Quattro domande a partire dal progetto per le vele di Scampia

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Domenico Potenza,
conversazione con Paolo Desideri a partire dalle vele di Scampia PDF




Potenza_ Scampia, demolizione e ricostruzione, è questa la prima questione sulla quale vorrei discutere in merito all’abbattimento delle vele, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche; una questione che solleva interrogazioni di portata più generale riguardo alla rigenerazione delle periferie pubbliche in condizioni critiche.
Secondo te, può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile? E più in generale, come scegliere tra strategie drastiche a favore del recupero della legalità e strategie più articolate e contestuali, che mettono in gioco altri valori ma con esiti inevitabilmente più incerti sul piano della sicurezza sociale?

Desideri_ Di questa prima questione, demolizione e ricostruzione, vorrei poter parlare ignorando momentaneamente il tema Scampia, perché Scampia possiamo farla discendere soltanto da un inquadramento più generale del tema della riconversione di alcune parti delle periferie italiane ovvero dell’edilizia pubblica moderna, che vuol dire poi il tema della sostituzione edilizia. Da questo punto di vista, io forse sono la persona meno adatta per sentirsi dire che gli edifici non vanno demoliti, perché ho passato anni ed anni ad auspicare che la città, non solo nelle sue parti periferiche ma anche in alcune zone interne consolidate, possa esercitare la sostituzione edilizia come occasione di ripensamento dell’esistente, e dunque di rigenerazione urbana.
Per quanto mi riguarda, il caso personale più emblematico che ho seguito, progettato e realizzato con ABDR e che - nei fatti - si è dimostrato un successo risolutivo, è quello di “Giustiniano Imperatore” a Roma. Rammento che stiamo parlando di una demolizione forzata di circa 80 appartamenti e della successiva ricostruzione di circa 144 nuovi alloggi (con la possibilità di un recupero economico in ragione delle maggiori cubature realizzate). Si tratta di appartamenti di proprietà comunale provenienti da edilizia sociale, che nel tempo erano stati acquisiti, in larga misura, dagli stessi residenti. Questi residenti si sono trovati a dover abbandonare poi le abitazioni riscattate, a causa di gravi problemi che hanno interessato le fondazioni, con fenomeni di sostanziale cedimento che hanno indotto i Vigili del Fuoco a far evacuare con urgenza gli alloggi. Qui insomma l’amministrazione comunale si è ritrovata a dover gestire una vera patata bollente, con un intervento di demolizione reso obbligatorio da una autority esterna.
Ecco io credo che il problema, semmai, sia proprio questo: in Italia - e con questo arrivo poi anche a Scampia -  parliamo di pratiche d’intervento che sono sempre legate a condizioni emergenziali; nel caos di “Giustiniano Imperatore”, un’emergenzialità di tipo geotecnico; nel caso di Scampia,  un’emergenzialità verosimilmente di tipo sociale.

 

Potenza_ anche se, nel caso di Scampia, gli edifici vennero realizzati in difformità al progetto originario, con una serie di variazioni in fase di costruzione che hanno contribuito fortemente a rendere “inabitabile” il complesso delle Vele ancora prima dell’insediamento dei residenti.
Oggi Scampia, nel bene e nel male, è ormai diventato un importante simbolo della città, Tenendo conto del suo potente ruolo nell’immaginario collettivo del nostro Paese, sarebbe stato possibile considerare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative almeno della capacità simbolica di questo insediamento?

