Editoriale

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Applicare il progetto urbano
Alberto Clementi PDF




Intanto che continua a svilupparsi la riflessione sul progetto urbano e sulle auspicabili innovazioni dei suoi contenuti e delle sue forme, EWT inaugura con questo numero l’esplorazione dei suoi possibili campi di applicazione. Lo fa discutendo di alcuni casi clamorosi e a loro modo esemplari, dove le strategie correnti sembrano incomprensibilmente abdicare a questo strumento così prezioso per la città, preferendo ricorrere a un insieme frammentario di interventi episodici, disgiunti da una visione complessiva della trasformazione attesa.
Al diffuso primato dell’empirismo fattivo non sfugge neanche il primo caso che qui proponiamo, la radicale trasformazione dell’area di Scampia a Napoli con l’azzeramento progressivo delle Vele di Franz di Salvo, storica icona di una periferia disperata e intrattabile perché consegnata al potere simbolico quanto reale esercitato dalla criminalità locale. Non pochi per contro sognano di praticare un approccio progettuale all’insegna di un utopismo rigenerativo, in cui siano fatte salve le forme dell’architettura ereditate dalla modernità e magari consegnate alle cure di un’attiva democrazia partecipativa “dal basso”, capace di resistere orgogliosamente e di scrollarsi di dosso lo strapotere della camorra, come ci ha insegnato Ciro Corona e tanti altri abitanti di Scampia impegnati da tempo in una coraggiosa quanto inaudita sfida alla criminalità mafiosa.  
Il caso di Scampia non appartiene soltanto a Napoli. Tale è la sua forza simbolica, rilanciata anche dal cinema, dalla televisione e dalla letteratura, e tale il valore paradigmatico delle soluzioni da esperire per il suo miglioramento, da farlo diventare un tema centrale nell’attuale dibattito sulla rigenerazione delle periferie urbane in Italia. Parlando di Scampia si parla implicitamente di tanti altri quartieri difficili, dallo Zen di Palermo al Corviale a Roma, episodi consegnati da un’architettura della grande dimensione affermatasi da noi negli anni Settanta, quando si è voluto sperimentare incautamente le nuove condizioni della modernità sulla pelle delle popolazioni più vulnerabili. Adesso si tratta di demolire le residue testimonianze ormai inattuali di quel momento pur significativo dell’architettura italiana, non solo napoletana. Oppure, al contrario, di mantenerle in vita adeguandole finalmente alle legittime attese degli abitanti, finora ignorate o ingiustamente sacrificate da politiche pubbliche dei servizi e dall’offerta di opportunità di lavoro finora assenti, che invece consentirebbero seppur tardivamente di avviare il riscatto sociale di una periferia particolarmente sofferente. 
A Scampia fa un po’ sorridere l’ipotesi della rigenerazione per “riammagliatura morfologica dell’esistente” perorata autorevolmente da Renzo Piano, e fatta propria immediatamente da una classe politica singolarmente ignorante delle questioni urbane, dal governo Monti in giù. No, le soluzioni in discussione sono assai più complesse e radicali. Mettono in gioco in primo luogo i precari processi sociali di una comunità lacerata e finora abbandonata dalle istituzioni, come vera chiave di volta delle nuove politiche pubbliche di risanamento dell’esistente, non foss’altro che per riparare ai torti di un’architettura del passato sorda ai valori della socialità perché troppo immersa nei propri esperimenti d’innovazione tipologica “collettivistica” alla grande scala.
