Posizioni

torna su

Urbanistica del progetto urbano: ambiguità e ipocrisie
Pier Carlo Palermo PDF




1. Temi e responsabilità

Il progetto urbano appartiene al dominio di responsabilità dell’urbanistica? Che qualche nesso esista – o debba esistere – può sembrare una considerazione ovvia, in senso lato. Quando cerchiamo, però, di precisare confini, relazioni ed effetti, il discorso diventa più incerto e controverso. Sia chiaro: non mi riferisco al “progetto urbanistico”, espressione che rinvia a tradizioni disciplinari consolidate. Può valere per le concezioni inaugurali del town planning, a fine ‘800, come per la rinascita, quasi un secolo dopo, di correnti disciplinari nuovamente “orientate al progetto”, tese cioè a riscoprire le dimensioni morfologiche e fisiche dei problemi dopo che, per una lunga fase, l’attenzione era stata rivolta principalmente alle questioni normative e programmatiche (è stato il caso, in Italia, dei piani urbanistici di Vittorio Gregotti e Bernardo Secchi negli anni ‘90).  In termini più vaghi, questa è, ancora oggi, la forma discorsiva preferita da alcuni urbanisti - forse non numerosi, ma autorevoli e attivi anche nella riflessione intellettuale - per ribadire la necessità civile e sociale della disciplina, nonostante la crisi palese e irrisolta di molte esperienze di pianificazione (inclusi i “piani disegnati” di fine secolo). In questo senso, il progetto urbanistico viene inteso come un esercizio di immaginazione creativa teso a migliorare non solo l’evoluzione delle forme fisiche, ma (ambiziosamente) la qualità della vita urbana: come contributo esperto - analitico e propositivo - capace di influire sulle forme di vita e sulle esperienze vissute, assicurando non solo adeguati requisiti funzionali, ma condizioni più avanzate di bellezza, equità e benessere. Grazie a quali strumenti ed azioni effettive, in verità, non è detto. Alla stagione gloriosa dei grandi progetti di piani – e ai suoi frequenti fallimenti – sembra seguire una fase di volonterosa ricerca e sperimentazione urbana che, illuministicamente, dovrebbe riuscire a incidere sulle politiche e quindi sulle sorti future della città, favorendo l’individuazione e la legittimazione delle scelte più opportune. Sembra questa la via per restituire agli urbanisti un ruolo pubblico di qualche rilievo, dopo un lungo declino.
Con una conseguenza che io trovo paradossale, però. Questa deriva rischia nuovamente di allontanare l’urbanistica dalla sfera dei progetti effettivi, con i loro complicati processi di governo, disegno, gestione e attuazione. Il “progetto urbano” rimane un dominio distinto, se pur apparentemente contiguo, al quale l’urbanistica certamente contribuisce in modo indiretto, quando esercita le sue funzioni regolative e visionarie; meno chiara e condivisa è la possibilità di un contributo sostanziale allo sviluppo tecnico e operativo di qualche “progetto di luogo” (infatti, il grande progetto urbano è generalmente associato all’opera di qualche architetto). Chiarire questi dubbi non è semplice in questa fase, se è vero che è in atto un’involuzione impressionante dei discorsi pubblici sull’urbanistica, che in molti casi assumono forme sempre più sommarie ed effimere mentre continua a crescere la complessità delle questioni in gioco (d’altra parte, tendenze simili si manifestano anche in campi cruciali come la politica, l’etica, la stessa rappresentazione della vita sociale).
Per provare a superare queste difficoltà, la mia ipotesi è che sia opportuno riconsiderare alcuni requisiti fondamentali della disciplina e delle pratiche urbanistiche: che includono le funzioni più tradizionali - regolative e visionarie – ma anche quelle “progettuali” più controverse. Da ogni linea di riflessione sembra emergere una questione comune, forse sottovalutata e degna di maggiore attenzione: è possibile oggi concepire, e come, un’urbanistica del progetto urbano? La convinzione sottesa è che la qualità ed efficacia delle trasformazioni reali sia la misura decisiva della rilevanza istituzionale e sociale della disciplina. Regole e visioni, piani e scenari sono presupposti certamente importanti, ma il giudizio popolare non può che dipendere dagli esiti finali delle azioni urbanistiche. Se queste responsabilità vengono eluse, i rischi di marginalità o irrilevanza della disciplina sembrano destinati ad aggravarsi. Ecco dunque il dilemma: può l’urbanistica limitarsi, in questa fase, a rilanciare la cultura della pianificazione o provare a rigenerarsi grazie alla elaborazione di eventuali visioni e scenari per il futuro, senza assumere responsabilità dirette nella sfera concreta dei progetti di trasformazione urbana?


