Men in dark times
I tempi oscuri sono spesso popolati da incubi, che possono nascere direttamente dalle criticità delle situazioni reali, ma anche essere la conseguenza delle speranze deluse di qualche progetto di rigenerazione, che è rimasto incompiuto o ha provocato effetti perversi. Non mancano neppure le aspirazioni a “fare luce”, che possono assumere la forma del sogno: come presa di distanza da una realtà deludente, ma anche anticipazione di un futuro diverso, forse utopico, forse possibile. Viviamo forse, di nuovo, in tempi oscuri? Potremmo osservare, con Benjamin (1986), che ogni società ha la sensazione di trovarsi, nel suo tempo, al centro di una crisi decisiva (in questo senso, “ogni epoca si può sentire a suo modo moderna”). Certo, il nuovo millennio è costellato da nuovi e gravi incubi, a prima vista spesso inattesi (ma anche la Belle Epoque, un secolo prima, non si aspettava gli orrori del ‘900); mentre la produzione di sogni sembra assai più debole e incerta rispetto alle tradizioni dei Lumi, utopiche o riformiste. Tuttavia, saremmo ancora lontani, per ora e per fortuna, dai tempi oscuri dei totalitarismi che hanno ispirato le riflessioni di Hannah Arendt (Men in Dark Times, 1968)? Io credo che un’associazione tra le due fasi sia giustificata sulla base di un carattere comune. Arendt ci spiega che è oscuro un periodo storico nel quale entrano in crisi, al tempo stesso, la sfera pubblica e le virtù repubblicane dei soggetti. Rigenerare uno spazio di discussione aperta e di senso condiviso è tanto importante quanto poter contare su soggetti che pratichino amor mundi, responsabilità civica, spirito critico e solidarietà sociale (Berkowitz et al., 2010; Benhabid, 2010). Solo in questa prospettiva incubi e sogni possono mettere in crisi il “sonno della ragione” (dove il motto, abusato, di Francisco Goya è rivisto in una sequenza rovesciata: il punto non è che la ragione dormiente possa generare mostri, ma la possibilità di “fare nuova luce” anche grazie a incubi e sogni). E’ questa la prospettiva secondo la quale mi piace ripensare insieme due opere di Carlo Donolo: l’immagine inquietante di Italia sperduta (2011a), il Sogno del buon governo, già pubblicato nel 1992, ma riedito, con integrazioni, nel 2011(b). Due immagini a contrasto, se pur temporalmente allineate, che conservano una piena attualità a distanza di quasi un decennio. Se gli stessi incubi sono ancora incombenti, e forse più gravi, sognare il buon governo è ancora possibile, e come?
Attualità dell’oclocrazia?
Mi ha colpito la lettura di Italia sperduta perché mette a disagio (ho già esposto questa sensazione in Palermo, 2018). Di Carlo Donolo tutti riconoscono le doti di equilibrio e misura, sobrietà e (auto)ironia. Potremmo adottare la sua figura come emblema dell’homo democraticus: che fa costante esercizio di tolleranza, non pretende di cambiare la natura umana, sa convivere con i suoi opposti, accetta falsificazioni, non cerca la perfezione e non promette paradisi in terra (2011b, p.14). Eppure, il suo discorso in Italia sperduta assume i toni dell’invettiva civile in alcuni passi cruciali. Quella italiana è una società “gracile, frammentata, largamente incolta che si è persa in un mondo più complesso e rischioso”. Di fronte alle difficoltà, cerca di affidarsi ancora agli strumenti più tradizionali, per quanto poco edificanti: “familismo, clientelismo, corporativismo, individualismo possessivo, appropriazione privata di beni collettivi”. Gli esiti non possono essere confortanti. Una svolta riformista sembra impossibile perché continuano a mancare requisiti essenziali: sfera pubblica, coscienza civica, capacità critica e riflessiva, un potenziale d’azione e cooperazione effettivamente orientato alle riforme. Quello che resta è “una sindrome populista e neo-plebea” che tende a eludere i problemi reali. La società (o quanto meno una sua parte cospicua) si mostra sensibile a idola fori, rendite e favori, ma non sembra preoccuparsi di rimanere “ignorante, semi-analfabeta, rissosa, volgare, asociale”, in un quadro diffuso di crisi normativa e illegalità operanti (Donolo, 2011a, pp.VII-XI). Gli orientamenti politici emergenti sono il riflesso coerente di questo stato di cose.
