Dossier: Progetti urbani per le periferie edited by/a cura di Maria Pone

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A Vela spiegata
Roberta Amirante, Alessandra Acampora, Claudia Chirianni, Mario Coppola PDF



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Parole chiave: didattica/teaching; periferia/outskirts; megastruttura/megastructure;

 

Abstract:            
Spiegare la Vela è complicato. Gli abitanti hanno rifiutato gli edifici progettati da Di Salvo, fin dall’inizio. Ma gli architetti continuano a difendere le Vele. Partendo dal masterplan del Comune, che ne lascia in piedi una sola, il laboratorio di sintesi del Corso di Laurea in Architettura 5UE di Napoli Federico II prova a consolidare questa ipotesi: la Vela restante, proprio perché è finalmente sola, può dire “I’m a Monument” in 9 modi diversi e raccontare così il senso che il riciclo del suoi caratteri può assumere per innescare la rigenerazione dell’area di Scampia. Il Laboratorio di sintesi1 tiene insieme 6 materie e dura un intero anno: è un’esperienza di formazione unica, che è stata vissuta cercando di dare alla parola laboratorio il suo senso più proprio: un luogo dove fare ricerca attraverso il progetto (Amirante, 2018) (fig. 1).

 

 

1. Spiegare la Vela 2

Quella che viene raccontata in queste pagine è un’esperienza didattica abbastanza speciale, per almeno un paio di motivi.

1.1 La struttura del corso

Il primo è legato alla particolarità del laboratorio di cui mostriamo alcuni degli esiti: al quinto anno del Corso di laurea magistrale a ciclo unico del Dipartimento di Architettura della Federico II di Napoli gli studenti frequentano un laboratorio di sintesi che tiene insieme ben sei diverse discipline (progettazione architettonica, tecnologia, urbanistica, estimo, fisica tecnica e tecnica delle costruzioni) per un totale di 28 crediti. Si tratta di un corso molto impegnativo che, a differenza di quanto accade per i corsi di progettazione degli anni precedenti, copre ambedue i semestri.
Non ce ne sono molti in Italia di laboratori così complessi e non tutti i docenti napoletani considerano questa esperienza un fatto positivo: io ho coordinato questo laboratorio per diversi anni e ho sempre avuto, ma probabilmente c’entra anche la fortuna, delle esperienze molto interessanti, e talvolta addirittura entusiasmanti. E, in questa dimensione complessa, ho potuto cogliere l’importanza di quello che Ignazio Gardella sosteneva con convinzione: è indispensabile fare un “progetto” del corso di progettazione. Un progetto che parte proprio dalla individuazione della “domanda” e del suo grado di relazione con la realtà.

