Parole chiave: Scampia, Vele, Utopia, Rigenerazione urbana, Processo Scampia, Vele, Utopia, Urban Regeneration, Process
Abstract:
Il contributo del gruppo di lavoro dell’Università di Napoli Federico II al progetto Restart Scampia non si configura come la messa a punto di uno stato dell’arte scientifico né come un prodotto (piano o progetto) definito in tutte le sue parti.
Il documento riparte dalla lettura di cosa sia Scampia oggi, tentando di delineare un processo possibile per la “ripartenza” di questa periferia attraverso l’individuazione di sei azioni che cercano di definire con chiarezza cosa fare per quest’area (e non solo per le Vele) e come farlo anche da un punto di vista fisico, gestionale, temporale e economico. Un passo indietro rispetto all’idea dell’Architettura come esito, che consente di guardare le cose da un’altra prospettiva forse più efficace, certamente più duttile.
Preludio: il punto di vista del documento strategico.
… è evidente che è necessario che l’Architettura (quella con la A maiuscola che ha prodotto molte cose, tra cui le Vele) faccia un passo indietro: non tanto per ridimensionare la sua azione quanto per modificare il suo sguardo e la sua logica interpretativa… il testo, estratto dal contributo di Roberta Amirante al documento strategico elaborato nel 2104 dal gruppo di lavoro della Federico II1 racconta “qualcosa” sullo spirito con il quale i docenti coinvolti hanno deciso di approcciare l’ennesimo studio progettuale sull’area delle Vele.
Ennesimo perché molte volte, in passato, la (allora) Facoltà di Architettura di Napoli ha collaborato con diverse istituzioni e enti alla messa a punto di ipotesi strategiche e alla redazione di piani e progetti finalizzati alla riqualificazione di una delle periferie più famose/famigerate di Italia2 . L’elenco di studi e convenzioni già stipulate, segue e accompagna la storia del quartiere, una storia, come ben noto, difficile e complicata sin dai suoi esordi. Quando il gruppo della Federico II, e in particolare quello del DiARC, ha cominciato a lavorare questa storia pesava (e forse pesa ancora) come un macigno. La qualità e la serietà di molti di questi studi, se da un lato rappresentava un utile patrimonio di confronto, dall’altro sembrava raccontare una storia di straordinaria inefficacia, nella quale anche le poche e depotenziate azioni che erano state con grandi difficoltà attivate sembravano non essere riuscite a sortire effetti. Ma questo è il punto di vista della ex Facoltà di Architettura… quella che contrappone (dal suo punto di vista giustamente) la “grandezza” dell’idea alla base del progetto di Franz di Salvo, alla “pochezza” delle nuove palazzine costruite negli ultimi dieci anni, sull’asse di via Gobetti, a ridosso dei lotti L e M.
A Scampia si arriva con la nuova linea metropolitana, la stazione (di Piscinola/Scampia) si trova a una quota superiore rispetto a quella del quartiere moderno progettato nel 1962. Per arrivare a Scampia bisogna “scendere di livello”; uscendo da questa “stazione dell’arte” mai finita ci si trova davanti a due muri bianchi, il lato corto delle nuove palazzine di via Gobetti, dove si intravede un poster sbiadito: “Benvenuti a Scampia”. Su quel muro, ho sentito dire una volta a Vittorio Passeggio3 , vorrei vedere raccontata la nostra storia e vorrei che la gente sapesse che cosa abbiamo ottenuto.
Da quando nel 1997, sotto l’amministrazione Bassolino, fu presa e poi attuata la decisione di abbattere le Vele del lotto L (la questione per la verità era nell’aria da ben prima ed era stata oggetto di valutazione nella convenzione del DPU del 19934) la città si è divisa. Da una parte politici, amministratori e soprattutto abitanti delle Vele che spingono con forza verso la demolizione, dall’altra architetti, economisti, e uomini di cultura che vedono in questo gesto un inutile atto demagogico e populista che, oltretutto, demolisce un’opera dal disegno molto avanzato per la sua epoca, progettato peraltro con il contributo di figure professionali collaterali tra cui economisti e sociologi (Belfiore 2003).