La soluzione dell’abbattimento delle Vele, perseguita con impegno altalenante fin dal 1997 dalle diverse amministrazioni comunali in carica, è oggi in via di completamento secondo le linee dello “Studio di fattibilità per la riqualificazione dell’area delle Vele di Scampia" e del relativo “Disegno di indirizzo” prodotto dal Dipartimento di architettura di Napoli sulla base di un Accordo di ricerca stipulato a titolo gratuito con il Comune di Napoli, nell’ambito della partecipazione a un tavolo tecnico multi-attoriale istituito a questo scopo. Si tratta di una soluzione invero radicale, che solleva alcune perplessità. Probabilmente le sue ragioni più profonde vanno ricercate nello scontro tra l’insopportabile stato di precarietà e violenza in cui è precipitato il quartiere, e le istanze di sicurezza e di vivibilità affermate non solo dal Comune, ma dallo stesso Stato centrale a vario titolo coinvolto nel contrasto a una criminalità ormai da troppo tempo padrona del campo. Sicché non sarebbe più responsabilità dell’architettura di individuare e mettere in opera le soluzioni più opportune, poiché adesso è lo stesso potere politico a muoversi con le proprie logiche, con l’obiettivo di riconquistare lo spazio urbano e sottrarlo anche simbolicamente al contropotere della camorra.
Quale che siano le ragioni più profonde di questa prolungata prova di forza delle istituzioni di governo a Scampia, non c’è dubbio che l’urbanistica e l’architettura siano comunque inevitabilmente coinvolte nella elaborazione di strategie d’intervento più appropriate. Nel presentare questo caso, l’intenzione di EWT non è comunque di discutere la validità e la legittimità della soluzione adottata, su cui per la verità le posizioni degli esperti e degli addetti ai lavori sembrano talvolta divergere in misura rilevante. L’obiettivo di fondo è piuttosto di avviare una riflessione critica sulla praticabilità e trasferibilità della strategia in corso di sperimentazione a Napoli ai molti altri contesti di periferia in condizioni critiche che s’incontrano nella città italiane.
Per questo motivo EWT ha stimolato il confronto di opinioni tra autorevoli architetti, urbanisti, sociologi e antropologi, al fine di valutare se e quanto il “modello Napoli” potesse essere di guida al recupero delle periferie urbane in condizioni di maggior disagio. Sono state sottoposte ai diversi interlocutori quattro domande: la prima sull’accettabilità della demolizione come metodo generalizzabile per la rigenerazione delle periferie più dure; la seconda sulle possibili alternative all’abbattimento delle Vele di Scampia; la terza sulle effettive responsabilità e potenzialità dell’architettura e dell’urbanistica nella messa in opera di ambienti insediativi più sicuri e vivibili, soprattutto in contesti particolarmente esposti al degrado sociale ed economico; infine la quarta domanda verteva sulla efficacia delle politiche della rigenerazione, in particolare sull’affidabilità dei modelli bottom up di partecipazione attiva e di capacitazione degli abitanti per il miglioramento delle proprie condizioni insediative quando sono vessati da poteri criminali consolidati, che esercitano un controllo pervasivo del territorio debolmente contrastati dalle istituzioni ufficiali, come accade purtroppo in tante città del Mezzogiorno.
Come c’era da aspettarsi, le posizioni degli intervistati divergono tra loro anche sensibilmente. Ad esempio, c’è chi come Desideri o Aymonino trova assolutamente normale e anzi da praticare con più frequenza in regime ordinario la demolizione dell’esistente, e non soltanto nelle periferie più degradate; e chi come Canevacci arriva addirittura a denunciare la conservazione dell’esistente come falsa coscienza; chi al contrario propugna il rispetto e la tutela per il patrimonio architettonico ereditato, tanto più se costituisce la testimonianza di un momento significativo della vicenda italiana (Ilardi, Palestino). Chi come Cao suggerisce di reinventare le Vele abbattendo non loro, ma la Gomorra che le ha occupate.  E chi infine, come Purini, ritiene inutile demolire gli edifici più controversi se prima non cambia radicalmente la cultura dell’abitare, inaugurando un diverso rapporto tra l’abitante e la sua casa, fondato su una maggiore identificazione e rispetto nei confronti di un bene comune, che induce positivamente alla cura sia del proprio spazio che di quello urbano.