2. Regolazioni senza progetto

Osservando le esperienze di pianificazione nel lungo periodo, a me pare che l’urbanistica italiana continui a privilegiare gli esercizi più tradizionali di regolazione, anche se ricorrenti e conclamate volontà di riforma avrebbero dovuto assicurare orientamenti più complessi e una capacità d’azione più articolata. Formalmente, sulla base delle leggi regionali vigenti, gli interventi urbanistici dovrebbero mettere in gioco una varietà di funzioni e strumenti, con il riferimento a visioni spaziali, quadri programmatici, indirizzi strategici e progetti d’area, oltre che ai regolamenti fondamentali. Inoltre, non vi è dubbio: le retoriche comunicative tendono a promuovere, spesso a celebrare un ampio ventaglio di aspirazioni e possibilità. Tuttavia, il nucleo determinante dei piani urbanistici, di fatto, sembra ridursi a poche regole sulle dimensioni e, talora, sulle forme delle trasformazioni dello spazio, con un’evidenza crescente negli anni recenti. Si tratta forse di una sorta di ritorno alle origini? Gli esempi sono innumerevoli e spesso imbarazzanti.
La vicenda (non ancora formalmente conclusa) del nuovo stadio di Roma, per esempio, è un caso che dovrebbe turbare la cultura urbanistica. Le cronache ci dicono che le previsioni di piano per l’area nella quale un gruppo di promotori privati ha proposto di insediare il progetto (Tor della Valle) non risultano adeguate ai fini della sostenibilità economica del programma di trasformazione. Peraltro, quelle stesse previsioni assumono un significato e un valore probabilmente discutibili - molti anni dopo la loro prima elaborazione e con riferimento a un piano generale che è stato attuato solo in parte e per frammenti. Il promotore ha proposto inizialmente un altissimo incremento delle cubature, fino a superare la soglia del milione di metri cubi, che probabilmente il mercato avrebbe fatto fatica ad assorbire. Si è aperto un tipico processo di “urbanistica contrattata” (come si soleva dire negli anni ‘60/’70 del secolo scorso) e pare che un compromesso sia stato raggiunto intorno alla misura di 600 mila mc, che rappresenterebbe pur sempre un incremento cospicuo dei volumi previsti dal piano in vigore. Il prezzo da pagare è stato lo stralcio dal progetto di diverse opere infrastrutturali e ambientali di interesse prioritario per la città e per la stessa funzionalità del nuovo stadio. Quando, come e chi se ne farà carico è questione ad alto rischio, che al momento resta assai vaga. Eppure questa preoccupazione sembra secondaria non solo per i promotori (che si ritrovano con minori responsabilità di pubblico interesse e con un progetto privato probabilmente più sostenibile secondo le attuali aspettative di mercato), ma anche per l’amministrazione della città, che sembra soddisfatta per aver superato (o almeno temporaneamente aggirato) un ostacolo politico potenzialmente critico. La sostanza del confronto e il primato dell’attenzione tendono a ridursi alla misura degli indici di edificabilità (d’altra parte, uno degli argomenti forti, nel corso della discussione, è stato l’appello a un vincolo di conservazione, adottato negli anni ’50, di una parte dell’ippodromo di Tor della Valle classificata come bene culturale - ma l’impianto da tempo è in disuso e l’area è ormai degradata). Ecco un caso emblematico di frattura fra regolazione (edificatoria) e progetto (di territorio). Non esce da questa logica quella cultura urbanistica che si limita a criticare la vicenda perché le cubature del compromesso sarebbero ancora troppo elevate. Non si può ridurre il problema alle dimensioni del futuro edificato. Il nodo più critico è la mancanza di progettualità: urbana, ambientale e territoriale.
