Politiche per la densità nella Londra contemporanea
Se dovessimo sintetizzare al massimo il fenomeno dell’urbanizzazione contemporanea, potremo definirlo un contrasto forte e irreversibile tra diffusione e concentrazione, e cioè tra il fenomeno dello sprawl ormai comune in molte condizioni geografiche e la densificazione nelle città che, in occidente come in oriente, continuano a crescere. Ovviamente è una deriva che preoccupa sia per l’erosione del paesaggio, sia per l’accumulo edilizio nelle città. In entrambi i casi ne soffre l’ambiente, il consumo di energia, la mobilità, e in particolare la condizione di vita nelle sacche periferiche e degradate, dove sono evidenti i segni materiali del disagio sociale. Così la sperequazione tra benessere e povertà nelle metropoli finisce per essere ben visibile proprio nelle aree di confine tra bassa e alta densità.
Il 6 maggio del ‘17, Richard Burdett, con la lezione Progettare Open City, la Londra post Brexit, al MAXXI di Roma, ha ripreso ed aggiornato alcuni concetti della sua Biennale di Venezia del 2006, per illustrare i fenomeni di trasformazione urbana nella Londra di questi anni. Gli studi presentati escono ancora dalla London School of Economics, dove Burdett insegna da anni Architettura e Studi Urbani. Sono quindi considerazioni che nascono in un contesto scientifico in cui la città e l’urbanistica vengono studiate in stretto rapporto con l’economia e l’investimento finanziario. Di conseguenza il liberismo e il mercato globale sono considerati inevitabili strumenti delle trasformazioni urbane. Non c’è spazio per remore ideologiche, mentre l’utopia si orienta a un salvifico incontro tra capitalismo e ambientalismo.
La Londra di oggi può essere letta come un laboratorio di rigenerazione urbana nel quale i fenomeni di trasformazione vengono guidati da poche rigide regole, dettate da una politica locale forte, in grado di orientare e vigilare sull’intervento privato. Situazione molto lontana dalle grandi città italiane (escludendo Milano), dove la densificazione, lo sviluppo edilizio in altezza e l’ampio spazio lasciato all’investitore sono considerate azioni quasi delittuose. Valutazioni in qualche modo giustificate non solo dal perdurare di una crisi finanziaria ormai quasi cronica, ma anche dall’estemporaneità degli interventi di trasformazione urbana programmati sulla base di emergenze, stimolati da costruttori e guidati da Piani Regolatori vecchi e fortemente alterati. Prendono allora corpo pesanti equivoci. Si dice, ad esempio, che non c’è bisogno di costruire abitazioni, quando la domanda di case a basso costo è altissima, interpretando come mancanza di domanda l’invenduto nei quartieri di estrema periferia, privi di servizi e di trasporti pubblici, facile preda del degrado fisico e sociale. Il caso di Roma è esemplare: la dolorosa, ma necessaria, mediazione portata a compimento nella prima decade del nuovo secolo con l’approvazione del “Piano delle Certezze”, condusse alla tutela di alcune aree verdi semicentrali (come Parco delle Valli, o Tormarancia), ma anche alla creazione di nuovi insediamenti di estrema periferia, isolati dalla città, diventati oggi enclave del disordine sociale.
Sconfitta in Italia l’ipotesi dei quartieri extraurbani autosufficienti (tempo fa li avremmo chiamati “satelliti”), occorre guardare ad altri indirizzi, compatibili con le risorse pubbliche e la sostenibilità ambientale. Senza ricadere nei discutibili miti delle Smart City o Ecocity, i criteri basici per il rispetto dell’ambiente sono tre: limitare il consumo di suolo, ridurre le distanze per evitare nuove, costose infrastrutture (strade, reti dei servizi, trasporti pubblici), ridurre i consumi di energia. Il rispetto di queste tre condizioni porta a definire un nuovo fondamentale indirizzo, la densificazione della città costruita; e lo strumento per raggiungerlo è il progetto urbano.