1.2 La domanda di progetto

La seconda particolarità riguarda, appunto, le caratteristiche di questo “progetto didattico”, che, nell’anno accademico 2015/16 si è collocato, tematicamente e cronologicamente, come parte integrante di una più ampia esperienza di progettazione: quella che viene raccontata nel dossier e che ha visto alcuni docenti del Diarc impegnati in un accordo di ricerca, finalizzato a offrire un indirizzo strategico al progetto di rigenerazione dell’area delle Vele di Scampia.
Ho contribuito in prima persona a mettere a punto la proposta raccontata nel dossier, che è stata frutto di un lavoro collettivo, complesso e approfondito. Un lavoro che non partiva da zero ma muoveva, come il dossier ricorda, da una lunga storia: una storia che negli anni ha visto la cultura architettonica trattare con molta circospezione – non poche volte prossima al cinismo – il durissimo giudizio che gli abitanti delle Vele hanno espresso fin dall’inizio. La progressiva adesione a quel giudizio non è stata frutto di un superficiale accantonamento del valore di un’esperienza architettonica significativa, né di un tardivo desiderio di fare tabula rasa, né tantomeno di un’affrettata valutazione del peso ecologico delle macerie delle Vele o del valore economico dei loro scheletri. Benché ovviamente resti discutibile, la scelta non è una rinuncia ma il risultato di un rilancio in termini culturali e in termini economici.
Un rilancio fondato su una scommessa: che una Vela, da sola, possa farcela a rimettere in gioco l’area di Scampia. Che il monstrum, guadagnandosi lo spazio che gli serve per esistere, possa orientare e perfino ordinare il nuovo ciclo di vita che quei lotti condannati a essere Gomorra meritano di conquistare.
A patto di essere liberato dai vincoli che l’hanno oppresso per molti decenni: l’infelice impianto che moltiplicava – con una logica meccanica da Siedlung – una architettura/infrastruttura dotata di una consistenza e di un’immagine tridimensionale, potente e autonoma, di dimensione perfino geografica. E il suo essere “casa popolare”, destinata a una umanità generica, eppure tristemente qualificata da una forma di ineliminabile costrizione: per questa umanità la casa non è solo un diritto ma anche un dovere. Prendere o lasciare. E questo doversi prendere una casa strana è stato ancora più duro per gli sfollati delle Vele, quelli che la loro casa “normale” l’avevano dovuta abbandonare per il terremoto del 1980.
La scommessa che sostiene il progetto è legata dunque a un’attribuzione di potenza alla “Vela liberata”, che – nello schema messo a punto dal Diarc – è considerata capace di reggere la dimensione dell’intera area e di costruire intorno a sé un nuovo paesaggio, il cui impianto, lontano dalle meccaniche e rigide determinazioni (strade/isolati/verde) della vulgata urbanistica otto/novecentesca, sia capace di accogliere le migliori esperienze di rigenerazione sviluppate in ambito internazionale.   E così come la proposta del Diarc si presentava come una serie di appunti, di ipotesi sulle cose da fare, che avevano l’obiettivo di orientare alcune azioni concrete e immediate, senza la pretesa di controllare scelte che sarebbero state oggetto di successive dimensioni politiche, economiche, amministrative; così il progetto del laboratorio ha scelto di concentrarsi sul progetto dell’edificio superstite, provando, perfino gioiosamente, a immaginare che dentro il suo scheletro apparentemente inerte possano trovare spazio nuove, inedite, e talvolta strane funzioni, espressione di giovani collettività metropolitane che potrebbero trovare nella Vela liberata di Scampia il loro spazio d’azione. Il tutto per offrire alcune “visioni” del futuro della Vela liberata, senza nessuna pretesa di restituire una elaborazione tecnicamente irreprensibile ma anche senza farsi troppi sconti sulle difficoltà tecnologiche, economiche, ambientali della riqualificazione dell’edificio superstite.

1.3 Le risposte di progetto, ovvero “spiegare la Vela”

Alla base del lavoro degli studenti c’è un’ipotesi metodologicamente rilevante. E cioè che la risposta progettuale del Laboratorio possa rappresentare l’esito di una ricerca comune che si articola in risposte distinte, pensate però dentro una cornice unitaria. Queste risposte, dunque, sono leggibili non solo singolarmente ma anche attraverso le “differenze” tematiche che, in maniera consapevole e concordata, ciascuno dei progetti intende rappresentare, talvolta esaltandole.
“A vela spiegata” è stato il motto scelto dagli studenti per presentare insieme le 9 proposte che rappresentano l’esito concreto del Laboratorio. Dentro questo motto è contenuto il significato di quella cornice: provare a spiegare la Vela, nel senso di approfondire la sua descrizione materiale, decostruire la sua complessità, mettere in luce il contrasto tra la sua interna macchinosità e la sua sintetica immagine, perversamente affascinante, anche nella sua rovinosa decadenza. E provare a spiegare la Vela nel senso di mettere in gioco le sue potenzialità: di straordinario monstrum/monumento urbano; di grande macchina disponibile a ospitare le diverse forme dell’abitare contemporaneo; di relitto antropocenico che mette in gioco nuove relazioni tra natura e artificio; di alveare in cui possono brulicare attività minute, invisibilmente organizzate da un’anima infrastrutturale celata al suo interno; di lunga strada abitata che rimette in gioco la relazione tra la rete metropolitana e il parco di Scampia; di complessa infra-struttura, disposta anche a perdere alcuni dei suoi pezzi e a farsi base di supporto per aggiunte e integrazioni; di elemento topografico, agitato da movimenti tellurici nella nuova condizione di vuoto determinata al suo intorno; di materiale geografico, anima di una montagna composta con i detriti delle Vele abbattute che campeggia nella piana ridefinendone il paesaggio. Come i commenti che seguono provano a segnalare, alcuni dei progetti mettono in primo piano una di queste potenzialità ma anche una lettura in superficie rivela intrecci tematici interessanti, ineludibili nella logica “comunitaria” del lavoro di ricerca prodotto nel Laboratorio.