Desideri_ Di questo se vuoi parliamo dopo, anche perché vorrei fare qualche valutazione più specifica sull’architettura e sul progetto delle Vele. In termini più generali, io credo che,  paradossalmente, se c’è da lamentare qualcosa in Italia, è proprio l’assenza di quella cultura che nel resto del mondo - tanto nei paesi europei che extraeuropei - pratica correntemente la sostituzione edilizia. Mentre in Italia questo intervento avviene soltanto a partire da condizioni di emergenzialità.
A me invece, sembra vero il contrario. Dobbiamo abituarci all’idea che la città - come sempre è stato nel bene e nel male - vive della incessante necessità di trasformare l’esistente. Trasformazioni a volte causate da eventi naturali o calamità imprevedibili, altre volte da azioni di programmazione e pianificazione, altre volte ancora dal mercato. Però, se dovessimo pensare ad una città nella quale questi processi di “perenne sostituzione”, di “cambio di pelle”, non avvenissero di continuo, avremmo - come abbiamo già sostenuto più volte - non un corpo vivo, ma una mummia. La città va avanti in forza della sua incessante sostituzione. Dunque da questo punto di vista - e cioè da un punto di vista metodologico - la prima riflessione da fare è che la vicenda di Scampia va inquadrata all’interno di un tema più generale, e cioè l’opportunità di assecondare un processo di continua trasformazione dell’esistente. Naturalmente ciò non vuol dire che tutto debba essere demolito e ricostruito, o che nulla possa essere conservato. La domanda vera riguarda la valutazione di uno strumento aggiuntivo che è la “sostituzione”. Sottolineo, uno strumento aggiuntivo a disposizione - se dovessimo conservare tutto avremmo uno strumento in meno o se dovessimo per definizione demolire sempre e comunque tutto - senza conservare nulla - avremmo sempre uno strumento in meno. È proprio questa possibilità continua di decidere cosa sostituire e cosa mantenere che a mio avviso - dal punto di vista della pianificazione e del progetto urbanistico - fa salva la città.
Qui semmai il discorso da fare attiene agli attori delle rilevanti trasformazioni in gioco, anche perché in alcuni casi può essere il mercato a muoversi autonomamente. Però pensare che il mercato possa risolvere da sé questo genere di problemi – ricorrendo in particolare allo strumento della “sostituzione” – a me sembra davvero improbabile.
L’esempio che portavo prima, relativo al caso di “Giustiniano Imperatore”, può essere considerato emblematico sotto questo aspetto. Stiamo parlando di un’ampia area edificata, interessata da smottamenti diffusi del terreno, con una conseguente problematicità di tipo geotecnico che riguarda circa una cinquantina di intensivi residenziali. In questo caso tocca al Comune farsi carico dell’urgenza di mettere in atto politiche di ricostruzione volte al recupero degli alloggi da restituire ai proprietari che li avevano riscattati.
Il Comune ha bandito un concorso per la redazione del piano di recupero – vinto dallo studio Diener&Diener – che prevede l’adeguamento progressivo di tutti i 50 intensivi residenziali, a partire da un progetto pilota che è quello da noi portato a compimento. Ad oggi tuttavia – trascorsi ormai dieci anni dal completamento di quel primo intervento - solo il progetto pilota è stato realizzato e difficilmente accadrà ancora qualcosa, a meno che non si creino di nuovo condizioni di emergenza simili a quelle che hanno condotto all’evacuazione immediata dei residenti su ingiunzione dei Vigili del Fuoco. Come vedi, è evidente che per operazioni di questa portata solo l’intervento “prescrittivo” di una autorità di vigilanza sulla sicurezza degli edifici, può imporre l’urgenza della sostituzione edilizia.
Lo stesso vale per Scampia, dove i noti problemi legati alle condizioni estreme di illegalità e di degrado sociale hanno indotto progressivamente allo sgombero dei residenti dalle Vele. Insomma, per quanto possa sembrare drastico e assolutamente fuori dalla portata della normalità, sono queste le uniche condizioni che mettono in atto la sostituzione, a meno che non si stia parlando di edifici di totale proprietà pubblica. Ma anche nel caso di edifici di totale proprietà pubblica, bisogna comunque decidere di prendere le famiglie, spostarle altrove, demolire l’edificio o destinarlo ad altri usi. Si tratta insomma di un’azione di pianificazione forte, importante, che necessita di una pluralità di azioni e di attori che forse non siamo abituati a sostenere.

Potenza_ Tra l’altro Scampia, oggi, presenta condizioni favorevoli rispetto alla sua definitiva sostituzione, anche per il fatto che tre edifici sono stati già demoliti e per altri tre la demolizione è prossima. Quasi tutti i residenti sono ormai trasferiti in altri complessi e rimane ancora l’ultima vela (quella destinata ad essere conservata) da sgomberare, prima dell’attuazione del programma di riconversione dell’area.
Abbiamo citato tante volte casi analoghi, sia per dimensione degli insediamenti sia per la problematicità delle loro condizioni, mi riferisco al Corviale di Roma, allo Zen a Palermo, a Forte Quezzi a Genova, oppure a Rozzol Melara a Trieste.  Spesso, in questi casi, gli architetti e gli urbanisti sono saliti sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato.