Sento il fragore, immediato, delle obiezioni. Donolo, dunque, metterebbe in dubbio la sovranità del popolo? Per il senso comune, questo equivale a negare le basi stesse della democrazia - anche se Norberto Bobbio ha osservato (1999, p.332) che sarebbe più corretto riconoscere la sovranità agli individui come cittadini (peraltro, la stessa nozione di cittadino è oggi al centro di evidenti strumentalizzazioni). In termini meno forbiti, si suole dire: pensi forse che il popolo sia troppo rozzo e stupido, o peggio, per esprimere degnamente una volontà collettiva ed assumere decisioni di pubblico interesse? Alcuni pregiudizi hanno una lunga storia: dall’immagine viziosa del volgo secondo Platone (Bobbio, 1999, p.328) a quella hegeliana del “popolo che non sa quello che vuole” (ivi, p.342), e altre ancora, non dissimili. Ma in questo caso il punto mi sembra diverso: si tratta di un giudizio limitato e specifico, che trova riscontro nei fatti. Mi pare un dato obiettivo la formazione di una “nuova plebe” (il termine può mettere a disagio, ma tecnicamente è giustificato: Bobbio, 1999, p.332) largamente analfabeta e irresponsabile, che continua a credere nelle favole dell’assistenzialismo e del protezionismo. Così come ci sono élites che continuano a credere di vivere in una Belle Epoque, confondendo le condizioni benestanti di una minoranza con le prospettive del mondo intero (saranno sempre sorprese dalle svolte della storia: è impressionante rileggere il manifesto dell’Esposizione Mondiale di Parigi del 1900, celebrazione auto-referenziale che nulla percepisce dei conflitti e delle tragedie incombenti). Nello stesso tempo, gli “spiriti animali” del capitalismo continuano a mostrarsi insofferenti alle regole della società civile liberale, che pur sarebbero più funzionali ai loro stessi interessi, in un tempo debito. L’intreccio fra queste tre linee di tendenza è fonte inesauribile di effetti perversi e continua ad alimentare la rigenerazione di dark times, come un destino apparentemente senza fine.
In questo quadro, credo che sia ragionevole respingere le obiezioni più banali (che ho anticipato in Palermo, 2018). Le posizioni di Donolo in Italia sperduta non rappresentano un caso palese di incomprensione delle ragioni e volontà popolari da parte delle élites (nel senso, per esempio, di Christopher Lasch, 1995, che l’editore italiano ha rilanciato recentemente come autore capace di spiegare i populismi emergenti in Europa – ipotesi non esauriente a mio avviso). Non sono neppure la semplice manifestazione di uno spirito partigiano, come se i giudizi di Donolo fossero condizionati dalle preferenze elettorali espresse dal popolo nel 2008, ma per estensione potremmo dire anche oggi: se gli orientamenti non avessero premiato allora il centro-destra e ora i nuovi, eterocliti, vincitori, le valutazioni sarebbero state forse differenti? La mia ipotesi, è che l’invettiva di Donolo abbia un fondamento meno contingente e certamente non solo ideologico. Il punto fondamentale riguarda le radici, indispensabili, del regime democratico, che per Donolo sono necessariamente sociali (2011b, pp.26-33). Se vengono meno alcuni requisiti – virtù repubblicane e capitale sociale, cittadinanza attiva e principi di solidarietà – la democrazia reale è a rischio. Non basta evocare il sistema ormai consolidato delle forme della democrazia politica, perché l’uso di regole e procedure democratiche può essere condizionato da interessi e poteri prevalenti, e le speranze deluse della democrazia (la crisi endemica di trasparenza e di efficacia, il ritorno – latente o palese – di poteri oligarchici e interessi di parte, i fattori di erosione della cultura civica e di crisi della rappresentanza: Bobbio, 1984, pp.10-17) possono alimentare ulteriori derive degenerative: come l’oclocrazia già nota al mondo antico (Bobbio, 1984; Bovero, 2000).
