Q1. Sulla demolizione e ricostruzione
La soluzione radicale dell’abbattimento delle vele di Scampia, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche, solleva questioni di portata più generale riguardo al recupero delle periferie pubbliche in condizioni critiche. Può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile?
Personalmente sono a favore di progetti che includono la demolizione di aree metropolitane o singoli edifici a patto di avere un progetto, se non di urbanistica in generale, almeno ben situato. Dipende da cosa e come ricostruire. In questo senso, è determinante una relazione profonda tra architetti e antropologi urbani o sociologi. È fondamentale decidere e, insieme, coinvolgere le persone interessate prima, durante e dopo. Forse è più complicato, ma si afferma una partecipazione tendenzialmente orizzontale. Devo dire che avrei un’idea precisa sulla rigenerazione di queste aree “periferiche”: le relazioni centro-periferia sono porose e il senso profondo di tale contiguità transitiva è data da un asse centrale - il consumo di droghe. Per questo, l’abbattimento non dovrebbe essere solo una ricostruzione, quanto favorire una rigenerazione che affermi la de-penalizzazione delle droghe e la simmetrica conversione delle pratiche illegali in spazi legali co-gestiti da giovani addestrati da una equipe di psico-socio-antropologi. Ripensare le grandi e piccole aree metropolitane significa focalizzare il problema estremo che dalle periferie si fluidifica verso il centro. E il problema del vuoto periferico reclama di osare da parte dell’unico partito che può farlo, una riforma radicale che ormai è matura globalmente. Paura e risentimento nascono da ogni periferia non tanto per l’assenza di lavoro o di estati romane, quanto dall’esigenza di riempire il vuoto che si espande per il traffico inarrestabile delle droghe.
È a partire da questo vuoto da colmare che si può decidere la correttezza rigeneratrice di Scampia. L’era industriale sta finendo, trascinando nelle sue rovine centinaia di edifici fatiscenti e intere aree abbandonate; alla città industriale succede la metropoli comunicazionale; le tecno-culture digitali sono il centro decentrato di tale cambiamento con i suoi inevitabili conflitti. L’ingresso inevitabile della fase detta 4.0 comporta paure e voglia di non affrontarla. La rigenerazione possibile va collocate in questo aperto scenario che ho riassunto per brevità.
Q2. Sul caso Scampia
Scampia è ormai diventato -in negativo e in positivo- un importante simbolo della città, come appare paradossalmente anche nel film “Ammore e malavita” dei fratelli Manetti. Tenendo conto del suo potente ruolo simbolico, si sarebbe potuto adottare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative?
Il rapporto tra cinema (ora i serial come Sky/Netflix ) e mafia o gangster è sempre stato idilliaco e mimetico in doppio senso. Sono noti gli abiti che John Gotti si faceva rifare sul modello di Robert De Niro-Al Capone, il quale imitava i filmati giudiziari dei boss che a loro volta si compiacevano “onorati” e riproducevano, conservando le cassette dei film. È un circolo virtuoso e vizioso. Ogni moralismo censorio è inutile. Non è possibile impedire questo genere narrativo. I simboli e ancor più i codici di comportamento (linguaggio non verbale) si riproducono per mimesi insopprimibile. È notizia di questo marzo che uno dei quattro adolescenti che hanno ucciso a bastonate la guardia giurata per rubargli la pistola aveva la foto di Totò Riina come idolo su Facebook. A livello globale, il serial House of Cards viene spesso citato come modello speculare e, direi, reciprocamente mimetico, con l’elezione di Trump. Vorrei anche ricordare che la mia generazione adorava i film su Jesse James, Billy the Kid, Bonnie & Clyde e in generale la figura del gangster “buono” che ruba ai ricchi per dare ai poveri: insomma lo stile della mafia tradotto in ideologia filmica. Comunque, i “cattivi” sono stati sempre ambiguamente seduttivi nel cinema di Hollywood a partire dai celebri personaggi impersonati da James Cagny o Paul Muni. Per non parlare del Padrino di Coppola, in cui la peggiore mafia viene esaltata nel sesso e nella morale.