Desideri_ Sì assolutamente si, è così, secondo me la differenza tra tutti gli esempi che hai appena citato bisogna farla a partire dalla qualità dei progettisti. Nessuno potrà convincermi del fatto che Scampia sia la stessa cosa di “Corviale” o di “Forte Quezzi”, o se preferisci anche dell’”Unitè d'Habitation” di Le Corbusier. Tutti esempi che se sono valutati in termini di metri cubi e metri quadri, oppure di abitante per mq, possono essere ricondotti ad una stessa categoria insediativa. Certo nessuna persona in ordine con la propria coscienza potrebbe pensare, nemmeno per un attimo, di proporre la demolizione dell’Unitè di Marsiglia. Ma che cos’è che rende improponibile la demolizione dell’Unitè a Marsiglia? È il fatto che è stata progettata da un progettista che è diverso da quello di Scampia. Capisco che entriamo nelle valutazioni che sono un po’ da bar dello sport, nel quale ognuno pretende di essere c.t. della nazionale azzurra; ma non è così, nel senso che se tu ti rivolgi ad un vero c.t. della nazionale azzurra, e non al bar dello sport, potrai riconoscere qual’è la differenza tra Scampia e l’”Unitè d’Habitation”di Marsiglia - probabilmente con il “Corviale” un po’ nel mezzo e “Forte Quezzi” appena più a destra. In altre parole la differenza, secondo me, la fa la qualità dell’architettura. Tutto ciò implica una impegnativa assunzione di responsabilità. Se vogliamo salvare l’architettura in Italia - con tutti i limiti e i rischi che ciò comporta - dobbiamo accettare l’idea che ci possa essere qualcuno che si prenda la responsabilità di dichiarare che cosa ha più valore e che cosa ne ha meno.
Cambio del tutto argomento, ma in realtà continuo a parlare della stessa cosa. C’è in Italia una legge del 1941, l’unica efficace per la salvaguardia concreta delle opere di architettura contemporanea, cioè la legge sul diritto d’autore. Questa legge, attraverso la applicazione degli articoli 20, 21 e 22, se ricordo bene, individua le opere artistiche di interesse comune da tutelare e mette in capo al progettista la salvaguardia dell’opera, con poteri che non hanno nemmeno le soprintendenze; infatti nel caso in cui venga dichiarato formalmente questo riconoscimento, il progettista può imporre l’immediata demolizione di tutte quelle opere che non riconosce idonee al proprio progetto. Sto citando tutto questo a ragion veduta, avendo beneficiato di questo privilegio, per due opere realizzate ed inserite all’interno di questo elenco – la “Stazione Tiburtina” a Roma ed il “Teatro dell’Opera” di Firenze. La valutazione non viene fatta ai tavolini del bar dello sport, ma attraverso una complessa procedura avviata da una apposita commissione e sottoposta al vaglio del ministero per i Beni e le Attività Culturali. Lo dico solo per ribadire che esistono parametri relativamente oggettivi per valutare se ci troviamo di fronte a Le Corbusier o al progettista di Scampia.

Potenza_ A questo proposito entriamo nelle questioni più legate al ruolo, alle responsabilità ed alle potenzialità dell’architettura. In una prospettiva meno deterministica di valutazione dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili, come questi?

Desideri_ L’architettura, purtroppo, è stata sempre costretta ad inseguire il livello problematico del divenire delle cose. Io vorrei spostare un attimo il tema dalla sicurezza sociale a quello delle performance ambientali. Vogliamo parlare di che cosa fosse un edificio degli anni ‘70 rispetto alle performance ambientali? Vogliamo dire che questa attenzione era assolutamente inesistente? Ecco, forse un po’ sotto lo zero.

Potenza_ Si, sotto lo zero senz’altro quello di Scampia, se pensiamo che la costruzione del complesso si concluse nel 1980 e già nel 1988 si verificò la prima importante e violenta manifestazione di protesta da parte degli abitanti, che denunciavano le precarie condizioni termo-igrometriche, la carenza di impianti tecnologici adeguati e le degradanti condizioni abitative delle Vele. In tempi brevissimi e con una certa evidenza, il progetto di Scampia si è mostrato come un “organismo nato malato” presentando problemi che non potevano essere ignorati.

