Quattro domande a partire dal progetto per le vele di Scampia

torna su

Umberto Cao,
quattro domande a partire dalle vele di Scampia
a cura di Domenico Potenza
PDF




Q1. Sulla demolizione e ricostruzione La soluzione radicale dell’abbattimento delle vele di Scampia, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche, solleva questioni di portata più generale riguardo al recupero delle periferie pubbliche in condizioni critiche. Può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile?

Sono ormai molti anni che si discute sulla questione delle abitazioni popolari di grande dimensione e del loro degrado sia fisico che sociale. Tutto ebbe inizio nei primi anni Settanta del secolo scorso, come onda lunga di una stagione di studi urbani sviluppata nei primi due decenni del dopoguerra sul tema delle nuove tecnologie e della grande dimensione. Già Kenzo Tange aveva progettato una gigantesca espansione di Tokyo nella sua baia, mentre Yona Friedman aveva teorizzato megastrutture modulari sospese sulle città esistenti; a Roma Ludovico Quaroni faceva lavorare i suoi studenti sul tema della città/regione lineare e, nello Studio Asse (insieme a Bruno Zevi, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Lucio e Vincenzo Passarelli, Vincio Delleani), progettava il futuro asse attrezzato previsto nel PRG di Roma. Dal punto di vista strettamente architettonico i grandi “edifici città” trovavano ragione anche all’interno del dibattito tra il minimalismo costruttivo dell’International Style e la trasgressione formale del Brutalismo di origine anglosassone. Né mancavano espliciti riferimenti figurativi, come il “Biscione” di Daneri, chiaramente ispirato ai complessi di Pedregulho e Gàvea di Affonso Reidy allora da poco realizzati a Rio de Janeiro, o il Rozzol Melara dei Celli e Tognon sospeso tra il riferimento alle grandi case a corte della Vienna Rossa e il modello dell’Unitè d’Habitation. Fiorentino con Corviale e Franz Di Salvocon Le Vele, al di la degli espliciti riferimenti alla tradizione modernista, si preoccuparono di ricercare compatibilità tra l’invenzione tipo-morfologica e il ruolo urbano dell’insediamento: un segno rettilineo forte nelle colline della campagna romana a marcare il limite della città nel caso di Corviale; un ondeggiare non finito nel caso delle Vele, per richiamare a distanza il confronto mare-monti che caratterizza Napoli.
Possono essere ancora conservati questi valori culturali e figurativi come eredità del Novecento nell’ambito di un recupero delle dignità ambientali ed umane? Forse si, ma occorrerà valutare caso per caso. Una cosa è certa: le visioni utopiche che questi “mostri” esprimevano sono fallite. La vera questione, al momento senza risposta, è se l’utopia sia stata realizzata troppo presto per una comunità ancora immatura, oppure se sia arrivata troppo tardi rispetto ai conflitti sociali che hanno attraversato il XX secolo.


Q2. Sul caso Scampia Scampia è ormai diventato -in negativo e in positivo- un importante simbolo della città, come appare paradossalmente anche nel film “Ammore e malavita” dei fratelli Manetti. Tenendo conto del suo potente ruolo simbolico, si sarebbe potuto adottare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative?

Per quanto numericamente limitate, il fallimento delle iniziative di intervento e recupero di questi insediamenti coinvolti da forte degrado ambientale insegna che risanare i difetti di costruzione e i danni dell’incuria, completare i servizi mai realizzati, oppure bonificare le sopravvenute alterazioni di destinazione d’uso non portano ad un completo recupero ambientale e sociale: gli abusi, le occupazioni e le pratiche illegali una volta avviate, resistono e si consolidano, diventano insanabili. Pur senza ricordare nel dettaglio la vicenda delle Vele, è quasi scontato rilevare come le scelte formali e tipologiche dell’architetto, per quanto discutibili o male realizzate, anche qui, come in tante altre vicende della edilizia popolare generata dalla L.167 e successivi aggiornamenti, siano state molto meno influenti delle responsabilità dell’autorità pubblica. Infatti né la politica nazionale con gli strumenti legislativi, né quella locale con gli strumenti attuativi, e neppure chi governa l’ordine pubblico, sono stati in grado di gestire il corretto completamento dei servizi, l’integrazione degli abitanti, la mobilità con mezzi pubblici adeguati, le assegnazioni degli alloggi e il rispetto della legalità. Si potranno anche “reinventare” le Vele, abbattendo non loro, ma la Gomorra che le ha occupate; difficilmente, però, potranno diventare una rappresentazione simbolica “buonista” per la città di Napoli. Neppure con un film come “Ammore malavita” o con il filtro intellettuale del “pittoresco”.