Di fronte al classico dilemma – governo delle leggi o governo degli uomini – le risposte più autorevoli e condivise tendono a convergere sulla prima opzione (ad esempio, Bobbio, 1999, p.193). Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi, profeti, custodi o grandi timonieri, né di una prefigurazione dall’alto di un’idea di bene comune, ma può affidarsi alle iniziative e relazioni emergenti dalla società civile entro un quadro legittimo e rispettato di buone regole (senza la supervisione di uno Stato etico: Bobbio e Bovero, 1979). Tuttavia, il tema del “governo degli uomini” assume una valenza diversa se non è inteso soltanto dal punto di vista dei governanti. Perché consente di mettere in gioco le radici sociali della democrazia - tema che Bobbio non ha ignorato (1999, p. 347), ma Donolo sviluppa in forme originali ed estese, appassionate e pertinenti. La qualità della vita democratica non può non dipendere da alcuni requisiti fondamentali della società civile: come l’attualità delle virtù repubblicane, cioè la presenza di cittadini autonomi e responsabili, attivi e solidali; la dotazione e cura di buone istituzioni e beni comuni; la possibilità di un’estensione progressiva dei principi democratici a una varietà di pratiche sociali (non solo alle procedure della politica: Donolo, 2011b, p.215). Questi presupposti sono decisivi per la riproduzione della vita democratica, che è meccanismo intrinsecamente fragile e a rischio, innanzi tutto per fattori endogeni: perché la democrazia stessa genera bisogni ed aspettative difficilmente sostenibili, che possono mettere in crisi i suoi fondamenti di legittimazione e consenso. Senza un ethos democratico diventa difficile la convivenza, tollerante, fra una pluralità di valori e principi organizzativi, che è principio costituente della democrazia (ivi, p.77). Senza il senso dei limiti e un’idea processuale di razionalità collettiva, come effetto emergente di pratiche adattative/riflessive di “piecemeal tinkering” (Popper, 1975, p.67), il sistema formale della democrazia può degenerare (Donolo, 2011b, p.150). Il rischio della oclocrazia diventa allora una conseguenza plausibile (Bovero, 2000). Se questo rischio sembra oggi attuale, ancora una volta, è inutile limitarsi a paventare o celebrare la tendenza. Dovremmo interrogarci sulle determinazioni sociali di questi movimenti, e sulle possibilità di modificarle, orientandole verso forme ed esiti più sostenibili. Per provare a uscire da scenari da incubo.
