1. Diciamo subito che il progetto urbano implica una regia unica, la disponibilità totale delle aree interessate, e una caratterizzazione della proposta urbana.
Se vado indietro con la memoria e cerco d’immedesimarmi nell’idea del progetto urbano come lo intendono la rivista e i loro ideatori, mi viene in mente la Parigi di Haussmann o la Vienna di Francesco Giuseppe per stare a quasi due secoli fa, e per venire agli anni trenta l’Eur e il quartiere degli impianti sportivi a Roma, o ancora il quartiere delle case popolari della Garbatella, ma anche il centro direzionale a Napoli, così Potsdamer Platz di Renzo Piano e Helmut Jahn a Berlino.
Tutti gli esempi che ho fatto hanno al fondo un elemento unificante: ripensare il passato e proiettarlo nel futuro. Così la demolizione del centro storico di Parigi, o l’abbattimento delle mura medievali a Vienna, per fare spazio alla città della borghesia, ma oggi anche il caso di Berlino.
Un altro elemento caratterizzante è quello dell’unilateralità del progetto: l’Esposizione universale, l’arena multifunzionale dello sport, oggi il grande centro direzionale degli affari di Napoli o il grande centro commerciale come a Berlino.
Passano gli anni, ma l’obiettivo è sempre quello: ricostruire il costruito secondo una visione del tempo, o lasciare il segno del potere pubblico o del grande potere privato.
Protagonista e presupposto di quelle esperienze sono da un lato il potere pubblico sia esso regista che consenziente; e, dall’altro, gli strumenti pervasivi e pregnanti come la potestà espropriativa delle aree (Parigi, Vienna, Roma), o la disponibilità totale di queste da parte del potere privato (Berlino, Napoli).
Il progetto urbano non può convivere con l’individualismo proprietario. E’ la sua negazione. I nuovi proprietari non sono gli attori, ma i futuri fruitori del progetto urbano realizzato.
2. E vengo all’urbanistica italiana come materia che conforma i suoli, ne disciplina l’utilizzo, ma non si occupa del “governo” o della “gestione” nel tempo delle trasformazioni urbane.
Al centro per anni è stata posta la proprietà immobiliare privata e la sua valorizzazione edificatoria; la città pubblica veniva dopo. Quando si prese coscienza nel finire degli anni ’50 che i piani particolareggiati d’iniziativa pubblica non si sarebbero mai fatti – residuando solo le lottizzazione convenzionate nelle aree di espansione –, grazie all’interpretazione dei giudici amministrativi si avallò l’idea che il centro abitato (le famose zone B) potesse crescere attraverso la licenza diretta, premiando le imprese edilizie e l’individualismo proprietario, e costruendo cosi la “città lineare” senza servizi e opere di urbanizzazione, mentre il comparto (figura giuridica già prevista dalla legge del ’42) rimase lettera morta, perché avrebbe implicato la solidarietà necessaria di un gruppo di proprietari, alieni dal doversi sottomettere alla regia del consorzio dei proprietari.
La perequazione, diretta a sterilizzare la rendita fondiaria e a coinvolgere intere aree e proprietari nel rigenerare quartieri degradati, è stato un sogno di Stefano Pompei per decenni; oggi è un rimedio stentato per ripensare orribili quartieri frantumati e mettere al centro la città pubblica, le dotazioni territoriali, i servizi reali e personali.
Portogallo e Spagna fin dagli anni ’40 hanno costruito i loro piani urbanistici direttamente attraverso il metodo perequativo, per aree unitarie, accollando le opere di urbanizzazione ai proprietari, mentre da noi ecco il progetto urbano che prova a “rimediare” agli errori del passato e a intervenire per ripensare una città vivibile.
Ma è noto che non esiste nel nostro ordinamento alcun obbligo d’imporre al privato di procedere all’attuazione delle previsioni urbanistiche che gli riconoscano la trasformabilità dei propri beni immobiliari, e non è più pensabile l’espropriazione sul modello della Parigi di Haussmann, perché inaccessibile finanziariamente per i Comuni e per di più oggi impopolare.
Penso solo all’intervento a Roma nella zona di Giustiniano Imperatore (1998), dove il Comune per convincere i proprietari ad abbandonare gli edifici da demolire perché in zona a rischio idrogeologico e accettare il parcheggio in altra zona in attesa della ricostruzione, ha impiegato a operazione finita dieci anni!
3. E allora torna in gioco il tema della regia unitaria. L’impresa edilizia con apporto finanziario acquisisce tutti gli immobili da rigenerare e propone un progetto di trasformazione in linea con i più moderni sistemi energetici e tecnologici, e poi mette sul mercato la nuova proposta urbana. Non cambia la sostanza se dovesse trattarsi di aree dismesse, mutando solamente la dimensione del capitale e degli interventi.
“La proprietà obbliga” dice la costituzione tedesca. Da noi il limite è quello della “funzione sociale” dell’art.42 della Costituzione, il cui contenuto tuttavia varia in base al momento storico nel quale si colloca il regime della proprietà privata.
Il plusvalore catturato dalla PA attraverso gli oneri di costruzione della L.10/77 non è più sufficiente, poiché si muove nella logica degli standards urbanistici “al servizio dell’edificabilità” delle zone, mentre le nuove frontiere della rigenerazione richiedono ben di più; sulla base della esperienze di mille Comuni è infatti ormai certo che è l’edificabilità riconosciuta che misura il quantum di dotazioni territoriali necessarie alla riqualificazione degli ambiti individuati.
Il termine extra-oneri, il contratto, l’accordo, lo scambio edificatorio diviene cosi il parametro per riequilibrare vuoti e nuovi pieni in una logica perequativa, che tuttavia deve costituire uno stimolo all’intrapresa economica garantendo la mixitè degli interventi e delle destinazioni d’uso, altrimenti resta tutto sulla carta.
Scambi leali (e non sleali né ineguali) sono la base dell’urbanistica contrattata, dove il contratto è il luogo d’incontro tra la volontà pubblica e quella privata, per la quale la partecipazione pubblica può fungere da arbitro imparziale della trasformazione.
E a me non pare che -ad esempio nel caso della Stazione Tiburtina di Roma- si siano resi partecipi i residenti di un immenso quartiere degradato, dei milioni di metri cubi che sarebbero stati realizzati nelle aree delle FFSS per ospitare la nuova BNL a compensazione delle opere viarie e della stazione realizzata in variante al PRG, in una zona nella quale più che volumi ci sarebbero voluti spazi pubblici e servizi.
4. Vengo all’ultima questione che riguarda il piano urbanistico, che in questi casi non può pretendere d’interpretare il futuro perché i progetti di rigenerazione si manifestano in tempi e modi che non sono prevedibili, mentre le prescrizioni urbanistiche ingessano situazioni che richiedono invece l’incontro tra domanda e offerta.
Se vogliamo effettivamente la modernizzazione delle nostre metropoli – senza che questo pregiudichi ovviamente la tutela storico-artistica o ambientale dei luoghi – occorre pensare a una maggiore flessibilità delle norme, e in una parola accettare che il software possa girare più agevolmente sull’hardware, laddove il primo è rappresentato dalla mixitè degli interventi edilizi e le dotazioni territoriali, e il secondo è costituito dal piano regolatore, la cui flessibilità, e con essa le sue direttive, sono condizione essenziale per favorire accordi pubblico-privato per la migliore rinascita delle città. Come ripeto spesso ai miei studenti: meno piano e più contratto, o meglio dal piano al contratto.
Ecco perché aggiungerei al progetto urbano una definizione più puntuale: rigenerazione urbana dallo straordinario all’ordinario.