Desideri_ Allora, lo ripeto, il problema non riguarda soltanto quale ruolo abbia l’architettura e se sia o meno in grado di dare soluzione a queste criticità di ordine sociale. L’architettura degli anni ‘70, la questione ambientale - lo sappiamo bene - neanche se l’era posta (o per lo meno chi se la poneva in quegli anni era visto come un soggetto estraneo)… e poi, dal punto di vista costruttivo, l’industria delle costruzioni degli anni ‘70 non era ancora minimamente attrezzata.
Questo discorso è vero per tutta la produzione industriale di quegli anni. Dobbiamo del resto accettare l’idea che l’edilizia sia parte della famiglia dei prodotti industriali. Io non sto qui a predicare una sostituzione totale di tutto quello che è stato realizzato in quegli anni… no. In maniera consapevole, step by step, tenendo conto del fatto che rigenerare costruzioni degli anni ‘70 costa cinque volte di più che non ricostruirle ex novo e che - indipendentemente dai problemi economici  ci sono in gioco anche notevoli problemi sociali ed ambientali, allora possiamo decidere di salvaguardare l’esistente soprattutto se ci troviamo di fronte all’”Unitè d'Habitation” … e comunque, lo si fa non in ragione di un principio generale del tipo “queste cose non si toccano”, oppure al contrario “no queste cose si toccano”, ma del riconoscimento che come qualsiasi altro prodotto industriale  questo edificio è arrivato – almeno dal punto di vista della utilizzabilità – alla sua naturale conclusione. Questo nulla toglie, paradossalmente, al valore del singolo oggetto.
Nel caso in discussione, ed arrivo anche alla questione specifica della conservazione di una delle Vele -  mi sembra che francamente questa scelta vada contro la posizione che ho indicato. Singolare che si possa sentire un bisogno di salvaguardia, ma di cosa? Della storia dell’architettura...?

Potenza_ Questa è una questione che investe più direttamente anche il “Comitato Vele”, dei residenti, che da sempre ha accompagnato le vicende legate all’insediamento residenziale di Scampia. E credo che la conservazione della “Vela Celeste” sia stata fondamentalmente condivisa soprattutto dal comitato dei residenti.
Per cui si allarga la discussione al coinvolgimento delle comunità in decisioni che, nel bene e nel male, si riversano sulla qualità della vita dei futuri utilizzatori. In altri termini, il recupero di queste aree ad elevata criticità può diventare tema di progetto urbano flessibile e aperto alla partecipazione, o è una questione da affrontare soprattutto con politiche di sviluppo locale e di sicurezza pubblica eterodirette?
La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi, come quelli di Scampia, in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di una pluralità di politiche (sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi) messa a punto dai nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti social?

