’architetto non è un pittore o un poeta e ciò che costruisce, a differenza di un quadro o di un foglio di carta, verrà abitato o attraversato da persone e dunque la qualità della loro vita quotidiana dipenderà anche dal suo progetto. Ma è la qualità della vita che deve interessargli, non la sicurezza, non chi e come andrà ad abitare ciò che ha costruito. Anche qui è la politica che dovrebbe tornare in campo a fare il suo mestiere. La risoluzione di questi problemi spetta all’amministrazione pubblica che deve, inoltre, costruire e mantenere tutto il sistema delle infrastrutture, condizione essenziale per evitare il degrado.

 

Q4. Tra politiche e pratiche di rigenerazione
La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di una pluralità di politiche (sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi), con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche top down di regolazione sociale e di sicurezza urbana, laddove non è possibile confidare realisticamente sulle disponibilità individuali e sul capitale sociale e sul capitale umano locale troppo condizionato dalla criminalità?
In altri termini, il recupero di queste aree di elevata criticità può diventare tema di progetto urbano flessibile e aperto alla partecipazione, o è una questione da affrontare soprattutto con politiche di sviluppo locale e di sicurezza pubblica eterodirette?

Non credo molto alla partecipazione, a meno che partecipare voglia dire prendere parte a una decisione. Ma di solito non è così. Alla chiacchiera infinita non segue quasi mai una decisione che viene invece presa in altre sedi e da altre persone. Né sono favorevole però a modelli di gestione calati completamente dall’alto, non fosse altro che per il fatto che questo Paese non è in grado di fornire una classe dirigente all’altezza dei compiti. Non a caso la tanto sbandierata crisi in cui versa ha origine, più che nell’economia e nella finanza, nel fallimento delle sue élite.
Né dal basso né dall’alto, dunque. Ma allora da dove dovrebbe partire l’azione del progetto? Intanto dalla sua autonomia, che non vuol dire astrazione dal mondo che lo circonda, ma capacità di funzionare come un dispositivo della ragione che contiene dentro di sé sia la contingenza di una società del consumo (e dunque la possibilità sempre presente della distruzione delle sue premesse e del suo fondamento), sia la capacità di fronteggiare, con i suoi strumenti, l’accelerazione dei fenomeni urbani e il rapido succedersi dei cambiamenti. E se è vero che l’ordine che pretende un progetto sembra irraggiungibile perché il conflitto è costitutivo dell’esperienza metropolitana, è altrettanto vero che proprio qui, nel disordine e nella sconnessione, che l’istanza stessa del progetto e della sua rappresentazione ha origine e si costituisce. E questo non può avvenire in assenza della ricerca e della produzione di teoria, proprio perché non è il luogo a dover trasmettere al progetto un significato: al contrario è il progetto che deve assegnare senso e valore a un luogo. Le dissonanze, le disarmonie, i dissidi che attraversano il territorio e le relazioni sociali che lo disegnano si devono riflettere nella creazione del progetto stesso che li scompone e li ricompone, con il massimo di autonomia, nella tensione di una ricerca che é di architettura o di urbanistica prima ancora di situarsi nelle finalità della comunicazione e dello spettacolo.
Nemica del progetto non è questa società del consumo. Nemici sono i tentativi del mercato che per governarla produce il fenomeno della spettacolarizzazione e la sindrome della sicurezza, per cercare di rinchiuderla in qualche recinto lontano dalla realtà. Magari dentro una ‘nuvola’, perchè come scriveva Baudelaire che amava le nuvole: “le nuvole passano... laggiù... laggiù... le nuvole meravigliose!” 
E come sappiamo qualche architetto si è fatto docile strumento di questo tentativo.