Alcuni hanno detto che non c’è mai stato un dibattito pubblico, il che forse è vero nel senso che l’intellighenzia, su questa questione, non sembra essere mai stata coinvolta. Ma il dibattito c’è stato e continua a esserci. Gli abitanti delle Vele ne hanno voluto e ne vogliono la demolizione. Questa, per esempio, è una grande differenza rispetto ad altri luoghi analoghi, come lo ZEN, o il Corviale, dove non c’è la stessa volontà o almeno non appare così unanime.
Fuga: Vele si o Vele no?
Quando ci fu chiesto di lavorare a questo documento di supporto di quello che sarebbe diventato il progetto Restart Scampia, il destino delle Vele era già segnato. Come Università avremmo dovuto tentare di convincere il nostro “committente” dell’inadeguatezza delle sue scelte e batterci perché le grandi megastrutture, venissero conservate?
Molti lo sostengono … ma il problema era che alcuni di noi (forse non tutti) condividevano il punto di vista per diversi ordini di ragioni.
Si sono scritti fiumi di inchiostro sulle Vele. Che l’idea alla base del progetto era grandiosa che reinterpretava i principi alla base Unité d’Habitation di Le Corbusier e che rappresentava una delle migliori interpretazioni italiane della tendenza architettonica degli anni ’60 improntata alla costruzione di grandi megastrutture dell’abitare. Si è detto che il progetto originale di Franz di Salvo fu stravolto nella sua fase di attuazione; che non furono realizzati i servizi e il verde pubblico previsto; che l’originale struttura a cavalletto (ispirata alle analoghe strutture di Kenzo Tange) fu sostituita dall’impresa appaltatrice con una tradizionale struttura trilitica e che, quindi, le proporzioni degli edifici furono stravolte; che il sistema di ballatoi e di accesso agli alloggi non fu realizzato come previsto con materiali leggeri e trasparenti; che l’originale profilo a Vela, di fatto, divenne uno Ziggurat… tutto ciò è assolutamente vero e pone sul tavolo la prima domanda: se le modifiche indotte dalla ditta appaltatrice sono di questa portata perché conservare quello che di fatto rappresenta l’ aborto di un’idea?
La risposta che in genere arriva dal mondo dell’Architettura è che in realtà la grandiosità del progetto è tale che sopravvive nonostante le alterazioni indotte e che il vero problema delle Vele è di natura politica e sociale, legato alla progressiva ghettizzazione di fasce marginali e categorie deboli e a un mancato controllo del territorio, condizioni che hanno favorito il proliferare delle organizzazioni criminali… tutto vero e innegabile… ma allora la domanda è: se le Vele sono diventate un “icona” del male, al punto che i suoi abitanti ne chiedono l’abbattimento, può l’Architettura riscattarle attraverso un processo teso a recuperare (non si sa bene come) alcune qualità del progetto originale?
In genere la risposta è si! Altrove è successo! Se si riuscisse a debellare la criminalità, a realizzare i servizi e a indurre nel tessuto sociale la giusta mixitè… a “convertire” le Vele in una tipologia diversa di residenza, magari trasformandole in alberghi, ostelli o terziario… allora!!!! Del resto gli stessi edifici a Marina Baie des Anges e nell’ Ex Villaggio Olimpico di Montreal, da cui traggono ispirazione, funzionano! Anzi sono edifici di lusso!
C’è qualcosa di poco convincente in questa risposta che tende ad assolvere l’Architettura imputando tutte le colpe e i fallimenti alla politica, ai costruttori e agli abitanti. Gli architetti non dovrebbero fare i sociologi, dovrebbero fare gli architetti, anche (e forse soprattutto) quando parlano dei propri (in senso lato) fallimenti. Quindi al di là delle molte considerazioni che ciascuno di noi fa, in quanto cittadino napoletano, membro di una società più o meno civile e (non ultimo) in quanto essere umano, sulle Vele (e non solo) l’Architettura avrebbe il dovere di costruire risposte più “disciplinari”, affrontando la questione dal punto di vista del rapporto con il paesaggio e dell’impianto urbano e di quello tipo-morfologico. E forse queste risposte non sarebbero così assertive (fig. 1).