Sognare il possibile
A Carlo Donolo non è mancato il coraggio di proporre e riproporre un sogno sulla questione del buon governo, in tempi carichi di ombre come i primi anni ’90 e la grande crisi, vent’anni dopo. L’idea di sogno deve essere bene intesa. Forma estrema (e irresponsabile) di immaginazione o anticipazione di un futuro possibile (da realizzare)? Sono i due termini del dilemma magistralmente discusso da Bronislaw Baczko (1979). Un dato comune alle due prospettive è la distanza critica dalle condizioni esistenti, insieme al desiderio di individuare qualche alternativa. Il primo orientamento, però, privilegia il disegno utopico alla cura della fattibilità. Il secondo cerca di misurarsi con le sfide e le responsabilità di progetti ed azioni concrete di riforma. Donolo non ha dubbi: non si accontenta della dimensione utopica (che “non ha mai trovato realizzazioni effettive”: Bobbio, 1999, p.294), ma assume una posizione radicalmente illuminista, che si fonda su tre principi costitutivi (Venturi, 1970). Il cambiamento invocato diventa possibile se i soggetti hanno la forza di mettere in discussione i pregiudizi ereditati o subiti, per acquisire su questioni cruciali una consapevolezza autonoma e responsabile (sapere aude!). Le nuove luci della conoscenza non rappresentano un fine auto-sufficiente, ma devono dare luogo a una nuova e concreta capacità d’azione, per affrontare problemi emergenti e produrre risultati socialmente utili. Queste dinamiche innovative sono favorite da, o forse esigono, un rilancio delle virtù repubblicane, che i riformatori illuministi hanno ripreso dal mondo classico, ma anche dalle più vicine esperienze medioevali e rinascimentali. Società della conoscenza, pragmatismo e possibilismo riformista, etica delle responsabilità sono i tre pilastri sui quali edificare i sogni di cambiamento. Il rapporto con le tradizioni utopiche può essere declinato in forme diverse: dall’esecrazione senza attenuanti di Karl Popper (1975) e Ralf Dahrendorf (1971), per citare due grandi esponenti del pensiero liberale, alla maggiore benevolenza dei primi tecnici dell’illuminismo che alle utopie riconoscevano una funzione pedagogica, come stimolo alla riflessione, precetto morale o anticipazione di qualche verità destinata a imporsi nel corso del tempo (Baczko, 1979). In ogni caso, il passaggio dalla sfera dell’immaginazione a quella della conoscenza riflessiva e dell’azione concreta diventa il momento decisivo. Il sogno del buon governo, per Donolo, è proiezione verso un futuro auspicabile e possibile, che può valere come impulso all’azione e come benchmark normativo, in grado di guidare il cambiamento verso esiti virtuosi (2011b, p.155). La democrazia è sempre stata il sogno di una società bene ordinata, in grado di sostenere l’insorgere della cooperazione fra identità ed interessi pur differenti (ivi, p.18). Può reggere come regime sociale se “continuiamo a sognarla”, nonostante le delusioni (ivi, p.126). Sebbene il percorso non sia privo di difficoltà, che non è lecito eludere: fra sogni, programmi ed azioni, il nesso non può essere continuo e scontato. L’enfasi sulla possibile funzione pedagogica del sogno rischia di ridursi a una retorica vuota. Il sogno accade, non si decide di sognare; né è possibile sognare al posto di altri o costringere altri a condividere il nostro sogno. “Solo quando i sogni di molti autonomamente convergono”, il cambiamento auspicato diventa possibile (ivi, p.22). Questo richiede presupposti idonei a un grande processo di apprendimento collettivo: soggetti autonomi e responsabili, disposti a cooperare (prima ancora, a riconoscere la razionalità sociale dell’agire cooperativo); un potenziale adeguato di istituzioni e beni comuni; una diffusa cultura riformista; politiche idonee di cura dei beni comuni e di sviluppo del potenziale della situazione. Su questi temi, Donolo delinea un complesso di ipotesi d’azione, senza mai rinunciare al valore del dubbio. Le questioni in gioco non ammettono risposte semplificanti e definitive. Come si può dare voce e rappresentanza a minoranze attive rispetto a nuovi temi emergenti sulla scena globale – sostenibilità ambientale e giustizia sociale, innanzi tutto? Non lo so, ammette onestamente Donolo (2011b, pp.180-81). Allo stesso modo, Bobbio non esitava a riconoscere, di fronte a certi problemi, di essere in grado soltanto di formulare interrogativi, non certo soluzioni (1984, p.4). Questo senso del limite non appartiene ai sogni idealtipici della modernità, ma diventa un punto di distinzione e di forza rispetto alle aporie ormai evidenti del progetto moderno. Non esiste via diversa dal riformismo possibilista per affrontare questioni tanto complesse quanto cruciali.
Possibilità effettive
Perciò, se è giusto chiedere all’autore quali siano le sue indicazioni sul piano delle azioni concrete per realizzare il sogno del buon governo, le aspettative devono essere pertinenti: si tratterà di ipotesi e tracce, non di un disegno-modello. A me pare di poter individuare cinque linee d’azione.
