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Architettura, città, paesaggio
Franco PuriniPDF




È ormai da tempo che sul progetto urbano, in particolare sulla sua natura, le sue finalità, le sue risorse e i suoi limiti, ci si sta interrogando con un’intensità pari alla continuità con la quale tale questione emerge nel dibattito architettonico con sempre maggiore frequenza. In effetti cosa sia il progetto urbano non è mai stato veramente chiaro. In breve, si potrebbe dire che esso è un insieme di previsioni che si definiscono attraverso fasi sempre più ampie, che superano la dimensione canonica dell’architettura per comprendere l’intera città. Ciò in realtà non basterebbe per sostenere l’esistenza di una differenza genetica tra il progetto architettonico e quello urbano se, a causa della mitologia della specializzazione del sapere cara alla modernità assieme al suo contrario, l’interdisciplinarietà, non fosse prevalsa nel tempo la tendenza a separare non solo i due ambiti ma anche a teorizzare un’altra e più importante alterità, quella tra architettura e urbanistica. Un’alterità negata, è bene ricordarlo, da protagonisti dell’architettura italiana e internazionale del Novecento come Giuseppe Samonà, Saverio Muratori, Ernesto Rogers. Tale differenza ha comportato che, mentre la conoscenza tecnica dell’architettura è rimasta nel suo ambito storico, all’interno del quale le innovazioni sono state metabolizzate senza eccessive fratture, l’urbanistica ha stabilito una ferrea alleanza con la politica, l’economia e la sociologia. Un’alleanza che ha allontanato l’urbanistica sempre di più dallo spazio reale del territorio, del paesaggio e della città. Pensando di poter dare un contributo sostanziale alla questione della pianificazione, alcuni architetti hanno inoltre deciso che fosse necessario considerare l’urbanistica non più prossima all’architettura, ma una disciplina autonoma nutrita di una stretta contiguità con il potere. Si è trattato di una convinzione ingenua, che ha causato non pochi inconvenienti teorici nonché numerose disillusioni.

Per quanto detto si potrebbe sostenere che in futuro in Italia, dove non vige quella distinzione tra planning e design che esiste nell’area anglosassone, sarebbe necessario non solo ricongiungere l’urbanistica e l’architettura ma anche non riconoscere al progetto urbano solo la sua identità planivolumetrica - avversata anche da un altro grande protagonista, Ludovico Quaroni - restituendogli una totale pienezza architettonica. Non a caso, nella cultura architettonica italiana ( si pensi all’equivalenza albertiana tra casa e città ) l’architettura e l’urbanistica sono sempre state unite in un binomio in cui la prima si riconosceva nella seconda e viceversa. I migliori rappresentanti dell’urbanistica attuale, tra i quali Bernardo Secchi, hanno a volte cercato di ricongiungere le due aree ma da un punto di vista fortemente discutibile, quello di estendere l’urbanistica all’architettura, riproponendo in altri termini quella differenza tra i due ambiti del progetto. In questo modo l’urbanistica non cercava tanto un nuovo rapporto con l’architettura, ma si limitava a inglobare quasi del tutto quest’ultima, che doveva rinunciare a gran parte della sua essenza. In tal modo il progetto urbano si limitava a una funzione di supporto denominata progetto di suolo o disegno di suolo, pratiche secondarie le quali, seppure di un certo interesse, non avevano la possibilità di modellare fino in fondo lo spazio urbano; dimenticando in questo modo che disporre di un basamento plasticamente pregevole non garantisce in alcun modo la qualità di ciò che esso è chiamato a sostenere. In questo modo si dimentica che un percorso progettuale ( lo ricordano Le Corbusier e Mies van der Rohe ) non è separabile in parti che non siano, semplicemente, intorni scalari.

C’è da aggiungere alle note sintetiche esposte finora che recentemente tra architettura e urbanistica si è inserita una terza entità che ha complicato ulteriormente le cose, il paesaggio. Le ha complicate non tanto perché ha proposto una nuova visione del mondo, interpretato contemporaneamente e contraddittoriamente come un mondo originario e un mondo esausto, ma perché ha tradotto i termini architettonici e urbanistici, già duplicati, in ulteriori nozioni che stanno lentamente, ma non tanto, traducendo costruzioni teoriche ancora operanti in altre organizzazioni conoscitive apparentemente nuove. Ciò si può costatare soprattutto riflettendo sulla costruzione di un paesaggio, che peraltro non è quasi mai il risultato di una volontà estetica, rispetto alla vastità del paesaggio stesso che impedisce di separare la bellezza dell’intervento umano, se c’è, da quello della scena naturale. Anche per questo motivo pensare che esista un’architettura del paesaggio è, per chi scrive, un errore di una certa gravità, che legittima idee e operazioni improprie. Esistono parchi, giardini, architetture nel paesaggio, ma la dizione architettura del paesaggio totalizza l’obiettivo e il senso delle trasformazioni che nel corso del tempo il supporto naturale ha vissuto e vive, inventando per questo un’area artistico-progettuale che non esiste.

Per concludere queste impressioni con una diversione che spero non sia del tutto inutile, sono convinto che il nostro Paese, la cui esigenza principale è, per inciso, una vera e propria ricostruzione del suo suolo, la cui condizione, a causa della sua giovane età geologica e di impropri e parziali interventi di tutela, è in gran parte instabile, sia il programma più urgente da affrontare. Penso che per la soluzione di questo problema il ricongiungimento tra l’architettura e l’urbanistica, e al contempo, la ricerca di un ruolo non ripetitivo rispetto al sapere costruttivo che dovrebbe sovrintendere alla modificazione di sezioni di paesaggio, sia un impegno improrogabile.