L’amico Alberto Clementi mi ha chiesto di scrivere un articolo sul progetto urbano. Ne sono stato lusingato, ma al tempo stesso spaventato avendo visto quali urbanisti avevano già trattato lo stesso argomento. Il senso di smarrimento è aumentato quando dalla sola lettura del testo di Alberto ho rilevato la mia incapacità di capire il significato di molte espressioni, come “interventi a diversa grana” o “strategia trans-scalare”. Ormai però avevo preso l’impegno ed ecco le mie riflessioni sul tema.
Sostengo la necessità del passaggio dal piano al progetto da oltre trenta anni, e sono quindi convintissimo che occorra valorizzare il secondo, ma ritengo che non si possa parlarne se non congiuntamente al primo, che resta il cardine fondamentale del governo del territorio, anche se nel tempo ha cambiato notevolmente il suo ruolo.
Scusandomi per l’ovvietà, dobbiamo ricordare che l’urbanistica moderna nasce proprio con il piano e che sul piano regolatore comunale è incentrata tutta la legge urbanistica del 1942. Con l’introduzione degli standard generali si afferma il principio di pianificazione che si concreta nella indispensabilità e nella irrevocabilità del piano, il quale infatti è: a) indispensabile perché in sua assenza è praticamente esclusa qualsiasi costruzione; b) è irrevocabile perché ipotizzare la sua revoca contraddice la regola fondamentale che impone di non metter mano ad alcuna trasformazione se prima non si è provveduto a una complessiva disciplina del territorio.
Il richiamo al ruolo fondamentale del piano costituisce la premessa per passare a mettere in guardia dai pericoli di quella che ho chiamato la “panurbanistica”, frutto della strana convinzione degli urbanisti di avere il dono della profezia e di potere quindi regolare il futuro del territorio, malgrado i sempre più rapidi cambiamenti della società e delle relative esigenze da soddisfare. Il problema è ben noto alla prassi; basti pensare al “pianificar facendo” del Comune di Roma.
La correzione di tali eccessi non deve portare però alla completa de-pianificazione, cioè alla totale rinuncia al piano, bensì al ridimensionamento del suo contenuto che va reso aperto e flessibile, con previsioni quindi limitate alle cosiddette invarianti e rinvio d’ogni altra scelta al momento in cui dovrà attuarsi la realizzazione del concreto progetto. Per usare una terminologia accolta da varie leggi regionali, si deve passare al piano (solo) strutturale, conformativo del solo territorio e non della proprietà, secondo la terminologia che proposi nel lontano 1984 e che è ormai comunemente recepita. Tutto il resto va deciso al momento della realizzazione: al momento del progetto, appunto. Ciò sarà reso possibile dal piano meramente strutturale, il quale in sostanza non dice più dettagliatamente ciò che si può (o si deve) fare, ma solo ciò che non si può fare perché incompatibile con la destinazione di larga massima in ciascuna zona.
In una parola, “il caro vecchio piano regolatore” va limitato alla fissazione di un minimo di invarianti, cioè alle sole previsioni che possano avere efficacia a tempo indeterminato. Il che vale a dire che il progetto non dovrà più essere rigorosamente conforme al piano, ma solo compatibile con le sue previsioni; e che la sua elaborazione è pertanto molto più libera di adattarsi alle concrete esigenze dell’attualità (che può essere anche molto lontana nel tempo rispetto al momento in cui il piano fu approvato). Di qui la decisiva importanza del progetto, non più a carattere rigorosamente esecutivo, ma in senso lato solo attuativo.
Prima di continuare a parlare del progetto, è però necessario ricordare un altro dato pacificamente acquisito: la generazione dei piani di espansione è finita e non tornerà mai più, perché la dispersione abitativa e produttiva è uno spreco inammissibile di risorse e anche perché l’impermeabilizzazione del suolo ne minaccia pericolosamente la stabilità. Non possiamo dunque permetterci più quello che con bruttissima espressione viene chiamato il consumo di suolo. Ne consegue che occorre necessariamente puntare esclusivamente sulla densificazione dei centri urbani esistenti.
Qui occorre fare i conti con un problema generalmente trascurato: poiché non siamo negli Stati Uniti o in altri luoghi senza storia, ma in un Paese in cui v’è un gran numero di edifici vincolati e di agglomerati che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale, occorre necessariamente fare ampio ricorso al costruire sul costruito; e qui sorge un altro problema: ai sensi dell’art. 10, comma 5, del T.U. dei beni culturali, non sono suscettibili di vincolo protettivo gli immobili “che siano opera di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni”.
Tale disposizione, che per le ragioni che vedremo preoccupa fortemente chi scrive, risulta invece generalmente e sorprendentemente condivisa dalla dottrina. Si è infatti autorevolmente sostenuto che essa, “ereditata, senza modifiche dai precedenti legislativi di disciplina del settore, trova valide ragion d’essere ... nella necessità di consentire che la valutazione riguardo l’effettiva sussistenza dei profili di interesse culturale della cosa maturi in un arco temporale idoneo a consentire apprezzamenti il più possibile scevri da elementi di giudizio effimeri e contingenti”.
Altro autore spiega che si tratta di un limite, “che fra l’altro risulta utilizzato da numerose legislazioni straniere”, e per il quale vi è una giustificazione “relativa al fatto che l’attribuire particolare pregio ad un’opera di artista vivente potrebbe risolversi, in qualche caso, in un giudizio troppo affrettato e inopportunamente anticipato sul valore dell’attività dello stesso artista, con la conseguenza che tale giudizio potrebbe essere suscettibile di modifica, in futuro, in occasione di una nuova fase di produzione artistica, di pregio inferiore rispetto alla prima”.