1.4 Non solo visioni…

Solo un paio di ulteriori precisazioni.
La prima. Il lavoro “di gruppo” (circa 50 studenti hanno prodotto 9 progetti) è partito da ipotesi individuali che sono state sviluppate nella prima fase del laboratorio, nella logica del concorso di idee. Una giuria composta dai docenti, dai tutor e dagli stessi studenti ha selezionato le 9 idee più interessanti e su queste gli studenti si sono aggregati in gruppi (una curiosità… non sempre l’autore di una delle idee vincenti ha lavorato sulla propria ipotesi, preferendo spostarsi su un’altra). Inutile sottolineare che nessuna delle visioni iniziali ha avuto vita facile, nel lungo e complesso lavoro che, in ulteriori fasi diversificate, i singoli studenti e i gruppi hanno sviluppato nel corso del Laboratorio.
La seconda. Come accennato all’inizio, il Laboratorio vede l’integrazione di 6 distinte materie, alcune delle quali molto “tecniche”: uno straordinario vantaggio che ha contribuito a dare ai progetti una consistenza piuttosto distante dallo status, già di per sé in questo caso molto impegnativo, di visioni… come è facile immaginare non è qui possibile mostrare le elaborazioni grafiche che danno conto di questa consistenza, ma può essere utile sottolineare che per ciascuna delle visioni è stato messo a punto il “racconto urbanistico”, non solo in termini di rapporto con le indicazioni di piano (con segnalazione dettagliata delle eventuali, ma in genere non insanabili, logiche di difformità) ma anche con l’ipotesi di individuazione degli stakeholder, del crono-programma, della valutazione economica dell’intervento sulla Vela; e soprattutto con la identificazione dell’ambito di progettoche l’intervento sull’edificio determinava di volta in volta, in relazione al carattere della visione che ne rappresentava la base: un ambito fatto spesso di layer diversi, che proiettavano sulla città, e talvolta perfino sull’intera area metropolitana, la potenza della Vela come monumento per la rinascita di Scampia.
Analoga importanza hanno assunto gli approfondimenti tecnici, tecnologici e fisico-tecnici sulla consistenza materiale della Vela, che hanno determinato gran parte delle scelte sul destino delle passerelle interne (di cui tutti i progetti hanno previsto l’eliminazione) e hanno orientato le ipotesi di ri-articolazione degli spazi interni segnati dalla presenza ossessiva di un modulo (3,3 mt x 8,7 mt) incarnato in un tunnel di cemento armato. Ipotesi quasi sempre ispirate alla logica del minimo intervento (molto misurati e studiati nel dettaglio sono stati i casi di taglio dei setti e dei solai nelle strutture prefabbricate in c.a.)  in una dimensione in cui la ricerca di nuove forme di porosità è stata affidata invece alla “rinuncia” a un’occupazione intensiva degli spazi; alle strade aperte dalle nuove modalità dell’abitare contemporaneo (cohousing, co-working, studentati, ostelli, alloggi temporanei, bed and breakfast etc.) e infine a una spesso radicale ipotesi di “abbattimento” delle prestazioni, in particolare di quelle climatiche (è su questo punto che alcuni dei progetti esprimono una critica alle tradizionali logiche di recupero dei manufatti contemporanei) a favore di una contaminazione, piuttosto radicale ma non ingenua, tra forme di artificialità e spazi di natura (fig 2) (fig. 3). 