Non si tratta di un caso isolato. A Milano, che molti media contrappongono alla capitale come modello positivo di buon governo, capacità di crescita e persino rinascimento urbano, la situazione urbanistica non appare più degna. Il piano in vigore è stato disegnato dal sindaco Moratti poco prima di perdere la fiducia della città, che nel 2011 ha ritenuto di non confermare il suo mandato. Mille pagine di parole vane (come ho argomentato a suo tempo: Palermo, 2011; Arcidiacono e Pogliani, 2011) che incorniciavano (e in parte confondevano) una sostanza assai più limitata e specifica: l’assegnazione generosa di indici di edificabilità, evidentemente sovra-dimensionati rispetto a qualunque ragionevole proiezione di mercato. Il sindaco Pisapia, subentrante, non ha ritenuto possibile - probabilmente a ragione - riavviare il processo di pianificazione dalle fondamenta; si è limitato invece a ridurre in misura significativa, saggiamente, una parte rilevante degli indici. Il problema è che, in questo modo, è rimasto formalmente intatto un impianto di piano insostenibile, perché privo di qualunque visione affidabile dello sviluppo territoriale, ma anche di programmi coordinati e strategie effettive per settori determinanti ai fini dell’assetto e della vita della città (infrastrutture, traffico, ambiente, grandi servizi e altro). Sarà necessario puntare su politiche urbane mirate per superare criticità evidenti e accumulate da tempo. Il fatto grave è che il nuovo piano urbanistico non è, né sarà mai in grado di affrontare realmente questi problemi (perciò rappresenta un’opportunità gravemente perduta). Con un regresso a tradizioni lontane - che le riforme più volte tentate avrebbero dovuto superare definitivamente - il campo cruciale d’intervento dell’urbanistica sembra ridursi, ancora, alle scelte di cubatura. Il fatto che molti progetti di trasformazione d’area, a Milano, siano risultati banali o inadeguati, negli ultimi anni, probabilmente è una delle conseguenze di questo limite – culturale e politico.
Non mi pare che la critica si concentri su questo nodo, che a me pare cruciale. L’urbanistica burocratica attira facilmente obiezioni, a maggior ragione in un paese il cui settore pubblico è largamente inefficiente. Si lamenta il cittadino quando si imbatte in una burocrazia invasiva e assillante, il cui operato non appare sempre giustificato da buone ragioni. E’ insofferente l’operatore economico che vorrebbe mano libera rispetto a un groviglio di limitazioni che non sempre rispondono a chiari requisiti di valenza e attualità. Per concepire elementi di critica meno contingenti ed emotivi sarebbe utile una riflessione intellettuale, che appare sorprendentemente rarefatta e sostanzialmente marginale. Come se, nel complesso, la cultura disciplinare non avvertisse realmente il bisogno di mettersi in discussione, anche se il bilancio delle esperienze, da tempo, risulta largamente deludente. Non solo. La riflessione critica, quando prende voce, a me pare spesso troppo generica o datata, nonché povera di prospettive. E’ il caso, per esempio, dell’antropologo che denuncia l’estraneità della città pianificata rispetto a quella spontanea. E imputa questo scarto ad alcuni limiti costitutivi della cultura urbanistica che ai suoi occhi (La Cecla, 2015) appare indifferente ai contesti e ai soggetti, incapace di vedere, di ascoltare e quindi di agire in modi pertinenti. Non è chiaro però come la città spontanea, abbandonata a se stessa, potrebbe superare le sue criticità, certo non trascurabili: lo stesso La Cecla non offre alcuna indicazione al riguardo. Curiosamente, non dissimile sembra la diagnosi di una urbanista riflessiva come Cristina Bianchetti (2011, 2016) che individua uno dei problemi più gravi della disciplina nel primato, tuttora pervasivo, di un orientamento meramente “funzionale”, che si traduce in apparati di regole troppo rigide e minuziose (sappiamo che il grado di flessibilità/discrezionalità e la scelta della grana più opportuna della regolazione sono due grandi questioni da tempo in discussione).  La critica mette in evidenza lo scarto che si viene a creare fra questi apparati e la varietà – in continua evoluzione - di contesti, bisogni e comportamenti soggettivi; nonché la difficoltà di dare risposte alle domande emergenti di innovazione sociale e di generazione e riconoscimento di diritti che riguardano l’uso della città e la qualità della vita urbana.