Anche le soluzioni prospettate per la rigenerazione della periferia divergono notevolmente. Ad esempio, mentre Valle propende per un “approccio inclusivo che attraverso l’apporto di strategie multilivello sia in grado di attivare condizioni di reintegrazione sociale e di diradamento delle sotto-trame criminali”, Canevacci propone provocatoriamente come unica strategia efficace la depenalizzazione delle droghe e la contestuale conversione delle pratiche illegali in spazi co-gestiti da giovani addestrati sotto la guida di una equipe di esperti.
Quale che sia la soluzione da considerare migliore, resta il fatto che a Scampia non c’è progetto urbano almeno nel modo propugnato da EWT. Si sta procedendo infatti con gli interventi di demolizione delle Vele (non tutte, una dovrebbe restare in vita ed essere riqualificata per testimoniare del passato), e sono stati rialloggiati preventivamente i residenti in altre sistemazioni più convenzionali. Forse si è pensato operativamente anche alla fase successiva, con lo sgombero delle macerie e la bonifica dell’area. Ma non è affatto chiaro che cosa in futuro potrebbe sostituire le attuali abitazioni sociali, riutilizzando al meglio un’area dagli elevati costi di trasformazione. In questo modo si tende a rovesciare la sequenza naturale delle cose all’interno del progetto, rinviando il momento della prefigurazione del nuovo assetto dell’area a un dubbio concorso internazionale (di idee?), e privilegiando per converso il programma a breve di sgombero delle costruzioni esistenti.
Non è un modello nuovo, a ben guardare. Napoli ad esempio lo ha già praticato per Bagnoli,  un’area industriale dismessa diventata poi un cantiere interminabile di interventi di bonifica finanziati dallo Stato. Qui purtroppo, dopo tanti anni di lavori, non si riesce ancora a intravvedere un futuro possibile e sostenibile, pur essendo evidente la vocazione dell’area a diventare una importante centralità metropolitana o comunque uno spazio urbano primario della Napoli contemporanea. Un destino riproposto in modo ancora più vago anche per Scampia, che dovrebbe diventare nel tempo un importante nodo di centralità per il settore urbano di appartenenza.
E’ proprio l’inconsistenza del Progetto urbano che allarma chi sostiene la necessità di un progetto strategico di valenza urbana per ripensare l’avvenire del quartiere Scampia; e che ben sapendo quanto sia imprevedibile e aleatorio il futuro, sia disposto a concepire il progetto come strategia flessibile ed evolutiva, da aggiustare strada facendo, ma avendo almeno prefigurato un traguardo condivisibile nella fase di avvio. Non quindi un disegno di forme compiute, ma piuttosto un processo di trasformazione “capacitante”, perché aperto alla partecipazione attiva della popolazione locale, chiamata a controbilanciare dialetticamente il peso di altri interessi che potrebbero agire su un’area restituita parzialmente al mercato. Un processo dentro il quale siano fissate preventivamente alcune chiodature fisico-funzionali nel segno della qualità architettonica e sociale, lasciando comunque il campo necessario alla evoluzione delle dinamiche autopoietiche portate dalla cittadinanza e al tempo stesso al coinvolgimento di attori sovra-locali interessati a portare occasioni concrete di sviluppo locale sostenibile.
Parliamo in definitiva di un Progetto urbano che sappia prefigurare e mettere in opera processi adattivi mirati a migliorare la capacità della popolazione locale di promuovere (prevalentemente dal basso) i mutamenti di contesto attesi, stimolando la consapevolezza critica della propria condizione urbana che favorisce la compartecipazione attiva alla costruzione dei progetti. Questo Progetto urbano, ispirato alla prospettiva della città autocatalitica teorizzata da De La Pena, deve naturalmente essere messo alla prova della reale volontà di emancipazione della popolazione locale, e della sua capacità di ribellarsi ai poteri criminali consolidati. Pronto altrimenti a rifugiarsi dietro lo scudo delle istituzioni, e delle politiche top down che possono essere praticate su iniziativa combinata del Comune, della Regione e dello Stato. Alla fine forse proprio questo sarà il modello vincente: un contemperamento critico tra le logiche bottom up nelle situazioni in cui il peso della camorra non appare determinante; e quelle top down laddove si tratta di sconfiggere lo strapotere della criminalità. Nell’uno e nell’altro caso diventerà compito dell’architettura mettere in opera spazi catalitici, chiamati a diffondere nel tempo e nello spazio quella cura per la qualità insediativa che rappresenta forse l’antidoto più efficace contro il “montare dell’insignificanza”, che rappresenta il rischio più preoccupante per le sorti della periferia.   