2. La Vela come macchina 3

Una vela al centro di un grande spazio verde. Una storia che parla di occupazione abusiva e spaccio in una delle periferie più discusse e più problematiche del nostro paese.
Quattordici piani fuori terra in cemento armato più uno interrato disposti in due stecche parallele.  Un alveare con uno spazio distributivo al suo interno (pensato come un vicolo e occupato da passerelle “leggere” nel progetto, “pesanti” nella realizzazione), le cui singole celle, rigide per la natura a tunnel della struttura, non possono subire grandi trasformazioni. 
Le Corbusier con un’idea non lontana da questa ha impostato il Piano Obus per Algeri nel 1930 e l’Unité d'Habitation di Marsiglia inaugurata nel 1952. Ma a differenza de l’Unité di Marsiglia concepita come un vero e proprio quartiere con servizi, ristoranti, lavanderie, palestre e uffici, le Vele di Scampia sono nate per essere un dormitorio. Anche se Di Salvo aveva disposto le attrezzature nel lotto accanto, che poi è stato trasformato in un grande parco. Un parco che i progettisti hanno improvvidamente pensato come una vasca ribassata, teorizzando la necessità di costruire un “luogo del silenzio”, separato e drammaticamente separante.
La mixité funzionale non è però l’unica differenza tra l’edificio marsigliese e quello napoletano. Nel primo le singole cellule erano disposte a incastro su due livelli, permettendo così non solo la doppia altezza in alcuni punti ma anche la doppia illuminazione. Nel secondo invece gli alloggi sono disposti su un unico livello e la doppia illuminazione sarebbe stata affidata alla presenza del vicolo interno, un corridoio a cielo aperto che per le proporzioni tra numero di piani, distanza tra le stecche e presenza delle passerelle di collegamento agli alloggi, non solo non riesce a far penetrare la luce ma determina anche non pochi problemi di privacy.
Un’altra differenza sostanziale è l’attacco a terra che Le Corbusier aveva progettato come uno spazio poroso e permeabile sollevando l’edificio su pilotis, mentre Di Salvo come un avvallamento, un piano inclinato che avrebbe dovuto dolcemente raccordare le diverse quote del lotto ma che in fase di realizzazione è diventato un vero e proprio fossato, una trincea che separa longitudinalmente le stecche e non consente alcun tipo di connessione orizzontale.
Paragonare il nostro edificio alla Unité, nonostante le differenze, ci consente di segnalare alcuni “caratteri” che possono far dire alla Vela: “I’m a Monument”. Una volta liberata dalle costrizioni della logica seriale, che segnava l’impianto del quartiere, e dalla sua funzione di casa popolare, la Vela può diventare il telaio di una vera e propria macchina che tiene insieme la logica dell’alveare, fatto di celle identiche. ma diversamente aggregabili e diversamente occupabili, e quella di una infrastruttura di connessione che – mettendo in crisi la logica delle passerelle interne, si specializza, si articola e identifica parti diverse. Così, la grande macchina può assolvere a usi non tradizionali, legati alle nuove forme dell’abitare contemporaneo (Velasmus per esempio allude a uno studentato specializzato); può differenziarsi in parti sovrapposte verticalmente, che alludono alla tradizionale scansione basamento/corpo/coronamento e danno ragione delle variazioni in sezione altrimenti poco comprensibili; può articolarsi in pezzi dimensionalmente e funzionalmente diversificati; fino a strutturarsi in un sopra e sotto rispetto a un nuovo asse di attraversamento che stabilisce inedite relazioni tra il quartiere e il parco. Così il “vicolo”, risollevato, diventa una strada che riorganizza i pezzi di Vela e determina una assialità che offre alla disposizione inclinata della Vela un nuovo significato, non più interno a un impianto seriale ma capace di alludere a una diversa relazione tra gli elementi del quartiere che il Laboratorio ha individuato come “preesistenze/persistenze”: la stazione della Metropolitana, il lotto M, il Parco e il nuovo edificio universitario, detto familiarmente il Panettone, progettato da Vittorio Gregotti.