La più evidente, sulla quale sembrano convergere le maggiori speranze, riguarda il possibile ruolo di minoranze attive. Una prospettiva coerente con l’idea di società e di sogno riformista, che non sfugge a mio avviso ad alcuni dubbi - anche se Donolo non ha concesso grande rilievo a questi temi. Il ruolo delle minoranze deve essere valutato contestualmente, in relazione alla fase, alla materia e al corso dei processi evolutivi. E’ stato indiscutibile, in altri tempi, per la conquista dei diritti alla persona, poi politici e in seguito sociali. In un contesto di democrazia matura e rispetto a materie diverse, come alcuni diritti civili e ambientali, e ancor più in un orizzonte cosmopolita, gli scenari sembrano cambiare. E’ più evidente la difficoltà delle minoranze di influenzare orientamenti diffusi e condivisi; più chiari sono i rischi di auto-referenzialità (il mito dell’avanguardia non può reggere a tempo indeterminato) o di riflusso (con lo slittamento dalla figura del precursore a quella del reduce, che sta condizionando una parte non marginale delle stanche rievocazioni del ’68). Le materie sono più divisive; l’urgenza e l’universalità dell’obiettivo non sono più chiaramente percepibili; il ruolo delle minoranze attive rischia di diventare oggettivamente più effimero, come sembrano indicare la contingenza e volatilità di alcuni movimenti, che pur hanno attirato l’attenzione in stagioni recenti. Credo che sarebbe un errore affidare solo o principalmente a questa linea d’azione le speranze di realizzazione del sogno.
La rigenerazione di una sfera pubblica e delle pubbliche funzioni è un altro tema fondamentale per la visione di Donolo, come conferma l’ultimo libro, postumo (2017), che ha come tema proprio i pubblici affari. Questa missione è un punto fermo della cultura di sinistra, ma sarebbe vana una riproposizione poco critica e riflessiva - che io ritrovo in alcune componenti “conservative”. La sfera pubblica è un complicato effetto emergente, che può risultare, eventualmente, dall’intreccio contestuale, in un orizzonte temporale adeguato, fra dotazioni, risorse, intenzionalità di parte ed effetti di interazione. Si consolida solo grazie a pratiche coerenti con i suoi valori costituenti (se queste vengono meno, il rischio è il declino). In ogni caso non si tratta di processi di breve periodo. Tenacia, pazienza e tolleranza sono requisiti indispensabili per la costruzione del possibile. Il successo può essere favorito da un ethos democratico sufficientemente solido e diffuso nel contesto, ma è evidente il rischio di un circolo vizioso: l’ethos ha bisogno di una sfera pubblica e viceversa (Donolo, 2011b, p.203). Nonostante le pressioni incombenti della crisi, il buon governo dovrebbe avere la forza, la lungimiranza, e la passione direbbe Max Weber, di intraprendere politiche mirate a medio-lungo termine. Non è scontato che ciò sia possibile per i tempi e le logiche della politica contemporanea (come Donolo mostra bene in relazione ai temi della sostenibilità ambientale: ivi, p.172).