Q3. Potenzialità dell’architettura Spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?

Secondo me non è una questione di forma o tipologia architettonica, né di pratica del “less aesthetics more ethic”. Piuttosto occorre superare l’equivoco culturale tra intervento edilizio di grande dimensione e grande dimensione dell’intervento edilizio. Molto spesso - ed è il caso delle Vele - l’intero grande edificio di edilizia popolare è stato destinato ad una unica compagine sociale molto conflittuale, perché di incerta occupazione lavorativa e bassa disponibilità economica, con l’inevitabile conseguenza della ghettizzazione. Non è un caso che, almeno nell’area romana che conosco meglio, hanno funzionato i piani di zona nei quali assegnazioni IACP, cooperative, nonché commerciale e terziario affidato a privati, sono stati integrati tra loro. Una conferma dell’equivoco sulla grande dimensione risiede anche nei fenomeni di urbanizzazione che in Italia sono sopravvenuti a partire dalla fine degli anni Ottanta. Infatti, conclusa la stagione dei PEEP nelle grandi città e apparentemente risolto il fabbisogno di case popolari, si è incrementata la fuga dalle aree urbane e la formazione di insediamenti residenziali di carattere estensivo a ridosso di centri minori. Credo che una delle ragioni del forte incremento dello sprawl urbano negli ultimi trenta’anni risenta anche nella domanda di piccola dimensione insediativa. In altre parole, mentre la politica pianificatoria e la cultura urbanistica e architettonica prendevano atto delle contraddizioni di periferie dense e fuori controllo e si interrogavano sul futuro delle metropoli, una nuova città si formava spontaneamente al di fuori dei confini urbani, nella legalità ma senza progetto, fatta di palazzine, villini e case a schiera. Questo ha risolto il problema della legalità? Niente affatto, lo ha solo trasferito e disperso. Allora il riscatto del progetto urbano e dell’architettura, a mio avviso, potrà avvenire seguendo due condizioni: la prima è di riportare i nuovi insediamenti dentro il sistema della infrastrutturazione esistente (mobilità e servizi pubblici), se il caso densificando realtà già esistenti, ma lavorando sulla piccola dimensione. La seconda è di curare l’integrazione sociale (inclusa la componente immigratoria) con interventi che prevedono l’azione congiunta di operatori nell’edilizia pubblica ed in quella privata, nonché di investitori nel commercio e nel terziario che garantiscano non solo volumetrie costruite, ma nuovi posti li lavoro.


Q4. Politiche di rigenerazione urbana La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di politiche sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi, con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche sociali e di sicurezza promosse e gestite nel partenariato con il centro, non potendo confidare realisticamente sulle disponibilità individuali locali? Insomma, può diventare tema di progetto urbano integrato o è una questione da affrontare soprattutto con politiche sociali e di sicurezza pubblica eterodirette?

Fatte salve alcune considerazioni espresse in risposta alle questioni che riguardano le Vele e altre realtà simili, non credo ci sia una differenza sostanziale tra i criteri da adottare per nuovi insediamenti residenziali e i criteri per rigenerare complessi abitativi degradati; una cosa che mi sembra confermata anche dalle ipotesi illustrate nel Progetto Restart Scampia. Personalmente non sono tra i fautori più accaniti della progettazione partecipata o progettazione dal basso, come si dice oggi. Credo che il valore di una partecipazione degli utenti alle scelte di progetto non sia tanto nella finalità di corrispondere ai bisogni dei fruitori (spesso non in grado di prevedere le ricadute funzionali ed ambientali di una scelta architettonica), quanto quella di favorire una empatia tra l’autorità amministrativa, i tecnici responsabili e gli utenti finali: insomma un problema di assunzione di responsabilità. Procedure integralmente bottom up rischierebbero, tra l’altro, condizionamenti ideologici e ricadute populiste. Insomma, escludendo imposizioni top down, penso ad una progettazione articolata e competente che sappia contestualizzare il progetto. Considerando l’inattualità di una visione complessiva e unitaria, figlia della urbanistica tradizionale, che procede per progressivi strumenti attuativi, preferisco pensare ad una progettazione urbana che suddivida la metropoli in parti (microcittà in termini urbanistici, municipi in termini amministrativi) morfologicamente omogenee ma funzionalmente differenziate (residenze, servizi primari, terziario). Le microcittà potranno essere raccordate tra loro da una rete di relazioni (viabilità privata e mobilità pubblica, sistema del verde e dello sport, della sanità, dell’istruzione e della cultura, del tempo libero, ecc...) cui compete il ruolo di integrazione metropolitana. Ma questo è un altro discorso. Molto più complesso.