Quando i sostenitori delle Vele citano Marina Baie des Anges e l’Ex Villaggio Olimpico di Montreal a qualcuno potrebbe sorgere il dubbio che, consapevolmente o inconsapevolmente, stiano barando. A Marina Baie des Anges gli edifici dall’andamento sinuoso, non sono posizionati in serie, ma costruiscono una sorta di geografia artificiale, una corona di colline che determina un’encalve affacciata sul mare (fig. 2).
Nel caso Ex Villaggio Olimpico di Montreal le “Vele” sono anch’esse disposte sul fondo di un parco quasi a costruirne lo sfondo necessario e a dare misura a un’area altrimenti non identificabile in un paesaggio “piatto” e senza rilievi (fig. 3).
A Scampia gli edifici disposti in serie ricordano le vele di navi costrette in un porto … nessuna riesce a emergere, ciascuna è oscurata dall’altra. Ma oltre all’impianto urbano e alla relazione con il paesaggio, ciò che più di tutto fa la differenza tra il caso italiano, quello francese e quello canadese sono proprio gli edifici… simili nell’ “immagine” (per la verità nel caso di Marina Baie des Anges decisamente più bruttina) ma profondamente diversi nell’”idea”.
A Marina Baie des Anges gli edifici sono caratterizzati da un unico blocco e non da due paralleli, mentre a Montreal, dove gli edifici sono forse più simili a quelli di Franz di Salvo, i due blocchi paralleli sono sfalsati in modo che nessuno dei due faccia ombra all’altro.
A Scampia invece ciascun “edificio” è caratterizzato da quattro blocchi disposti parallelamente a due a due rispetto all’elemento di distribuzione principale. Tra i due blocchi paralleli, dal quasi identico profilo, corre un sistema di ballatoi inseriti nel vuoto centrale e disposti alla quota intermedia tra i due piani degli alloggi. Dal ballatoio centrale si dipartono le scale che servono gli alloggi. Come architetti non si può non rimanere affascinati dall’invenzione tipologica, geniale e interessante quasi quanto quella dell'Unité d'Habitation, ma l’effetto sull’ abitare è, secondo chi scrive, devastante (e lo sarebbe stato anche senza modifiche). Nell’ Unitè ciascun ballatoio è una strada urbana sulla quale si affacciano un numero “concluso” di alloggi; nelle Vele ciascun ballatoio rappresenta una strada da cui si dipartono stradine secondarie in una sorta di quadro Escheriano che ricorda le prigioni di Piranesi o, per altri versi, una più napoletana memoria dei Granili descritti da Anna Maria Ortese. L’idea dei due corpi accostati, che avrebbero dovuto avere una distanza di 10.80 mt e invece ce l’hanno di 8.20, che avrebbero dovuto essere attraversati da passerelle leggere e invece sono bloccati da strutture pesanti, nasceva dall’ipotesi di poter “moltiplicare” il vicolo napoletano n/2 volte i piani dell’edificio. Ma un vicolo ha una sola superficie orizzontale, sulla quale si affaccia una vita domestica via via più privata a mano a mano che si va verso un alto che “finisce” e lascia vedere un cielo… E’ questo, probabilmente, il grande limite di questo progetto… l’ipotesi che l’Architettura potesse coniugare antico e nuovo attraverso la sintesi di grandi archetipi e modelli, che l’ “idea” fosse sufficiente per poter ricostruire “in vitro” la struttura di relazioni materiali e immateriali della città storica, indipendentemente dal sistema di dimensioni e di proporzioni degli spazi… un problema di Bigness (Koolhaas 1995) o forse solo il grande scoglio sul quale si sono infrante le Vele, e con esse molte altre utopie italiane, prodotte dall’ Architettura con la A maiuscola, la stessa alla quale viene chiesto, oggi, di fare un passo indietro: non tanto per ridimensionare la sua azione quanto per modificare il suo sguardo e la sua logica interpretativa.
Suite: sei azioni per Scampia
Questo passo indietro, per noi, sta in primo luogo, nell’aver cercato di assumere un ruolo di “servizio” considerando il documento di sintesi dell’amministrazione comunale e quello prodotto dal Comitato Vele come punto di partenza della nostra azione, non negando le ragioni dell’architettura ma riconoscendo dignità e valore a quella storia che Vittorio Passeggio voleva scritta sui muri delle nuove case, considerate una conquista dagli abitanti e orribili dagli architetti. Ripartire dalle “vittorie” ottenute innanzitutto riconoscendole come tali.