Un diverso, ma non meno arduo genere di difficoltà riguarda l’obiettivo di rilancio della funzione pubblica. In questo caso, molti problemi derivano dall’inerzia di un sistema che in Italia (anche altrove, ma nel nostro paese in forme spesso più gravi rispetto alla media) risulta largamente ridondante, inefficiente, obsoleto, nonché ostile all’innovazione. Mi è difficile capire come certe culture di sinistra possano continuare a eludere il problema, se non per ragioni tattiche e opportunistiche che non porteranno frutti oltre il breve periodo. Senza riforme non marginali non sembra possibile riqualificare la funzione pubblica. Trovo irresponsabili le politiche che mirano a ulteriori espansioni del settore, senza prendersi cura della necessità di una rigenerazione profonda, che comunque richiederà tempo e costi politici non indifferenti, se mai verrà avviata. I tentativi di riforma degli ultimi governi dovrebbero essere motivo di riflessione: Alcune buone intenzioni sono sostanzialmente naufragate per la sottovalutazione di molteplici difficoltà: la strenua opposizione delle corporazioni di settore e dei conservatori di sinistra; la semplificazione strumentale di problemi che non possono prescindere da un orizzonte di medio-lungo termine e da una rete complessa di interdipendenze; i circoli viziosi che tendono a bloccare un sistema pubblico largamente incapace di auto-riforma. Ma i problemi irrisolti continuano a incombere. La rigenerazione della funzione pubblica è una sfida dall’esito incerto e comunque non immediato. Donolo ne è consapevole e indaga il tema con rigore (Affari pubblici, 2017). Altri esponenti della cultura di sinistra si limitano ad appelli di rito, che peraltro hanno perso ogni reale capacità di attrazione e consenso.
Queste considerazioni sono avvalorate da una terza linea d’azione, che rappresenta un’articolazione del punto precedente, alla quale Donolo ritiene di dover concedere un’attenzione peculiare. Non solo la dotazione di buone istituzioni e la cura di beni comuni diventano un presupposto fondamentale per il consolidamento delle radici sociali della democrazia, ma le politiche pubbliche hanno la responsabilità di sostenere - o rigenerare, se necessario - gli “istituti di lunga durata” dai quali dipende la formazione di capitale sociale e potenziale di sviluppo (Donolo, 2011b, pp.116 e 184-86). E’ evidente il riferimento alle istituzioni del welfare in senso lato, che da tempo soffrono lo scarto crescente fra pretese e possibilità, una diffusa obsolescenza tecnica, organizzativa e gestionale, un deficit crescente di reputazione sociale e motivazioni soggettive. La qualità della democrazia non può prescindere dal livello delle prestazioni e dal grado di soddisfazione di questi servizi. Se oggi le élites, concentrate nel cuore dei centri urbani, sembrano assediate da vaste moltitudini sempre più insofferenti verso i poteri consolidati, e apparentemente disposte a sostenere qualunque speranza di alternativa, senza troppo curarsi della sua plausibilità e delle conseguenze, sarebbe vano limitarsi a deprecare la congiuntura. Il punto è che questo stato di cose è stato favorito, anzi seriamente aggravato, dalla crisi inarrestabile – irrisolta e sottovalutata - di istituzioni fondamentali per la qualità della vita democratica: come non pensare al declino oggettivo, nel nostro paese, del sistema dell’istruzione e, in generale, della pubblica amministrazione? Gli ultimi governi hanno tentato di imboccare la via delle riforme senza risultati significativi, anzi con qualche effetto perverso. Ma, oltre agli insuccessi, io trovo desolanti le rappresentazioni ideologiche dei problemi: le difese corporative di interessi di settore, che al declino hanno dato un pesante contributo; il rilancio acritico del mito del pubblico (tema che ho già richiamato); la strumentalizzazione cinica da parte delle opposizioni politiche, che nulla salvano dei tentativi di riforma (esemplari sono i discorsi sprezzanti sulla “buona scuola”), ma non offrono alcuna indicazione sui modi alternativi di affrontare la questione. Donolo ci ricorda che la materia esige impegni prioritari e politiche “lunghe” per senso di responsabilità verso le generazioni future. E’ ben consapevole delle difficoltà di conciliare questa visione con le pressioni più urgenti, ma questa è una discriminante non negoziabile per le possibilità del buon governo. Non bastano buone leggi o chiacchiere sul bene comune o sul governo al servizio dei cittadini, se la politica non riprende in mano la responsabilità di costruire le condizioni fondamentali di un futuro più civile.
