Posizioni sul progetto urbano / 3

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L’equivoco del progetto urbano Giuseppe Roma
Giuseppe Roma, Presidente RUR Rete Urbana delle Rappresentanze /Urban Research Institute (www.rur.it) PDF




Il Progetto urbano è entrato in maniera plateale nella pianificazione del territorio per far fronte ai limiti e alle rigidità del Piano Regolatore. La logica statica che fissava il disegno della città per un certo numero di anni, imponendo le traiettorie dell’edificazione, si è naturalmente scontrata con i rapidi cambiamenti di un’economia e una società più competitiva, con uno sviluppo influenzato da molte variabili e una certa saturazione dei processi di nuova edificazione. E’ venuto quasi naturale frammentare il disegno unitario di una città ormai senza confini e senza limiti, parzializzando gli interventi per ambiti più definiti e sostituendo al disegno integrale, ma inefficace, del Piano Urbanistico un mosaico di ambiti riprogettati ad hoc. Un disegno architettonico più dettagliato, ma spesso privo delle compatibilità indispensabili per territori vasti.
Un tale mutamento che, almeno in Italia possiamo datare negli anni ’80, ha permesso di perpetrare la prassi edificatoria e la colonizzazione di nuovo territorio urbano, soprattutto a fini residenziali e commerciali, senza tuttavia affrontare i destini della città come organismo complesso e integrato. Persino da un punto di vista strettamente disciplinare, l’affermarsi del progetto ha messo in crisi settori di ricerca e formazione fondamentali, riferiti a quello che un tempo si chiamava urbanistica. Riferimento ormai desueto in quasi tutti i corsi di laurea italiani.
Non così avviene negli altri Paesi, dove l’urban planning e più in generale le strategie di sviluppo urbano coprono uno specifico disciplinare con rare invasioni di campo da parte dei giuristi, degli economisti, dei geografi, dei sociologi, degli antropologi e persino dei politologi. Questa resa al progetto può essere interpretata anche in modo malizioso in quanto, soprattutto nel nostro Paese, ha comportato un eccesso di flessibilità molto gradito a tutti i soggetti che nel pubblico e nel privato non intendono modificare i propri comportamenti, rifiutando le innovazioni proprie di più equi meccanismi di produzione edilizia e immobiliare.
L’introduzione della finanza immobiliare nelle trasformazioni urbane comporta certamente elementi di pericolosa subordinazione al grande potere finanziario, ma al tempo stesso supera i limiti della pianificazione rigida e verticale, in quanto individua in ogni intervento la domanda potenziale cui è collegata la stessa possibilità di realizzare le opere. Se il Terminal Ostiense fosse stato finanziato con meccanismi di mercato, certamente non avrebbe dovuto attendere venticinque anni per essere effettivamente utilizzato.
Registriamo invece come molte previsioni di piano restino inattuate, o abbiano necessità di varianti, per poter incontrare effettivamente o una domanda di mercato o un effettivo interesse pubblico. Vi sono poi molte ragioni di attualità connesse all’impossibilità degli Enti Locali e delle Istituzioni nazionali di destinare significative risorse pubbliche per riqualificare il territorio.
Quindi ci troviamo di fronte a due possibili modelli: quello in gran parte attuato negli ultimi anni nel nostro Paese e quello che invece utilizzano tutti i paesi europei ad economie di mercato.
Il progetto così come lo abbiano finora utilizzato ha consentito di determinare valori in compensazione attraverso il mercimonio delle delibere comunali, ha seguito ancora la logica squisitamente fondiaria rendendo possibili la localizzazione di importanti nuovi nuclei urbani, al di fuori da ogni logica di armonico sviluppo e riqualificazione delle città esistenti. In definitiva la logica italica del progetto urbano ha reso l’indispensabile l’allentamento dei vincoli pianificatori uno strumento di scambio politico ed economico nella valorizzazione delle città, senza in alcun modo rispettare il bene comune che è il riferimento ultimo di ogni politica urbana.
Ma come spesso accade la furbizia nazionale, il trasformismo delle regole e lo scambio di benefici corporativi ha sostanzialmente prodotto il blocco dei progetti in gran parte delle aree metropolitane, fatte salve poche eccezioni. Inoltre, hanno avuto successo opere firmate da progettisti noti, talvolta più vicini allo show business che al rigore architettonico, a fronte di un insieme generalizzato di realizzazioni scarse e di bassa qualità. Soprattutto se confrontate con quanto sta avvenendo in tutte le città medio-grandi del continente europeo.