2.1 Velasmus

Velasmus è il progetto che più di qualunque altro, senza stravolgerne completamente la forma, esalta la porosità della struttura anche senza depotenziarla da un punto di vista funzionale. Questo progetto infatti prevede la rioccupazione di tutte le parti dell’edificio che, come dei cassetti appunto, vanno a posizionarsi all’interno della griglia. In alcuni casi questi fuoriescono per consentire l’alloggio di una scala e la realizzazione di alloggi duplex; in altri casi la cella resta vuota per aumentare le connessioni orizzontali, in altri ancora diventa spazio comune nei punti in cui si prevedono funzioni a uso collettivo. Un progetto semplice ma efficace che, attraverso piccoli interventi determina una nuova distribuzione funzionale più versatile e razionale (fig. 4).

2.2 Le vele come leve

La macchina in questo progetto viene esaltata in tutte le sue componenti.
Basamento, corpo e coronamento determinano il modo con cui le funzioni si intrecciano all’interno della struttura. Riempiendo il vuoto generato dalla demolizione delle passerelle in cemento armato con nuovi volumi è stato possibile, sfruttando l’altezza, progettare spazi più ampi e più complessi che la cella (3,3 mt x 8,7 mt) non avrebbe potuto contenere.
Il riempimento del vuoto centrale diventa anche occasione per la progettazione di ampi spazi destinati a nuovi tipi di funzione collettiva che non hanno bisogno di illuminazione naturale.
Nuovi collegamenti disposti in facciata consentono l’accesso ai diversi pezzi in cui la grande macchina viene articolata mentre una piazza sopraelevata all’aperto fa da filtro rispetto alle parti a uso privato disposte nel coronamento (fig. 5).

2.3 Pezzi di Vela

Fare a pezzi la Vela. Concepire l’edificio come un’infrastruttura che riorganizzi la relazione tra gli elementi dell’area e in particolare tra la Metropolitana e il Parco. Il vuoto interno, il vicolo, viene riempito fino a una determinata altezza, con i detriti della demolizione delle altre Vele, generando una nuova “quota zero”, una strada (sopraelevata rispetto a quella del lotto M) che finalmente può godere dell’illuminazione naturale e aggregare sul suo percorso una serie di funzioni pubbliche. La parte superiore è destinata ad alloggi i cui abitanti sono anche gli users principali delle grandi attrezzature che vengono realizzate nel basamento (tutte collegate alla musica…). Il taglio delle ali della Vela è indispensabile non solo per dare spazio a queste attrezzature ma anche per consentire alla nuova strada sopraelevata di connettersi in maniera dolce alle strade preesistenti (fig. 6).