Il caso di Scampia è istruttivo anche per un altro importante profilo. L’amministrazione comunale di Napoli ha ritenuto opportuno coinvolgere il dipartimento di Architettura dell’università Federico II, per studiare le soluzioni più efficaci ai fini della demolizione delle Vele e della riqualificazione della costruzione residua. Si tratta di un riconoscimento importante, che applica coraggiosamente il modello della leale cooperazione tra istituzioni pubbliche il quale ha tanti nemici nel nostro Paese, come si è purtroppo potuto riscontrare in occasione del sisma a L’Aquila e in tante altre situazioni di emergenza in cui la Protezione civile si è trovata ad esercitare un ruolo improprio.
Ma forse meglio ancora è quando le università si pongono come un interlocutore critico rispetto alle amministrazioni procedenti, piuttosto che come soggetto attuatore. E’ il caso ad esempio del programma di demolizione del malfamato quartiere pubblico di Tor Bella Monaca promosso nel 2010 dall’allora sindaco di Roma Alemanno. Il programma, ispirato da Leon Krier, prevedeva l’abbattimento delle costruzioni di edilizia economica e popolare esistenti, talvolta anche assai pregevoli, per sostituirle con tipologie edilizie analoghe a quelle della periferia abusiva che circonda il quartiere pubblico. Una strategia d’intervento palesemente inaccettabile, che salda l’ideologia regressiva dell’abitare nel suburbano con i concreti interessi politici di chi era stato eletto con i voti delle borgate abusive, soppiantando il tradizionale radicamento locale della sinistra.
Ebbene, nel caso di Tor Bella Monaca diverse scuole di architettura italiane si sono ribellate a questa prospettiva regressiva, e hanno dato vita a un workshop progettuale itinerante per la esplorazione di alternative più condivisibili e culturalmente qualificate. Pepe Barbieri e Marta Calzolaretti danno qui conto di questa importante esperienza, che testimonia di un ruolo rilevante per l’università, una volta che venga riconosciuta come istituzione “terza”, a garanzia di interessi pubblici più complessivi rispetto a quelli direttamente in gioco.

Che cosa può diventare concretamente il progetto urbano nell’attuale situazione delle città italiane è bene esemplificato dal Master Plan per i campus del Politecnico di Torino, qui presentato da De Rossi, Durbiano, Barioglio, Gabbarini. Torino come noto ha una lunga tradizione di progetto urbano, sia nell’amministrazione della città che nell’ambito dell’insegnamento e della ricerca nel Politecnico. L’approccio tradizionale è però entrato progressivamente in crisi, soprattutto a causa della sua rigidità formalistica e delle mutate condizioni di mercato, sicché questo Master plan d’iniziativa universitaria è diventato un’importante occasione per sperimentare un nuovo modo d’intendere il progetto urbano. Non si tratta soltanto di ricomporre a sistema le singole progettualità e le diverse politiche in campo, inquadrandole in una visione d’insieme fondata stavolta sull’idea di università della città piuttosto che più convenzionalmente di università nella città.
Più innovativo dal nostro punto di vista appare l’uso di piani e progetti come “strumenti di negoziazione che mirano a rendere evidenti conflitti, mascherati o sottesi, in modo da favorire e guidare il dibattito in un caso di pianificazione urbana complessa”. Si tratta di un’interpretazione innovativa del progetto, in sintonia con un principio già avanzato da un giurista, Paolo Urbani, nel numero 15 di EWT: meno piani, e più contratti, per progetti urbani da costruire pattiziamente tra pubblico e privato, comunque sotto la regia comunale. E’ questa la linea culturale che EWT intende perorare, a favore di una nuova attualità del progetto urbano e del suo ruolo primario nella trasformazione della città.