Possiamo prescindere dall’ultima parte della seconda citazione, poiché il vincolo su un immobile è imposto in considerazione della qualità dello stesso e non della fama del suo autore, ben potendo avere rilevanza culturale anche la singola opera di un autore che poi non ha più operato o che ha poi fatto solo interventi senza qualità. Possiamo altresì prescindere dal richiamare altri commentari, tutti orientati nello stesso senso, perché la situazione sembra invece a chi scrive molto diversa.
Ovvia premessa dell’ulteriore riflessione è che nessuno – credo – può dubitare che il Maxxi di Zaha Hadid o l’Auditorium di Renzo Piano o la stazione dell’Alta Velocità di Reggio Emilia di Santiago Calatrava siano opere di valore artistico, sebbene la prima sia stata ultimata nel 2003 e le altre due siano di autori viventi. Le conseguenze della mancanza di tutela sono sotto gli occhi di tutti: basta andare a Santa Marinella per constatare lo scempio che hanno subito le ville denominate La Califfa e La Saracena di Luigi Moretti.
Una eccezione felice fu fatta per il ponte sul Basento di Sergio Musumeci, ultimato nel 1976, vincolato prima del decorso di 50 anni dalla sua costruzione con l’espediente della legge Bottai del 1939, formalmente non abrogata sebbene fosse già entrato in vigore il d. lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, che all’art. 2, comma 6, prevedeva il limite temporale. Altra eccezione si ebbe per la Chiesa di Santa Maria Annunciata all’Ospedale San Carlo Borromeo a Milano, realizzata da Giò (Giovanni) Ponti nel 1966 e vincolata nel 2005, con il diverso espediente di estendere al proprietario la facoltà prevista per l’autore (deceduto da tempo: per la precisione nel 1979).
Una vicenda negativamente esemplare fu invece quella del velodromo olimpico nei pressi dell’EUR (viale dell’Oceano Pacifico) di Ligini, Ortensi e Ricci, definito “il velodromo più bello del mondo”, fatto saltare nel 2008, un anno prima che compisse 50 anni. Altra triste vicenda, del tutto singolare è quella che ha riguardato la colonia di Riccione per i figli dei dipendenti dell’ENEL, realizzata nel 1963 da Giancarlo de Carlo. Questi, nel 2005, poco prima di morire fece richiesta di riconoscimento del particolare valore artistico della colonia e il provvedimento fu emanato subito dopo la sua morte; ma l’ENEL vendette poi la struttura ai figli del grande architetto e i nuovi proprietari rinunciarono alla domanda del padre e a qualsiasi diritto derivante dal riconoscimento del pregio artistico. Trasformata successivamente in albergo di lusso, l’opera non potrà più tornare ad essere un bene culturale.
Naturalmente la norma vigente potrebbe essere cambiata, ma non è ragionevole sperarlo, viste le premesse e la nota incapacità della nostra classe politica di occuparsi dei problemi della cultura. Ecco quindi che ritorna a pieno titolo l’importanza del piano regolatore, al quale deve senz’altro riconoscersi la possibilità di individuare immobili meritevoli di essere tutelati anche se non altrimenti vincolati, stabilendo il divieto di alterarne in alcun modo il loro esteriore aspetto. È quanto, ad esempio, è stato fatto molto opportunamente da Franco Purini con il piano del Comune di Formia, ancora in attesa di approvazione.
Dopo avere ricordato la (pacifica) fondamentale importanza del progetto, come soluzione concordata dell’inserimento di qualsiasi intervento complesso nelle maglie del piano regolatore generale, resta da considerare la grande difficoltà di trattare con i proprietari, parimenti sottolineata da tutti, ma senza trarne le inevitabili conseguenze. Le quali conseguenze mi sembrano invece ovvie: non si deve più trattare con la proprietà. Come ciò possa avvenire è presto detto. I Comuni infatti possono costituire società di trasformazione urbana per l’attuazione degli strumenti urbanistici (art. 120 d. lgs. 18 agosto 2000 n. 267), mediante la preventiva acquisizione delle aree interessate dall’intervento, la trasformazione e la commercializzazione delle stesse. L’individuazione degli immobili su cui intervenire equivale a dichiarazione di pubblica utilità, anche per gli immobili non interessati da opere pubbliche. La scelta dei soci privati va ovviamente fatta mediante procedura a evidenza pubblica.
Ciò detto, nulla osta, a mio avviso, a che il Comune, anche senza creare una propria S.T.U., metta a gara l’attuazione di un progetto urbano indicandone quelli che ritiene i tratti fondamentali e invitando a formulare proposte migliorative nell’ambito del criterio di aggiudicazione detto della offerta economicamente più conveniente. Non c’è neppur bisogno che il Comune si dia carico di effettuare il preventivo esproprio delle aree, che verrà effettuato direttamente a favore della costituenda S.T.U. privata, vincitrice della gara, con indennità a carico della stessa.
Nel sottoporre la proposta ai lettori, richiamo la loro attenzione sul fatto che l’importanza di liberarsi dal condizionamento proprietario non è solo da considerare nell’ottica delle modalità di attuazione del progetto urbano, ma anche e soprattutto nell’ottica più ampia di risoluzione del problema che gli economisti classici chiamavano della rendita parassitaria, e che ha da sempre rappresentato il problema principale della nostra materia.