Scampia (e Corviale a Roma) è figlio prediletto di una concezione politica prima ancora che architettonica o filmica. L’ideologia che lo cementa è basata su principi solidi, secondo cui il proletariato deve vivere collettivamente. Le risorse private delle case sono subordinate all’esistenza di corridoi comuni, spazi di tutti, nicchie aperte e irrisolte. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: a prescindere dalle competenze degli architetti, i luoghi comuni si sono rovesciati in appropriazioni private, scelte di comando, gerarchie orizzontali estese in ogni piano e gerarchie verticali che impongono precise (quanto temporanee) egemonie.
La conservazione si presenta come falsa coscienza. Come iconica storica che richiama lo stile (o memoria) del passato e, quindi, definisce i contorni dell’oggi. Ma non è così. Il presente è più duro e possente. Si distende nelle forme di potere che muta sulle basi delle soluzioni di confitti senza limiti né tabu. Il modello architettonico “collettivista” può essere abbattuto se si riprende la grande tradizione del costruttivismo progressista - architettonico e urbanista, ma anche culturale ed estetico – che decentrò le case popolari con quei disegni diversificati che hanno fatto la storia di quartieri come la Garbatella o San Saba.
Il fenomeno è glocale: tutte le periferie si sono spostate su posizioni di “destra”: a Rio è stato eletto un evangelico incompetente; a Sao Paulo un riccone ambizioso; nell’UK il Brexit; negli US Trump; Putin dappertutto; sono noti i risultati di Roma o Napoli. Il vuoto periferico presenta certamente il problema della riconversione del lavoro industriale nel modello 4.0., ma non solo: si ignorano gli effetti di poteri “criminali” e comportamenti “normali” diffusi nei transiti centro/periferia.
Infine, se si decidesse di demolire parzialmente le Vele di Scampia, sarebbe importante che tale atto non fosse immaginato come rimozione di un passato architettonico (e socio-culturale); quanto piuttosto una festa liberatoria che coinvolge la maggior parte degli (ex) abitanti e dei quartieri vicini.
Q3. Potenzialità dell’architettura
Spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?
Ovviamente da sola l’architettura e l’urbanistica possono fare ben poco per la sicurezza sociale e la vivibilità territoriale. Eppure … Il determinismo del progetto non mi sembra un concetto determinante. Gli architetti dovrebbe sempre aprirsi alle relazioni transdisciplinari, in particolare verso suggestioni/immaginazioni che interpretano al meglio un’era storica e la anticipano. Una architettura partecipata potrebbe sviluppare un metodo affine all’etnografia: osservazione partecipante. Saper osservare quanto accade localmente, e praticare uno sguardo adeguato a cogliere i livelli globali nei dettagli micrologici, evitando il canto delle sirene per l’omologazione che si basano su paradigmi obsoleti, incapaci di cogliere i mutamenti delle tecno-culture digitali. E, insieme, saper partecipare ai processi territoriali specifici, accogliendo suggestioni comportamentali, ricchezze prospettiche, persino invasioni concettuali…
Dalle tensioni tra saper osservare (e osservarsi) e partecipare possono emergere scelte che favoriscono la totale autonomia creativa dell’architetto.
Parole chiave sono dialogica, ovvero l’arte dell’ascoltare; polifonia: la coesistenza simultanea di voci narrative urbane anche dissonanti; ubiquità: le fluidità identitarie del soggetto contemporaneo che vive le sue esperienze quotidiane, lavorative o meno, secondo una combinazione disordinata e mescolata di spazi/tempi; metamorfosi: le forme post-euclidee delle tecnologie attuali possono favorire sistemi cognitivi e valoriali che diffondono bellezze perturbanti, non riproduttive delle razionalità moderniste. Continuo a sostenere l’ampia autonomia dell’architetto solo in quanto il progetto si posizioni al fine di praticare l’immaginazione esatta. L’estrema scientificità del progetto si legittima nella configurazione immaginaria della sua arte.