In secondo luogo il passo indietro sta nel prendere consapevolezza che il progetto di questi luoghi complessi, non è un’idea, più o meno geniale, da calare su un territorio in attesa di riscatto, ma un processo “aperto”, che si inserisce sul già fatto da gestire per pezzi, per parti e per stadi intermedi disponibili a possibili variazioni nel tempo.
In questa logica l’abbattimento di tre delle quattro Vele rimaste non è qualcosa da ridiscutere, è qualcosa da gestire. È necessario in primo luogo predisporre un progetto di demolizione che tenga conto delle criticità, degli errori (materiali e immateriali) commessi in passato, della possibilità/necessità di ottimizzare il riciclo dei materiali e soprattutto di evitare che nel passaggio degli abitanti dalle Vele ai nuovi alloggi gli edifici vengano (come già avvenuto) in parte rioccupati. Non è possibile prevedere una sequenza temporale “normale” - costruzione dei nuovi alloggi, trasferimento delle famiglie, demolizione dei vecchi edifici - perché nelle lunghe (soprattutto a Napoli) fasi di questo processo troppo spazio sarebbe concesso a nuove occupazioni abusive con il rischio di dover ricominciare tutto daccapo. Nel processo di rigenerazione del lotto M la Vela B, l’unica superstite, è un elemento necessario alla sostenibilità dell’intero processo. L’edificio, riqualificato in maniera “intelligente”, puntando a una flessibilità tipologica e all’aumento delle sue prestazioni in termini di nearly zero Energy, dovrà servire come alloggio temporaneo per le famiglie da trasferire per poter poi essere riutilizzato, al termine del processo, in chiave non residenziale, evitando di trasformare in uno spreco inaccettabile la spesa necessaria alla sua riqualificazione.
Perché il processo di rigenerazione possa essere attivato è necessario procedere a realizzare un’anagrafe qualitativa delle famiglie da riallocare nei nuovi edifici, pensati in una logica di mixitè funzionale e sociale da perseguire ad esempio adottando una quota parte di social housing. Il nuovo impianto urbano, da sovrapporre come un nuovo layer su quello precedente, non dovrebbe limitarsi al ridisegno delle strade del quartiere moderno, come è stato fatto finora, ma dovrebbe puntare costruire un tessuto poroso, caratterizzato da spazi aperti pubblici, privati e collettivi “adottabili” da tutti quei soggetti virtuosi (come le associazioni5 ) che già rappresentano una realtà viva e operante sul territorio. Soprattutto è necessario ricordare a noi stessi e agli altri che il quartiere di Scampia “non finisce con le Vele” e che un’azione di riqualificazione che voglia avere la pur minima speranza di incidere sulla realtà non può che ripartire dall’individuazione dei molteplici e possibili punti di innesco della trasformazione, in una logica che va oltre il perimetro del lotto M e L (fig. 4).
Nel documento elaborato dall’Università pertanto oltre alle trasformazioni previste per il Lotto M si dà ampio spazio ad altre azioni, prima tra tutte quella che punta creare un nodo intermodale intorno alla Stazione della Metropolitana (fig.5).