3. La Vela come Rovina 4

Una delle strategie adottate dagli studenti nell'ambito del laboratorio è stata quella di portare forzatamente la Vela allo stato di rudere Nelle proposte progettuali, lo spazio fisico viene reinterpretato secondo un principio di astrazione fondato proprio sulla metafora della rovina, che ha permesso di negare la mole e perfino la materialità stessa della Vela, riducendola alla sua essenza strutturale mediante tagli chirurgici.
Nel caso del progetto Double Seeing, il taglio riguarda due interi pezzi, due stecche alternate. Questa operazione permette di mettere a nudo la facciata interna, quella che originariamente affacciava sul vicolo. Questa,finalmente liberata, rivela lo schema a griglia, che costituisce l'ossatura (strutturale e compositiva) della Vela, occultato nella facciata principale dai lunghi parapetti orizzontali. Diversamente, nel caso dei progetti Deconstructing Vela e Parasite, la griglia viene svelata proprio attraverso la demolizione dei parapetti.
Secondo la definizione di Hetzler, “una rovina è il prodotto disgiuntivo dell'intrusione della natura sull'opera umana fatto senza perdita dell'unità (il corsivo è mio) che la nostra specie ha prodotto” (Hetzler, 1988). Lasciare una sola Vela significa anche consentire di percepirla nella sua configurazione unitaria che la griglia, ripetitiva fino all’ossessione, contribuisce a consolidare. Nonostante in tutti e tre i progetti si attui un'operazione di smontaggio/demolizione, questa dunque non implica la perdita dell’unitàdel manufatto, proprio perché esso viene reinterpretato e riproposto nella sua vera essenza, nella nudità della sua griglia strutturale. Su questa, l'intrusione della natura è stata poi progettata.
in Parasite, ad esempio, la natura viene impiantata nelle celle della Vela ripensate come un sistema di spazi che si attivano nel momento in cui vengono intercettati dal nuovo sistema connettivo, mentre gli atri restano allo stato di rudere e lasciati liberi di "ospitare" la vegetazione spontanea, il Terzo Paesaggio di Clément (2005). Lo stesso tessuto connettivo (che si configura come una radice che si arrampica sulla struttura) simboleggia il "ritorno della parte creata dall'uomo alla terra, che alla fine rivendicherà qual è la sua proprietà” (Hetzler,  1988).  
Tuttavia la natura non va intesa solo come vegetazione, ma come tutto l'insieme di eventi che porta un'architettura allo stato di rovina, primo tra tutti il tempo. Un tempo che non è solo quello della Storia, bensì un tempo puro, non databile (Augé, 2004). Esso rappresenta non solo la causa intrinseca di una rovina in quanto tale, ma anche ciò che ne determina l’emancipazione rispetto alla struttura originaria: “il tempo crea la rovina rendendola diversa da ciò che era, qualcosa con un nuovo significato e significazione, con un futuro che deve essere paragonato al suo passato. Il tempo scrive il futuro di una rovina” (Hetzler,  1988).
Nell’operazione progettuale condotta dagli studenti del corso, anche il tempo di rovina, così come la natura, viene ridefinito artificialmente, compresso in un atto voluto, programmato in quanto dispositivo capace di esplicitare il nuovo futuro e il nuovo significato della Vela, la sua redenzione.

3.1 Double Seeing

Il progetto Double Seeing prevede la demolizione di due delle quattro stecche che compongono la Vela, oltre che del sistema di rampe e passerelle (che, attualmente, definiscono gli accessi agli appartamenti) al fine di ovviare al problema della scarsa illuminazione dell'interstizio tra le due parti dell'edificio. Così facendo, la facciata interna viene liberata e riorganizzata secondo la griglia della struttura. La facciata esterna viene invece mantenuta nella sua configurazione originale e su questa viene organizzato il sistema di collegamenti e accessi, attraverso i balconi ripensati come ballatoi. Sulle tracce delle due stecche abbattute vengono attuati due diversi interventi: da un lato un piccolo padiglione atto ad ospitare funzioni collettive, dall'altro un giardino ipogeo (fig.7).

3.2 Deconstructing Vela

Il progetto prevede, attraverso la rimozione dei parapetti in facciata (oltre che del sistema di rampe e passerelle interni), di riportare alla luce la griglia strutturale. Tale griglia viene usata come supporto in cui infilare i moduli abitativi come in una sorta di teca, con parziale riferimento al progetto originario delle Unité d'Habitation di Le Corbusier. La differenza è che in questo caso i moduli non riempiono lo spazio della griglia, ma si limitano a occuparlo parzialmente. Essi infatti, declinati in diverse forme e dimensioni in base al numero di utenti da ospitare, vengono dislocati all'interno della struttura nel rispetto delle aperture esistenti, in modo da creare un sistema di percorrenza interna in sostituzione di quello costituito dalle rampe e passerelle abbattute. Tale sistema di percorsi, sovrapponendosi a quello delle unità abitative, dà luogo anche a spazi più dilatati che ospitano funzioni comuni (fig. 8).