Burdett ci ha parlato della straordinaria crescita di densità urbana della Londra di oggi, con una premessa importante: a Londra viene prodotto il 25% (circa 800 miliardi di euro) del PIL nazionale, quindi le trasformazioni di Londra devono essere prioritarie rispetto alle ragioni di una programmazione economica nazionale. Così, parlando di crescita della città, lo sviluppo è inteso in termini economici e la trasformazione è interpretata in termini di rigenerazione. Esistono normative semplici che si reggono su alcuni concetti strategici, mai contraddetti neppure nel cambiamento della guida politica:
- non si può costruire al di la di una cintura verde che perimetra l’area metropolitana e ne definisce il limite insuperabile tra concentrazione urbana e campagna;
- viene promossa la densificazione delle aree centrali e semicentrali che catturano più investimenti ed offrono più posti di lavoro, ma si può costruire solo all’interno di aree vuote, degradate o industriali dismesse. In queste aree non devono essere realizzati parcheggi, la circolazione è solo pubblica;
- sono fissate linee di densificazione edilizia (l’asse è il Tamigi che scorre da ovest ad est) puntando principalmente ad est e sud. Su queste linee prioritarie l’autorità pubblica s’impegna a realizzare infrastrutture di mobilità e servizi. E’ in corso di realizzazione un treno sotterraneo ad alta velocità, che corre proprio in corrispondenza del Tamigi, da un estremo all’altro della città;
- l’investitore che vuole intervenire su queste aree deve realizzare insieme alla cubatura anche posti di lavoro; questo vuol dire che le volumetrie per uffici devono avere sin dall’inizio compratori che garantiscano nuova occupazione;
- le nuove edificazioni, per quanto realizzate da investitori privati ed occupate da istituzioni private, non devono diventare enclaves (come è accaduto trent’anni fa per Canary Wharf), quindi non devono avere recinzioni e tutti gli spazi in between devono essere pubblici.
Densificazione al centro e nel degrado urbano
Due esempi su tutti: la densificazione edilizia della City, che prende ulteriore slancio sia in termini di compattezza che di altezza, e la realizzazione del Queen Elizabeth II Olympic Park nell’area olimpica del 2012, destinato a residenze e verde pubblico attrezzato.
Dopo la crisi economica e probabilmente senza i danni causati dalla Brexit (la svalutazione della sterlina favorirà gli investimenti esteri), secondo il tasso di crescita attuale, nel 2030 Londra avrà più di dieci milioni di abitanti. Secondo il precedente sindaco conservatore, Boris Johnson, la città - quasi una novella Manhattan – sarebbe dovuta crescere in altezza con più di 200 grattacieli (in genere compresi tra i 20 e i 50 piani), sia ad uso uffici che residenziali. Il nuovo sindaco laburista Ken Livingstone ha sostanzialmente confermato questo programma. La parte centrale della città, e la City in particolare, assorbiranno la maggior parte di questi grattacieli in programma.
La zona dove sono stati costruiti gli impianti olimpici del 2012, a nord est del Tamigi, ospitava le rovine di fabbriche obsolete e zone disabitate. Era attraversata da un’unica strada, ma era ricca di acqua. Ribaltando la logica delle precedenti Olimpiadi, per le quali la maggior parte delle risorse era stata indirizzata alla realizzazione degli impianti sportivi (fatta eccezione per Barcellona ’92), Londra ha scelto l’area come occasione per rispondere alla domanda di abitazioni dei municipi di Newham e Tower Hamlets, che avevano conosciuto un’elevata crescita di abitanti. I pochi impianti sportivi costruiti per le gare sono stati dimensionati per l’uso post-olimpiadi (commisurati agli standard CIO con tribune effimere da smontare a gare ultimate). Oggi già esistono il parco e le infrastrutture, mentre sono in corso i cantieri per le nuove residenze.
Il progetto urbano per parti e per sistemi
Londra è metropoli di dieci milioni di abitanti, tuttavia possiamo considerare importabili nelle nostre città i suoi criteri di densificazione, con alcune distinzioni: la prima è la consistenza storica di numerosi centri urbani, che richiede forti attenzioni per ogni intervento nelle aree sottoposte a tutela. Il secondo è l’ormai evidente inattualità dei nostri strumenti urbanistici, che richiede un ripensamento profondo delle procedure di programmazione e progettazione delle trasformazioni. E questa revisione non può che partire da una ridefinizione del progetto urbano, come strumento fondamentale per la rigenerazione delle nostre città.
Al di là delle definizioni che afferiscono a diverse articolazioni disciplinari, il progetto urbano, a mio avviso, per congegnarsi a guidare la trasformazione/rigenerazione delle città, deve possedere alcuni caratteri qualificanti: la interscalarità, perchè la presenza della città, con la sua morfologia e la sua storia, deve animare le diverse scale del progetto; la forma, nel senso che non ci si dovrà affidare a vincoli tecnici di carattere quantitativo (come volumetrie, dimensioni, standard) bensì a previsioni di carattere tipologico (in senso lato); le parti, che diventano quantità urbane da trasformare, prendendo atto che è ormai impossibile governare la città nel suo insieme; i layer, intendendo la possibilità di disegnare la rigenerazione urbana per temi o strati, che assumano completezza quando sovrapposti in un congegno urbano. Aggiungo che in queste considerazioni non si farà mai cenno della distinzione tra aree centrali e aree periferiche, nella convinzione che il concetto di “periferia” sfugga a un’identificazione morfologica o topografica, e appartenga invece ad una dimensione sociologica e politica. Meglio distinguere tra aree pregiate e aree degradate, o tra aree centrali e aree emarginate.