La mia ipotesi finale per affrontare la domanda presenta questa prospettiva: la bottega digitale. Riprendo la grande tradizione dell’umanesimo rinascimentale, quando la bottega era il luogo dove il maestro viveva, produceva, insegnava, creava. Il maestro era artefice indisciplinato, una sapienza che transitava tra arte e artigianato. L’irrompere delle tecno-culture può trasformare (o meglio far convivere) la creatività analogica in immaginazione digitale. La vicinanza tra architetto e antropologo si basa sul saper fare; sulla scelta di stare nel territorio o fieldwork; produrre narrazioni compositive a più voci in forma di costellazione - e la costellazione disegna codici e simboli in movimento, mutanti, transitivi. L’architetto è l’artefice che oscilla tra bottega digitale e territori costellari. Un artefice dialogico, polifonico, ubiquo, metamorfico.
Q4. Politiche di rigenerazione urbana
La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di politiche sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi, con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche sociali e di sicurezza promosse e gestite nel partenariato con il centro, non potendo confidare realisticamente sulle disponibilità individuali locali?
Insomma, può diventare tema di progetto urbano integrato o è una questione da affrontare soprattutto con politiche sociali e di sicurezza pubblica eterodirette?
Le rigenerazione è compito altamente politico che sconta l’autonomia dell’architetto. E autonomia non significa separazione, bensì attenzione ai processi culturali che attraversano le aree di interesse, l’intera metropoli e, inevitabilmente, le prospettive cosmopolitane. La legalità va costruita in relazione alla mia idea presentata all’inizio: de-penalizzare le droghe, creare equipe addestrate a contenere il danno, inventare spazi esteticamente seduttivi e accoglienti, dove questa pratiche possono essere vissute giornalmente. Immagino il progetto di uno spazio di informazione, vendita e assistenza di ogni droga che sia disegnato e costruito nel senso della potenziale liberazione, e non per riprodurre il fascino conflittuale per egemonie-atemporali che portano dentro di sé l’inevitabile fine già segnata. In questo senso, le scelte delle politiche locali sostengono a parole la sicurezza ma, militarizzando il territorio, riproducono e allargano il problema. Il motivo è semplice: il senso “comune”, specie “popolare” (mi scuso per i termini) ha introiettato l’idea che la guerra alle droghe sia l’unica soluzione per contenere paure ben note. La scelta è partita dagli Stati Uniti ed è divenuta generale, tranne poche eccezioni. Per cui attualmente nessun politico o partito se la sente (in Italia o in Brasile) di impegnarsi a spiegare e a sperimentare modelli alternativi. La scelta semplicista è la repressione, che ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che – anziché risolverlo - è parte del problema.
La sicurezza eterodiretta è il concetto che conduce a risultati sbagliati. Nelle favelas di Sao Paulo o di Rio de Janeiro, il governo centrale ha pensato di inserire dal 2000 unità militari dette UPP (Unidade de Policia Pacificadora) per sradicare il traffico dei signori delle droghe. Da allora Comando Vermelho, i signori della mafia carioca, sono diventati ancora più forti, organizzati, militarizzati, assorbendo tra l’altro non pochi membri della polizia civile. Il crudele assassinio della vereadora di Rio, Mariella Falco eletta con 45mila voti, figura straordinaria di militante afro-brasiliana che era riuscita ad affermarsi come sociologa nella favela di Maré, rientra in questo quadro. La sicurezza nelle periferie – sia personale che ambientale – si risolve accettando la sfida: come Basaglia è riuscito a cambiare il sistema repressivo manicomiale, modificando il territorio nelle sue specifiche architetture con la legge 180 e i pregiudizi ad esse connessi; così l’architetto del presente-futuro dovrebbe immaginare la sicurezza partecipata, convincendo sfere pubbliche e istituzioni politiche che gestire la de-penalizzazione significa scegliere modelli architettonici, urbanistici e antropologici altri.