3.3 Parasite

In Parasite, le celle della Vela, portata allo stato di rovina, sono ripensate come un sistema di spazi aperti che si attivano nel momento in cui vengono intercettati dal nuovo sistema connettivo, che si configura come una radice che si arrampica sulla struttura. 
Tali spazi sono pensati per ospitare varie funzioni a servizio della collettività, come orti urbani (i cui prodotti vengono venduti nel mercato alimentare al piano terra dell'edificio), oppure dati in gestione ad associazioni locali. Gli atri spazi restano allo stato di rudere e lasciati liberi di "ospitare" la vegetazione spontanea. Si è pensato dunque ad un edificio capace di trasformarsi e rigenerarsi nel tempo, attraverso l'attivazione progressiva e selettiva dei suoi spazi, anche grazie alla tecnologia low-tech del sistema di percorsi coperti in legno (fig. 9).

 

4. Le vele come paesaggio/topografia 5

Franz Di Salvo aveva avuto una grande intuizione: non è possibile costruire degli edifici tradizionali nel nulla della periferia. Perciò immaginò che questi volumi, se non potevano configurare l'identità di un luogo urbano, dovevano cercare un'altra affiliazione: quella con il paesaggio, in una concezione che intende l'architettura non come alterità ma come estensione simbiotica dell'intorno (Coppola, 2015), da cui il profilo che tenta di farsi parte del terreno alludendo all'orografia di una collina. Il risultato, si sa, è stato fallimentare, ma l'abduzione alla base del concept di Di Salvo resta valida: quella col paesaggio è forse l'unica relazione - senz'altro quella più etica rispetto alla nostra era, l'Antropocene (Morin, 2007) - che un edificio costruito così, en plein air, può sognare di avere. Questo è il motivo per cui alcuni dei progetti hanno puntato a realizzare tale vocazione paesaggistica, lavorando sul binomio natura/artificio: dalla ricerca sono emersi quattro problemi che hanno innescato, nei progetti degli studenti, risposte diverse eppure coerenti rispetto a questo tema.
Il primo riguarda la disposizione: un elemento del paesaggio non si ripete a intervalli regolari e a distanze parallele all'interno di un perimetro rettangolare. I processi che determinano la complessità di un paesaggio non generano disposizioni meccanicamente seriali: anche per questo si è scelto, a monte, di lasciare in piedi una sola vela.
La seconda questione ha a che fare con la geometria. Una topografia è per definizione tridimensionale e se si vuole far parte di questo campo ontologico non si può ragionare di elementi bidimensionali. Le vele invece sono descritte da un "offset", la sagoma che riprende il movimento della collina è banalmente "estrusa", il che provoca estraneità e alienazione.
Il terzo punto è spinoso: la BIGNESS funziona solo con un grosso budget a disposizione. Tolti vetri e pannellature in corian, progettare fuori scala rende le cose infinitamente più complicate: la neuro estetica insegna che si fatica a sviluppare empatia (Mallgrave, 2015) con elementi sovradimensionati.
La quarta problematica riguarda la facciata: lo sforzo di orizzontalità compiuto dal progettista non è riuscito ad accogliere la caratteristica essenziale dei sistemi auto-organizzati: la differenziazione continua alla base della neghentropia (Morin, 2007) naturale. Le fasce delle balaustre, che mal nascondono le poche, piccole aperture, sono monotone, parallele, ancora una volta "astratte" e quindi improprie rispetto a un volume che cerca il contatto con il paesaggio, che è invece fatto di striature irregolari, di porosità a densità variabili secondo leggi matematiche non lineari.