Considerata l’inattualità non solo della normativa tecnico-quantitativa, ma, più in generale, di una gestione unitaria del progetto di rigenerazione della grande città, occorre pensare a un’articolazione per temi e per parti. Immaginiamo di suddividere la metropoli in parti autonome e di gestirle come microcittà, integrate funzionalmente e socialmente attraverso un progetto urbano o, meglio, molti progetti urbani, che limitino il consumo di suolo sfruttando aree degradate o abbandonate, densificando per quanto possibile le aree già urbanizzate e tutelando quelle storiche. A seconda della dimensione della parte urbana e delle aree disponibili, il progetto assumerà caratterizzazioni scalari diverse.
Microcittà nella macrocittà
Il primo atto progettuale dovrebbe essere l’individuazione e la perimetrazione delle singole parti della città. All’interno del macroperimetro metropolitano le parti urbane saranno classificate - ad esempio - come storiche; completamente edificate; parzialmente edificate; totalmente inedificate, oppure ancora agricole.
Per ognuna si dovranno indicare i caratteri e le vocazioni. Ogni parte dovrà essere analizzata in relazione alla sua storia, alla sua realtà sociale, alle sue vocazioni e alla collocazione strategica, includendo momenti di sensibilizzazione popolare e proposte “dal basso”. Meglio dunque se queste parti coincidono con le autonomie municipali. Una volta perimetrate, ne saranno censiti i caratteri morfologici e funzionali, nonché la disponibilità di suolo, la densità del costruito, la presenza di aree abbandonate o degradate, la presenza di vuoti, e così via.
Il progetto urbano si articolerà secondo due scale, una riferita alla singola parte (microcittà) e una riferita all’intera metropoli (macrocittà). Nella prima assumerà un carattere più specifico, seguendo le vocazioni della microcittà e la sua collocazione topografica e strategica. Nella seconda, acquisterà un carattere più generale riferito alla macrocittà, raccordando le parti tra loro per costituire sistema, in virtù di relazioni organizzate secondo diversi livelli, anche indipendenti l’uno dall’altro.
Alla scala della microcittà, il progetto si potrà articolare in diverse tipologie d’intervento. Sarà un progetto urbano “complesso” che risponderà ai singoli casi, anche accostando, ove necessario, diverse finalità: tutela; trasformazione a saldo zero, e cioè tanto volume si demolisce e altrettanto si costruisce; densificazione, costruendo sul costruito; zero consumo di suolo, ovvero tanta superficie di suolo si libera e tanto si occupa, rendendo possibile, se il caso, la densificazione con l’incremento di cubatura in altezza. All’opposto, progetto di diradamento edilizio dove necessario: si libera suolo e si riducono le cubature per migliorare la qualità ambientale (abusivismo o degrado) o per soddisfare la domanda di servizi interni alla parte; progetto di densificazione con interventi di costruzione ex novo a seguito di una programmazione quantitativa e funzionale secondo fabbisogno (ad esempio nuovo housing a basso costo) laddove esista una condizione infrastrutturale favorevole. Infine progetto di trasformazione per la creazione di polarità a livello di macrocittà.
Il progetto urbano, alla scala della macrocittà, ha la finalità di definire un sistema complesso di relazioni, che possa ricucire parti e frammenti e conferire loro senso e ruolo. Il centro storico dovrà essere non l’attrattore, ma lo snodo di un sistema composto di diversi livelli, anche indipendenti l’uno dall’altro, ma sovrapponibili:
- un sistema infrastrutturale, che costituisca la struttura portante dell’intera città, privilegiando la mobilità pubblica (come ferrovie, tramvie, percorsi protetti ) e riordinando in gerarchie quella della viabilità privata;
- un sistema del verde, che possa creare una rete di percorsi ciclopedonali, ma anche di aree attrezzate per lo sport e lo spettacolo;
- un sistema della cultura diffusa, che espanda il turismo alle presenze archeologiche e monumentali lontane dal centro, ordinato secondo rinomanza e influenza, che non abbia come poli solo i grandi musei, ma anche le realtà locali;
- un sistema per il tempo libero, che eviti concentrazioni, e includa aree lontane dal centro già provviste di polarità per lo spettacolo, la musica e lo svago;
- un sistema per l’assistenza sociale e la sanità, organizzato secondo i diversi livelli di competenza e specializzazione;
- un sistema della formazione, dalla scuola superiore alle sedi universitarie, ma che includa anche centri culturali autogestiti, biblioteche, mediateche, e quant’altro;
- un sistema dell’incontro e della integrazione sociale che abbia polarità nei grandi spazi aperti sia centrali che periferici.