Desideri_ Questo mi sembra molto importante, anzi mi sembra assolutamente necessario, non solo sufficiente ma proprio necessario. Per operazioni così mastodontiche, i processi partecipativi possono risultare assolutamente decisivi. Nelle mie esperienze al riguardo devo dire che - in alcuni casi - hanno fatto la differenza. Per “Giustiniano Imperatore” ad esempio, il Comune si è fatto carico di un’azione straordinaria di conduzione, gestione e promozione dei processi partecipativi, coordinando i comitati dei residenti con una formula interessante, e facendo in modo che ci fosse inter-pulsione continua tra i progettisti e i comitati stessi. I progettisti, di per sé, non hanno mai incontrato i comitati, ma unicamente il loro committente unico che era il Comune. È stato il Comune a lavorare costantemente con i comitati e con i cittadini. Questa è la formula che funziona.
In questo periodo ad esempio, stiamo vivendo una analoga esperienza - in maniera più o meno continuativa - per il progetto di raddoppio della tangenziale di Bologna - 25 km che collegano l’Autostrada del Sole con l’Autostrada A14 Adriatica - per la quale siamo stati incaricati della riprogettazione di ponti, viadotti, cavalcavia, barriere antirumore; insomma interventi molto importanti, limitrofi, e in alcuni casi addirittura sovrapposti, alle ingegnerie. Anche in questa occasione c’è stata, come era doveroso che fosse, una importante attività di accompagnamento, nella quale l’amministrazione comunale di Bologna e Società Autostrade hanno gestito le relazioni con le comunità; ma - di nuovo - il progettista non ha mai preso parte agli incontri con le varie comunità distribuite lungo tutto il percorso del raddoppio infrastrutturale. Ai tavoli di partecipazione si sono discussi problemi e proposte, ma la questione - anche in questo caso - è stata soprattutto di riuscire a fare sintesi del processo partecipativo, a partire dalle istanze spesso pulviscolari che il territorio legittimamente esprime e che chiedono soluzione.
Secondo me sono queste le formule che funzionano meglio rispetto alle modalità, un po’ datate, alla De Carlo, in cui è affidato al progettista demiurgo l’incontro con gli abitanti. Qualcosa a Roma abbiamo fatto, in questa stessa direzione, venti anni fa ai tempi dei primi “Contratti di Quartiere”, come tu dovresti ricordare... Dovevano essere progettazioni partecipate, e lo furono effettivamente. Ricordo che il comune di Roma aprì un apposito ufficio, un proprio servizio di coordinamento sull’edilizia partecipata. Noi ci aggiudicammo due o tre progetti, “Pietralata” e “Centocelle”, se non ricordo male. Però lì il meccanismo non era ancora ben collaudato, ed il progettista doveva misurarsi in prima persona con le comunità per raccontare il progetto, ascoltare ed annotare eventuali criticità messe in evidenza dai residenti. I famosi forum, nei quali per la verità non c’era mai una reale possibilità di dialogo, perché chi stava a sentire, di fatto stava assistendo a una conferenza e “covava” tutte le sue perplessità... senza riuscire a esprimerle, e senza poter ricorrere a qualcuno in grado di ridurle a sintesi come dicevo prima. Però non c’è dubbio che in processi del genere, sarebbe impensabile procedere alla attuazione del progetto senza misure di accompagnamento, espressione a loro volta di procedure di urbanistica partecipata e condivisa. Ma anche qui - a ben guardare - scopriamo l’acqua calda, perché se semplicemente varchiamo i confini nazionali, in Francia o in Inghilterra, la sostituzione edilizia si pratica da anni con il confronto partecipato tra i vari soggetti interessati alle trasformazioni. È con questi meccanismi che l’edilizia degli anni ‘70 è stata rinnovata; certo non è stato rinnovato il grattacielo di Norman Foster … però l’insediamento popolare costruito negli anni ‘70 ha trovato le condizioni per il suo rinnovo. Oppure le modalità con cui l’edilizia pubblica si rinnova in Francia… ancora oggi sono accompagnate da misure continue di partecipazione. Ecco… noi siamo sempre un po’ in affanno rispetto a tutte queste esperienze.
Sullo stesso piano, metterei anche il tema del rapporto tra questi processi e i finanziamenti disponibili, che è poi il tema del rapporto tra l’economia e la necessità di continua manutenzione e trasformazione delle tipologie insediative in gioco.
Anche qui mi sembra … come possiamo solo immaginare - nel 2018 ! – di poter innestare un processo di rigenerazione urbana che, a meno di casi straordinari, non tenga in dovuto conto il controllo e la leva della finanza privata? Mi sembra, in effetti, che ci si illuda di vivere in un paese dei sogni nel quale le risorse pubbliche siano illimitate, dove lo Stato esercita una programmazione quinquennale, come ormai non si fa più nemmeno in Cina… dove - com’è noto - il CIPE è semplicemente un comitato di valutazione e dopo aver attribuito il bollino blu alla qualità dell’opera, passa semplicemente al suo finanziamento… ecco questo era il modello che ci illudevamo potesse essere praticato settanta anni fa. In realtà il resto dei paesi europei, quelli un pochino più accorti, già in quegli anni avevano cambiato l’approccio. Le grandi trasformazioni urbane dall’immediato dopo guerra in poi sono state in gran parte condotte ricorrendo a processi di governance pubblico-privato, già maturi a quel tempo. Questo non vuol dire aprirsi alla speculazione, ma al contrario impedirla, ovvero cercare di governarla attraverso il controllo pubblico delle risorse economiche che il capitale interessato al real estate è disponibile a investire sui territori e sulle città… e mi sembra davvero sorprendente che oggi si debba ancora discutere di queste cose.

Potenza_ basterebbe solo osservare con attenzione cosa è accaduto in quelle stesse aree geografiche - a partire proprio dalla Francia - soprattutto in questi anni di crisi, dove sempre in maniera più serrata la capacità di integrare la finanza privata con la regia della amministrazione pubblica ha offerto crescenti possibilità di continuare il lavoro avviato ormai da settanta anni a questa parte.