4.1 Vers une archi nature

Il progetto affronta anzitutto la questione posta dalla dimensione della Vela esistente, lavorando sull'arricchimento del grande volume attraverso un approccio concettuale al tema artificio/natura. L'obiettivo del progetto è smussare l'impatto visivo della vela/monolite e stemperarne il perimetro: a questo scopo il blocco di cemento viene "smaterializzato", alleggerito da una grande struttura reticolare spaziale che dà vita a uno spazio trasparente, diafano, ricco di vegetazione. La nuova struttura così realizzata connette dall'esterno la vela al paesaggio, come se, attraverso l'aggiunta di questo corpo poroso, la vela si lasciasse pervadere dall'aria e dalla vegetazione, dissolvendo i propri confini e aprendosi all'orizzonte (fig. 10).

4.2 The Othurz

Il progetto affronta la questione della tridimensionalità strappando la vela all'astrattezza della sagoma estrusa e re-immaginandola come parte organica del paesaggio: per fare ciò gli studenti ricoprono l'edificio esistente e i nuovi corpi costruiti ai lati – dei parallelepipedi puri perforati da travi-ponti - con le macerie delle Vele demolite e con detriti edili provenienti da tutta la regione. Da questo gesto, provocatorio e ai limiti dell’utopico, emerge un’immagine intensa ed evocativa: una montagna che nasconde immense costruzioni cieche, “tombate”, e dalla quale svetta la parte culminale della Vela. Così, il progetto di Di Salvo finisce per ricordare uno ziggurat, una rovina d'altri luoghi e d'altri tempi divorata da una "natura artificiale", colmata che evoca le grandi discariche di cui abbiamo riempito il paesaggio (fig. 11).

4.3 Dalla Vela come lava

Il progetto affronta il tema del continuum natura-cultura attraverso un approccio concreto, trasformando la vela in una figura nuova, positiva, instabile e vitale. Il lavoro accetta la sfida di recuperare l'esistente e di differenziare la facciata senza aggiungere carico e senza interrompere lo scambio con l'esterno: ciò ha spinto gli studenti a fare un salto concettuale, immaginando uno sconfinamento tra il linguaggio dell’architettura e quello dei sistemi emergenti, con l'obiettivo di trasfigurare la vela in un ibrido antropico/naturale (Coppola, Caffo, 2017). A questo scopo, utilizzando anche software morfogenetici, si è ottenuta una curvilinearità differenziata tra i vari livelli, capace di sostenere la grande dimensione, aumentata fino a trasformare l'edificio lineare in una vera e propria conca, incrocio tra piazza e insenatura (fig. 12).


Note

1. I docenti del laboratorio: Progettazione Architettonica/Roberta Amirante; Urbanistica/Laura Lieto; Tecnologia/Sergio Pone; Fisica Tecnica/Fabrizio Ascione; Estimo/Maria Cerreta; Tecnica delle Costruzione/Attilio De Martino.
I tutor: Alessandra Acampora, Claudia Chirianni, Mario Coppola.
2. Testo di Roberta Amirante.
3. Testo di Alessandra Acampora.
4. Testo di Claudia Chirianni.
5. Testo di Mario Coppola.

 

Riferimenti bibliografici

Amirante R. (2018), Il progetto come prodotto di ricerca. Un’ipotesi, Letteraventidue, Siracusa, IT
Augé M. (2004), Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, IT
Clément G. (2005), Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, IT
Coppola M. (2015), La linea della complessità. Architettura PostDecostruttivista vol. 1, D Editore
Coppola M., Caffo L. (2017), “L'architettura del postumano”, in Domus Green, Domus n.1016, p.8
Hetzler F. M. (1988), “Causality: Ruin Time and Ruins”, Leonardo, Vol. 21, No. 1, pp. 51-55
Mallgrave H. F. (2015), L'empatia degli spazi, Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina
Morin E. (2007), L'anno I dell'era ecologica, Armando Editore