In passato, uno dei maggiori problemi di Scampia è stato identificato nella mancanza di infrastrutture che collegassero il quartiere al resto della città. Solo nel 1995 è stata aperta la stazione della linea 1 della metropolitana. A differenza di quanto pensano molti napoletani del Vomero o del Centro, che si lamentano perché la metro ha connesso le bande dei ragazzini di Scampia con il resto della città, la stazione di Piscinola/Scampia ha un ruolo di fondamentale importanza nella vita della Città Metropolitana. Tutta la corona dell’area Nord di Napoli gravita su questo nodo di interscambio tra la nuova metro e la linea Arcobaleno (Napoli-Giugliano-Aversa) dove è anche possibile arrivare con la macchina. La stazione inaugurata e mai completata apparterrebbe alla linea della metropolitana dell’arte; nel 2013 questi spazi anonimi sono stati trasformati, grazie alla mobilitazione degli abitanti di Scampia, nell’esposizione permanete delle opere di Felice Pignataro6 e nella prima stazione dell’arte con un’identità autoctona e autogestita. La presenza di questo nodo rende plausibile l’ipotesi di localizzare in quest’area funzioni a scala metropolitana (come il polo infermieristico universitario) ma perché ciò sia possibile è necessario che venga completata la realizzazione dei parcheggi previsti, che siano migliorate le possibilità di scambio sulle diverse linee del ferro e che il completamento di queste operazioni più legate all’infrastruttura si connetta, come già successo per le stazioni più centrali, con la creazione/ riconfigurazione degli spazi aperti della stazione, migliorandone il livello di sicurezza (recenti fatti di cronaca ne dimostrano purtroppo l’urgenza) anche in relazione alla possibilità di usare questo luogo come spazio realmente pubblico, frequentato e frequentabile in tutte le ore della giornata.
Direttamente connessa con la realizzazione di un nodo di interscambio della stazione è l’azione che punta a migliorare le condizioni di accessibilità e di connessione tra le diverse “parti” del quartiere, il cui impianto originario è sostanzialmente pensato secondo i principi della città moderna, caratterizzata da ampie strade per le automobili (fig.6).
I sottopassi pedonali realizzati inizialmente, sono stati successivamente chiusi perché pericolosi e insicuri il che, ovviamente, ha reso ancora più difficile il livello di connessioni interne. Una delle cose che gli abitanti hanno chiesto e ottenuto è stata che le nuove case fossero costruite riducendo la sezione stradale, creando portici (per la verità un po' strettini) lungo il percorso segnato da negozi (per la verità un po' radi e distanti tra loro perché interrotti dalla presenza del retro delle cantinole degli edifici). L’ipotesi è che un’ulteriore operazione di “umanizzazione delle strade” possa attuarsi nel non tanto (e non solo) con la sovrapposizione di una logica ottocentesca al disegno modernista dell’impianto, ma soprattutto con la creazione di piste ciclabili e di percorsi pedonali. Il disegno di questo sistema di mobilità alternativa non solo punta a ridefinire la sezione stradale ma, attraversando tutti gli spazi vuoti e in particolare quelli che si verranno a creare nel lotto M, sostituisce l’idea della griglia con quella della porosità, rompendo la logica dei recinti che caratterizza lo spazio pubblico di Scampia, a partire dai punti in cui ciò è possibile e provando a costruire luoghi dotati di un carattere, sottraendo le strade al loro originale anonimato (fig.7).
In questa stessa logica si inserisce anche l’azione che punta a riqualificare l’area del Parco, fino al 1985 destinata a terziario e poi trasformata dalla legge 219/81 in un parco pubblico, progettato e realizzato dal consorzio Edifar, concessionario dell’intervento, insieme con il Commissariato straordinario alla ricostruzione. La realizzazione del nuovo Parco ha, di fatto, interrotto i collegamenti trasversali tra le diverse parti del quartiere, e ha concentrato tutte le funzioni di servizio nella testata sud-est (il cosiddetto centro civico). Il bordo di quella che gli abitanti chiamano “villa” è di fatto, un elemento di separazione, costruito da una struttura di muro/fossato e da uno spessore esterno che negli anni è diventato un luogo di sversamento illegale di rifiuti e un’area di spaccio e di consumo di stupefacenti. L’azione prevista nel documento strategico è finalizzata a trasformare quella che attualmente si presenta come un’isola, sostanzialmente accessibile solo dalla parte Nord, in una sorta di “spugna” o di “hub”, capace di gestire diversi livelli di connessione _con l’edilizia nuova del lotto L e M, con l’edificato consolidato dei parchi privati a settentrione e con le nuove funzioni universitarie_ attraverso una serie di interventi localizzati soprattutto sui bordi e finalizzati a moltiplicare e a rendere più fluidi gli accessi, a dotare di senso e funzione le aree di bordo ridisegnandole attraverso la rete di mobilità alternativa, e a eliminare tutte quelle condizioni fisiche, come i salti di quota, che hanno aumentato il rischio e la mancanza di sicurezza.