Ad Oslo hanno messo mano a una parte significativa del waterfront portuale; ad Amburgo oltre a riqualificare la Hafen City del porto storico stanno procedendo col metodo IBA alla rigenerazione ecologica delle periferie; Amsterdam guadagna territori oltre l’acqua ma in prossimità dell’area centrale della stazione; Parigi ha scelto l’area sud-est per ricreare attorno alla Très Grande Bibliothèque un vero nuovo centro con funzioni pubbliche e private, e si potrebbe andare avanti citando molte altre città, da Danzica a Dresda, da Marsiglia a Salonicco.
In termini estremamente sintetici, il meccanismo virtuoso che consente alle città di rinnovarsi si basa fondamentalmente su tre punti:
-   utilizzare il più possibile il territorio urbanizzato;
-   definire le strategie di sviluppo sociale, economico e ambientale, e la rete infrastrutturale, indicando il disegno di massima della città a cura delle autorità pubbliche locali;
-   sollecitare gli investimenti privati per la concreta realizzazione degli interventi dentro un preciso quadro di sviluppo definito dalle autorità locali.
Il primo punto è cruciale in quanto, al di là delle teorie e degli slogan sull’urban renewal, o sulla rigenerazione urbana, il riordino della città si basa sul massimo utilizzo di territori già vissuti, vicini a centri e nodi urbani già utilizzati, mentre tende a non considerare come conveniente l’urbanizzazione di territori vergini. Nei fatti ciò equivale a ridurre la componente fondiaria di trasformazione (dal non uso allo sfruttamento edilizio), soppiantata dalla rivalutazione di valori localizzativi contenuti entro patrimoni edilizi a valori decrescenti per obsolescenza o degrado. Un tale principio non solo difende il territorio naturale o rurale mantenendolo nelle sue funzioni produttive o ecologiche, ma elimina anche le sacche di degrado e di insicurezza esistenti nel corpo costruito nelle città. Per ottenere un tale risultato non è da escludere una trasformazione dei volumi e degli assetti, delle tecnologie costruttive, delle forme di approvvigionamento energetico del tutto innovative e ispirate ai criteri della sostenibilità.
Il secondo punto riguarda la funzione istituzionale delle autorità pubbliche cui spetta, con il concorso dei soggetti operanti nelle città o portatori di interessi, il compito di definire le linee di tendenza e le scelte strategiche per la città.
Questo vale anche per le localizzazioni dei futuri interventi che devono ritrovare una coerente interdipendenza fra le funzioni indispensabili alla vita della città (in particolare abitare, lavorare, muoversi, svagarsi, acculturarsi ). In altri termini, è una autorità collettiva di grado superiore al singolo soggetto portatore di interessi a definire il “dove” in relazione a una strategia di cambiamento della città. E’ impensabile che chi voglia costruire uno stadio si scelga la localizzazione sulla base di interessi soggettivi.
Terzo e ultimo punto è invece l’inversione di protagonismo riguardante gli investimenti necessari a trasformare le città. Laddove si manifesti la volontà programmatica della politica e delle istituzioni, è possibile che lo spazio attribuito al mondo delle imprese e all’ investimento privato divenga rilevante, seppur condizionato all’interesse generale in relazione al disegno stabilito dalla Pubblica Amministrazione per la città.
Si tratta quindi di un gioco di pesi e contrappesi in cui diventano chiari e separati ruoli e le funzioni, i sistemi attraverso cui è possibile realizzare un utile di impresa e i limiti attraverso cui la politica lo può indirizzare. Salterebbero in questo modo le ambiguità che oggi consentono un indicibile scambio e sovrapposizione fra interessi che hanno inquinato gran parte della crescita delle nostre città.
E’ ben evidente che questo modello debba poi plasmarsi sulle diverse strutture del sistema insediativo, assai diversificate nei grandi paesi europei. Ad esempio Italia e Germania hanno una struttura simile, concentrando attorno al 40% della popolazione in città di medie dimensioni e una quota di circa un quarto della popolazione in piccole città (tab. 1). Ciò implica la necessità di graduare gli strumenti in funzione delle dimensioni delle città, riservando alle sole aree metropolitane i modelli di intervento più complessi.
Per le piccole città, l’Italia rappresenta un benchmark nella gestione urbana in tutto il mondo. Il più diretto attaccamento delle comunità al proprio territorio ha consentito, in quelle parti del Paese, il mantenimento di valori ambientali, culturali e storici. Inoltre, una buona dotazione di servizi garantisce una elevata qualità della vita, il mantenimento di comunità integrata e solidale. Proprio dal modello di gestione dei piccoli comuni efficienti (escludendo naturalmente le problematiche delle aree interne) possono venire utili suggerimenti per l’urban management . Ma questa è un’altra storia

Tab. 1 – Popolazione residente per tipo di città (2017)

Fonte: elaborazione RUR su dati Eurostat

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