Di fronte a queste difficoltà, non solo contingenti, potrebbe ritrovare vigore un’ipotesi non inedita: è il caso di fare appello a figure e modalità di guida paternalistica come ulteriore, possibile linea d’azione (la quarta voce del mio schema)? La risposta non potrebbe che essere negativa per una cultura politica rigorosamente liberale. Tuttavia, lo scenario non è incompatibile con i principi fondamentali della democrazia, come dimostrano i riferimenti ricorrenti al “governo degli uomini” quantomeno in situazioni di “stato d’eccezione” (Bobbio, 1984, p.166). Lo stesso Donolo, pragmaticamente, non esclude questa ipotesi in relazione a temi critici di evidente interesse strategico, come le questioni della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale nell’età della globalizzazione. In certe condizioni, tutt’altro che rare (nei casi, per esempio, di forti asimmetrie informative fra soggetti diversi in relazione a problemi emergenti), l’impulso al cambiamento potrà essere affidato, almeno nelle fasi iniziali, anche a élites “paternalistiche o tecnocratiche” (Donolo, 2011b, p.198). In tali circostanze, non resta che “confidare nel buonsenso delle élites, dato che non ci sono alternative” (ivi, p.207). D’altra parte, una visione paternalista sembra trovare nuovi sostegni, negli ultimi tempi, in importanti sviluppi della cultura economica e psicologica di orientamento “comportamentista”. Probabilmente non avrei dato rilievo alla tendenza (che non mi ha mai appassionato quando alimenta un pragmatismo manageriale povero di senso critico) se lo stesso Donolo non avesse proposto qualche suggerimento in questo senso. Infatti, nella riedizione del Sogno nel 2011, nei contributi integrativi rispetto alla versione originale ha segnalato (p.198) i contributi di Cass Sunstein, giurista della scuola di Harvard che insieme a Richard Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017, ha elaborato il paradigma del nudging (Thaler e Sunstein, 2008; Sunstein, 2014), ora oggetto di un certo interesse anche in Europa (Mathis e Tor, 2016):come possibilità che le autorità siano in grado di influire sulle preferenze e quindi sulle scelte del popolo (o meglio dei cittadini) grazie a un ventaglio di “impulsi gentili” - che non obbligano nessuno (in questo senso, la posizione potrebbe essere considerata libertaria), ma modificano sensibilmente lo spazio delle opportunità. Soggetti razionali dovrebbero essere indotti a tenere conto delle nuove condizioni. Questa visione “enzimatica” del cambiamento non è priva di aspetti controversi. In teoria, esalta l’autonomia del soggetto, ma per funzionare deve presupporre la valenza di legami influenti, affinché i suggerimenti siano liberamente assecondati (si delinea una variante, mitigata, del “doppio legame” di Gregory Bateson, 1976, p.293, il cui monito era intrinsecamente contraddittorio: “devi essere libero”); mentre resta opaca o ambigua la genesi e la legittimazione della presunta o sedicente guida illuminata. “Libertarian Paternalism” non è un ossimoro, sostengono Thaler e Sunstein, ma certamente il paternalismo non favorisce i processi di capacity-building (Donolo, 2011b, p.198) ed è plausibile il rischio di manipolazione delle scelte (White, 2013). Questo non esclude che il meccanismo possa produrre effetti concreti di qualche rilievo, come insegna l’attuale economia dei consumi, dove la (cosiddetta) “sovranità del consumatore” è largamente indotta grazie a una varietà di impulsi indiretti. L’effetto è il conformismo crescente delle preferenze individuali, sempre più subalterne e adattative, rispetto alla moltiplicazione potenziale degli stili di consumo e di vita. Una tendenza che può essere fruttuosa per l’economia, ma rischia di erodere le basi sociali e culturali della democrazia (Donolo, 2011b, pp.205-206). Sarà il nudging la forma tendenziale della politica nell’età dei populismi dilaganti?