Del resto vanno in questa direzione anche i risultati del Laboratorio sul futuro della città promosso nel 2014 dal comune di Chieti insieme al dipartimento di architettura di Pescara  (A.Clementi, C.Pozzi, Progettare per il futuro della città. Un laboratorio per Chieti, Quodlibet, 2016). Qui è stata sperimentata operativamente una nuova filosofia del Progetto urbano, con un’applicazione per alcuni versi esemplare del suo possibile ruolo nel governo della città. Anziché assecondare l’iniziale richiesta del Comune di istruire il nuovo PRG, il Laboratorio ha predisposto in alternativa una Visione guida sul futuro di Chieti, come quadro di coerenza e ricomposizione tra progettualità disgiunte, e di diversa provenienza, scala e consistenza; poi ha esplorato sperimentalmente alcuni progetti particolarmente significativi, per consegnarli all’amministrazione con la prospettiva di inaugurare un sistema di gestione urbana più aperto e flessibile, in grado di avviare nuovi interventi già nell’immediato e al tempo stesso di portare a coerenza altri interventi in corso di gestazione. La Visione guida propone in particolare l’intreccio tra quattro idee di città operanti a Chieti, ciascuna connotata da una specifica identità in ragione del contesto esistente e delle potenzialità di sviluppo locale. Sono: la Città Alta, come città della cultura e dell’archeologia; la Città della Piana, come città dell’industria e della residenza; la Città dei Vestini, come città delle grandi attrezzature di valenza metropolitana e regionale; l’Agrocittà, come campagna urbanizzata, espressione dell’agroalimentare e dell’economia del gusto. La connessione tra le diverse città è affidata ad un innovativo telaio di green infrastructures, destinato a soppiantare l’obsoleta categoria delle opere di urbanizzazione nella prospettiva di una progressiva messa in sostenibilità della città esistente.
Ciascuna delle città enunciate dalla Visione guida corrisponde a una peculiare morfologia insediativa ed a uno specifico profilo di sviluppo sostenibile, messo a punto nel Laboratorio con il concorso internazionale di urbanisti, architetti, economisti, sociologi, ambientalisti, geologi, ingegneri del traffico, amministratori pubblici. I contenuti progettuali della strategia proposta sono consegnati a un numero ristretto di progetti-chiave, che danno sostanza a un’Agenda strategica di progetti urbani. Per il tramite dell’Agenda strategica, l’amministrazione comunale è messa in grado di intraprendere un coerente programma di trasformazione urbana, mobilitando sui temi prioritari in forma partenariale una pluralità di risorse al tempo stesso pubbliche e private. Lo stile di governo auspicato è tendenzialmente pattizio, orientato ad un confronto di natura prevalentemente dialogica e negoziale con gli attori dello sviluppo e con la cittadinanza, comunque sotto la guida unitaria del Comune. In questo processo di progressiva messa a punto delle intenzioni e delle azioni per la città incentrato sulla progettualità a valenza strategica, il mandato irrevocabile è di garantire in ogni caso il primato dell’interesse pubblico nel segno della trasparenza e della democrazia partecipata.
I contributi di Zazzero sulla trasformazione dell’area industriale di Chieti e sul sistema delle green infrastructures esemplificano alcuni risultati del Laboratorio, che hanno trovato riscontri significativi nelle attività del comune di Chieti.