Uno degli elementi che può contribuire a migliorare la connessione tra l’area una volta occupata dalle Vele e il Parco è il progetto della Piazza della Socialità, prevista dal Programma di Riqualificazione Urbana approvato dal Comune nel 1995 e già in corso di realizzazione, la piazza è posizionata all’incrocio tra via Gobetti e Viale della Resistenza (fig.8).
Il progetto prevede la costruzione di 150 alloggi (in parte già realizzati) una galleria commerciale, un supermercato e un teatro all’aperto. I lavori, affidati con gara a un concessionario unico per la costruzione e la gestione, hanno subito un certo rallentamento negli anni che ha consentito al gruppo di lavoro del DiARC, di mettere meglio a fuoco le possibili variazioni di forma e di contenuto di questo nodo. È necessario infatti verificare dimensione e senso delle superfici non residenziali misurando la reale “efficacia” delle funzioni previste dal punto di vista della sostenibilità ambientale, economica e sociale.
Infine, nella logica della “connessione” e della costruzione di una visione più ampia nella quale inquadrare l’ipotesi della rigenerazione urbana di questa periferia, il documento dell’Università arriva a includere nel processo un’area leggermente decentrata, dove è già forte la presenza di attività destinate a un pubblico giovanile che avrebbero bisogno di essere messe meglio a sistema. Si tratta dell’Istituto Galileo Ferraris, della Scuola media Carlo Levi, della piscina e del campo adiacenti all’Itis, dell’edificio di recente costruzione della Piazza Telematica, finanziata con un progetto pilota europeo e mai entrata in funzione. Quest’insieme di spazi è stato già più volte oggetto di azioni “dal basso” (che hanno anche conseguito un premio come best practice) attivate dalle scuole e dalle associazioni (fig.9).
L’insieme di questi soggetti, che ha costruito una rete dal nome “Piazziamoci”, ha lanciato l’idea della “Piazza dei giovani”, ipotesi poi recepita dal Comune ma mai veramente trasformata in un progetto organico. A fianco a interventi di potenziamento delle scuole e delle attrezzature presenti, il documento strategico sottolinea la necessità di elaborare un progetto di uso e di gestione della Piazza Telematica nonché un’ulteriore riflessione sugli spazi al piano terra dell’edificio, originariamente destinato a un internet Cafè mai decollato, finalizzata anche in questo caso a controllare e eventualmente ripensare alcune delle funzioni previste in relazione alle reali esigenze dell’area (fig. 10).
Le sei azioni contenute nel documento strategico probabilmente non fanno altro che “sfiorare” la complessità di Scampia che, come molte delle periferie italiane, è fatta di molte realtà sovrapposte come layer, spesso in fortissima contraddizione tra loro. Questa consapevolezza è stata alla base della scelta del gruppo di non rispondere alla richiesta del Comune e del Comitato Vele con un progetto definito in tutte le sue parti né con una ricostruzione critica e “sapiente” della storia “materiale” e “immateriale” di questi luoghi. Si è invece deciso di costruire un processo partendo da “alcune” delle cose da fare (quelle “possibili”) da utilizzare come innesco e di provare a individuare chi e come potesse contribuire a “fare” e “gestire” queste “cose”. Si è deciso di fare un passo indietro… rinunciando a proporre una sola immagine di Scampia, e delle Vele, posizionata in un imprecisato momento di un futuro indeterminato. C’è chi in questa modalità ha letto l’incapacità di proporre un’idea di città… a noi è sembrato il solo modo per restituire all’ architettura un ruolo sociale e di offrire a lei, a noi e a Scampia un’occasione per poter ripartire…
Note.
1 Il gruppo di lavoro della Federico II è costituito da: per il DiARC Mario Losasso (coordinamento) Roberta Amirante, Renato Capozzi, Alessandro Castagnaro, Valeria D’Ambrosio, Daniela Lepore, Federica Palestino, Paola Scala, collaboratori: Giuseppe Esposito, Vincenzo Guadagno, Francesco Passaro, segreteria tecnica Eleonora Di Vicino; per il DICEA Alfonso Montella; per il DIST Raffaele Landolfo, Francesco Portioli.