Scenari incerti, che non mettono in discussione un punto fermo – ecco un’altra possibile linea di azione, la quinta - che negli ultimi anni è emerso dagli appunti di Donolo come traccia per il lavoro futuro (tema e appunti che ho condiviso, come ricordo in Palermo, 2018). In un’epoca in cui è sempre più difficile distinguere fra verità e mistificazioni, dove il relativismo culturale sembra una conquista di libertà, ma rischia di giustificare qualunque conformismo, il bisogno di “dire la verità in pubblico”, cioè di esprimere liberamente quella che umilmente si ritiene essere la verità rispetto a questioni ambigue e controverse, sembra un sentimento fuori moda, se non pretenzioso e inutilmente divisivo. Eppure la semplificazione e l’ipocrisia del senso comune rispetto a dilemmi cruciali dovrebbero destare qualche preoccupazione. Il confronto pubblico è denso di proclami e invettive, ma sempre più povero di argomenti. Non solo, ma tende a crescere la sfera del non-detto, sulla natura e sulle cause effettive di molti problemi incombenti. Gli esempi sono innumerevoli, anche in contesti relativamente privilegiati. Penso a Milano e alla Lombardia, che la retorica quotidiana tende a celebrare come territori di eccellenza, se pur relativa. Eppure la sanità pubblica lombarda da tempo è in oggettivo declino, con responsabilità dirette che ricadono anche sul governo regionale. Le infrastrutture lombarde sono state oggetto di politiche fallimentari, delle quali nessuno chiede conto nonostante la ricorrenza di insuccessi eclatanti (dalle ambizioni mal riposte sull’aeroporto di Malpensa agli sprechi pubblici per la Pedemontana che continua ad essere irrilevante tanto scarso è l’utilizzo). Dei problemi del traffico e dell’inquinamento sembra inutile parlare – risultano intrattabili anche in contesti internazionali dove le esperienze di buon governo sono più consolidate. Ma trovo insopportabile la retorica benevolente e banalmente conformista che accompagna le nuovi torri di Milano (a Garibaldi-Repubblica come nel caso di City Life): enormi opportunità miseramente sprecate, senza che si levino voci critiche incalzanti e diffuse, capaci di valere, almeno, come monito e possibilità di apprendimento per il futuro (Palermo, 2017). Ecco perché il tema foucaultiano della parresia (1983-84) mi sembra oggi più che mai attuale, come sostegno vigoroso all’aspirazione - illuminista e democratica - verso l’uso pubblico della ragione. Donolo ha formulato giudizi affini (2008, mimeo; 2017, parte I, cap.1.5), che solo in parte ha avuto modo di sviluppare.
Cinque linee d’azione, dunque, per esplorare materialmente le possibilità del buon governo: i ruoli cruciali della cittadinanza attiva, ma anche della sfera pubblica e della pubblica funzione (da rigenerare); l’esigenza inderogabile di politiche “lunghe”, forse accompagnate, se proprio necessario, da qualche forma di paternalismo (si spera) illuminato o meglio riflessivo; la responsabilità di (provare a) dire la verità in pubblico, in tempi pervasi da grande superficialità e conformismo. Ecco alcune misure concrete del possibile. Questa mi sembra la visione che Carlo Donolo intreccia, dove sono interessanti i singoli elementi, ma ancora più importante è la loro convivenza: perché il buon governo è una missione complessa, che richiede l’attivazione convergente di una pluralità di condizioni e misure. Donolo ha mostrato che una delle sue ipotesi è sostenibile: incubi e sogni possono essere un “antidoto al sonno della ragione” (2011b, p.151). Ma il nostro debito verso l’autore si spinge oltre la capacità di provare inquietudine o indignazione, e di sognare un mondo diverso; riguarda proprio il cammino verso il possibile (Palermo, 2018). Potremmo concludere che il primo passo – il sogno - probabilmente è stato compiuto, ma il secondo – il cammino - resta ancora, soltanto, una speranza per il futuro. La sola possibile, peraltro (Donolo, 2011b, pp.223-24): “democrazia come principio speranza”.
*Testo presentato alla Giornata di studi in onore di Carlo Donolo, “Sulla capacità prospettica di Carlo Donolo. Per proseguire nel suo solco”, Milano, Fondazione Feltrinelli, 10 maggio 2018
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