E’ il caso di osservare che tanto il Laboratorio di Chieti, quanto l’esperienza del Master Plan per i campus di Torino, assumono l’Università come agente d’innovazione, seppure con un ruolo ancora diverso rispetto al contro-seminario di Tor Bella Monaca presentato da Barbieri. Queste esperienze sono illuminanti. Non è infondato ritenere che la nuova cultura del progetto urbano possa nascere soprattutto attraverso l’elaborazione teorica e sperimentale portata avanti dalle università, meglio ancora se in collaborazione con le istituzioni di governo locale. Del resto i piani delle periferie finanziati dal Bando recentemente promosso dalla Presidenza del Consiglio (alcuni dei piani sono presentati in EWT a cura di Angelucci) dimostrano che i Comuni, da soli, presentano scarse capacità d’innovazione del Progetto urbano, essendo stretti dai vincoli congiunturali (e forse culturali) che limitano notevolmente le possibilità di sperimentare.
Infine vogliamo rimarcare che questo numero di EWT si apre con un commosso ricordo della figura di Carlo Donolo, scomparso recentemente. Piercarlo Palermo ne tratteggia in modo esemplare l’attualità del pensiero, che sembra offrire motivi di speranza per il futuro anche in questa Italia sempre più sperduta e disfatta nelle sue strutture più profonde della società e delle istituzioni di governo. Donolo, noto studioso degli affari pubblici, è stato un interlocutore fondamentale per le nostre discipline dell’urbanistica e dell’architettura, disvelando la natura intrinsecamente contradditoria delle politiche pubbliche e la forza ineludibile dei processi sociali che sono messi in gioco nelle trasformazioni della città e del territorio. Ci ha insegnato a guardare al progetto in modo più consapevole e più cauto, in particolare per ciò che concerne il portato d’innovazione spesso impropriamente dichiarato dai progettisti. L’innovazione il più delle volte appare infatti come un effetto non intenzionale e inatteso, sottoprodotto di programmi orientati ad altri fini; dove gli stessi effetti di esternalità possono diventare positivi o negativi a seconda delle specifiche condizioni di contesto e degli usi sociali che se ne fanno (si veda al riguardo il suo testo inaugurale “Le vie dell’innovazione” del 1988).
Sono per noi preziose soprattutto le sue riflessioni sul senso del mutamento, che possiamo interpretare succintamente come evoluzione del potenziale iscritto in una situazione. Viene così messo a nudo un errore ricorrente nel progetto nella modernità, per il suo volgere dell’attenzione “solo al passaggio finale, invece di prendere cura del processo evolutivo che conduce alla metamorfosi come graduale sviluppo di un potenziale insito nella struttura preesistente” (Palermo, Il futuro di un paese alla deriva, 2018).
Donolo, nonostante l’amarezza per le crescenti difficoltà in un contesto sociale e politico  apparentemente alla deriva, continuava a propendere illuministicamente per un “agire orientato allo scopo”, ipotizzando che alla tradizionale amministrazione per atti dovesse subentrare un’amministrazione che è in grado di realizzare programmi e progetti, che si pone obiettivi da raggiungere, che intende risolvere problemi sociali. Rinunciando a governare per decreto o per comando, occorre dunque stimolare le politiche pubbliche a mettersi coraggiosamente alla prova di una democrazia deliberativa, essendo disponibili a prendere in carico tempestivamente gli inevitabili effetti collaterali degli interventi. Sapendo che il coinvolgimento attivo e processuale di una pluralità di attori pubblici e privati dovrebbe consentire di attenuare gli effetti avversi, migliorando probabilmente la qualità conseguita dai progetti e dalle loro effettive realizzazioni.
C’è insomma da scegliere consapevolmente tra anticipazione (scelta deliberata, progetto) e flessibilità (esiti non voluti, vizi privati che potranno produrre virtù pubbliche), o meglio tra un efficace dosaggio tra queste due diverse prospettive d’azione. Ben sapendo comunque che governare è scegliere tra alternative secondo criteri deliberati, e che in democrazia non tutto può essere lasciato all’evoluzione spontanea e alla flessibilità. E che va dunque trovato un contemperamento critico tra le diverse logiche dell’azione pubblica.
Espressi in un modo differente, non sono forse questi i temi e i contenuti del nuovo progetto urbano che stiamo cercando di esplorare anche nell’ambito dell’architettura e dell’urbanistica?