2 Si parte dal 1985 con la ricerca finanziata dalla Camera di Commercio di Napoli e dal CNR sulla rete commerciale delle periferie italiane, che assumeva Scampia come luogo paradigmatico, coordinata da Aldo Capasso, per passare alla Convenzione del 1993, stipulata tra il Comune e il DPU, Dipartimento di Progettazione Urbana, coordinata da Uberto Siola finalizzata alla redazione del Piano urbanistico e esecutivo del lotto M nell’ambito del Programma di riqualificazione urbana di Scampia. Nel 1999 è la volta del DUN, Dipartimento di Urbanistica, che con il professore Andreiello stipula una convenzione con il Comune per una consulenza tecnico-scientifica nell’ambito dell’attività di ricerca sulla riqualificazione urbana avviata con il programma Scampia. Tra il 2004 e il 2005 ci riprova ancora il DPU con il prof. Antonio Lavaggi, stavolta con una consulenza stipulata con il Servizio Valorizzazione delle Periferie Urbane del Comune di Napoli. Ancora tra il 2005 e il 2011 il prof. Mario Losasso, come responsabile scientifico del DPU_ Dipartimento di Progettazione Urbana e di Urbanistica dell’Università Federico II_ stipula una convenzione con il Dipartimento Ambiente del Comune di Napoli per l’elaborazione di linee guida e strumenti di supporto decisionale per il servizio realizzazione Parchi Urbani, che vede il Parco di Scampia protagonista. Nel 2011 c’è l’accordo di ricerca tra il DPUU, responsabile scientifico Giovanni Laino e l’Assessorato al Welfare del Comune di Napoli, per la riqualificazione del campo Rom di Cupa Perillo a Scampia. Ancora nel 2013 è Pasquale Miano, sempre del DPUU, il responsabile scientifico di una convenzione, stavolta con l’allora Società Metrocampania Nordest, per gli studi a supporto della riqualificazione delle aree urbane di alcune stazioni di Metrocampania tra le quali quella di Piscinola - Scampia e infine, l’accordo di collaborazione scientifica con la Società Cooperativa sociale “l’uomo e il legno”, coordinata da Federica Palestino, finalizzata alla messa a punto di strategie di comunicazione e accompagnamento del processo partecipativo di rigenerazione di spazi pubblici all’interno del quartiere.
3 Vittorio Passeggio è, insieme con l’architetto Antonio Memoli, una delle voci più “autorevoli” del comitato Vele. Uno dei primi assegnatari e uno dei principali protagonisti di una battaglia che ha coinvolto tutti gli abitanti delle Vele ed ha permesso a 1114 nuclei familiari di abbandonare i "lager" per insediarsi nei nuovi alloggi, realizzati negli ultimi dieci anni a poca distanza dai lotti L e M di Scampia.
4 Cfr. nota 2
5 Se si volesse individuare un simbolo della rinascita del quartiere napoletano di Scampia dopo gli anni bui delle guerre di camorra e dei supermarket della droga, bisognerebbe andare a cercare tra le 120 associazioni attive sul territorio, un numero sorprendente per un quartiere di quarantamila abitanti considerato l’emblema delle periferie difficili italiane (Mastandrea 2016).
6 Felice Pignataro è un artista napoletano, scomparso nel 2004, che ha realizzato moltissime opere nei quartieri di Scampia, Piscinola e Secondigliano finalizzate al risveglio delle coscienze e al coinvolgimento attivo dei giovani e ragazzi del quartiere. Nel 1981 ha fondato a questo scopo, insieme con la moglie Mirella, l’associazione culturale Gridas.
Riferimenti bibliografici
Belfiore P. (2003) “Architettura Politecnica. La sperimentazione nell’architettura napoletana”, in Fusco R. (a cura di) Franz di Salvo. Opere e progetti, pp. 9-16, Clean, Napoli, IT.
Koolhaas R. (1995) “Bigness or the problem of Large”, in Koolhaas R. (1995), SLMXL, pp. 495-516, Monacelli Press, New York, US.
Mastandrea A. (2016), Scampia cambia volto grazie alla resistenza dei suoi abitanti https://www.internazionale.it/reportage/2016/05/21/scampia-vele-camorra-associazioni