Queste osservazioni non sono prive di fondamento, ma troverei semplicistica e alla fine fuorviante qualunque ipotesi di facile generalizzazione. Due domande mi sembrano pertinenti e opportune. Quale è la forma di piano, e quindi di regolazione, che viene assunta come pietra di paragone e bersaglio critico? Immaginare un sistema di governo del territorio tanto fluido o plastico da poter aderire perfettamente alla varietà e alle dinamiche del mondo è solo una vana illusione. O forse sarebbe la visione ideale per quella società neo-liberista che la cultura urbanistica generalmente vorrebbe criticare e contrastare. Ogni piano, ogni strumento di governo rappresenta un tentativo di ordinare (“incanalare” diceva Luigi Piccinato) le energie sociali e i bisogni emergenti in una direzione plausibile perché, almeno temporaneamente, può essere considerata convincente e condivisa. Si tratterà verosimilmente di un esperimento sociale provvisorio, destinato a produrre effetti collaterali, in parte inattesi, e a subire modifiche nel corso del tempo. Ma l’urbanistica “liquida” è un non-senso, a meno che la prospettiva sottesa non sia la “self building city” (forse è questa la visione che La Cecla predilige?). E le teorie “enzimatiche” del design (concepire e realizzare piccole mosse in grado di generare effetti di trasformazione più diffusi e determinanti: Branzi 2006) sono sempre esposte a gravi ambiguità ed incertezze: possono alludere a una cultura riformista del possibile, ma anche giustificare comportamenti meramente opportunistici. Le critiche di La Cecla e Bianchetti non ci aiutano a capire in quale direzione dovremmo cercare di muovere. Anche perché non è chiaro quali siano le esperienze concrete che effettivamente attirano e giustificano tali obiezioni. Forse i piani inaugurali dell’urbanistica modernista – grandiose visioni-modello che non sempre hanno trovato sviluppi coerenti in azioni effettive? Le aspirazioni, largamente velleitarie, del secondo dopoguerra verso una pianificazione omnicomprensiva (“totale”), che hanno generato soprattutto delusioni, fallimenti o disastri? Oppure i “piani disegnati” degli anni ’90 che in Italia vanamente hanno cercato di prefigurare norme urbanistiche troppo rigide e dettagliate per un numero troppo vasto di “progetti-norma”, non sempre legittimati da una chiara rilevanza strategica? O l’ultimo piano di Roma, esito maturo della più avanzata cultura urbanistica riformista in Italia, eppure ora associato a una serie di insuccessi ed effetti perversi, forse per il suo orientamento ancora sistematico e la mancanza di efficaci strategie selettive, capaci di guidare e sostenere il cambiamento in forme necessariamente graduali (Palermo, 2001b)? Paradossalmente, le critiche di La Cecla e Bianchetti potrebbero valere non solo per le forme più ottuse o opportunistiche di “urbanistica burocratica”, ma per le creazioni più audaci e innovative che la cultura urbanistica ha saputo concepire nel corso del tempo, rischiando errori e delusioni, ma almeno provando ad assumere chiare responsabilità civili e sociali. Questo paradosso mi induce a supporre che la critica non sia bene orientata. Colpisce (anche) tendenze probabilmente avventate e non sostenibili, che tuttavia, in un passato ormai lontano, sembravano nobilitate da una grandiosa volontà di progresso e cambiamento. Da tempo è difficile trovare tracce di grandi aspirazioni. A parte le retoriche (semplice eco dei discorsi che furono, in forme banalmente ripetitive, ma ora prive di slancio e credibilità rispetto al passato), tende a prevalere un pragmatismo locale, sempre più contingente e disincantato. Secondo l’ipotesi che ho anticipato, il piano-sistema è un atto dovuto per legge, ma in pratica rischia di ridursi a una sorta di simulacro. Le scelte che contano sono innanzi tutto le regole edificatorie: da trattare in modo semplificato, perché ogni differenziazione di forme e contenuti solleva problemi delicati, non solo di competenza tecnica, ma soprattutto di legittimazione giuridica e sociale; e da discutere principalmente (se non esclusivamente) in termini quantitativi. Come è sempre accaduto nelle stagioni più buie della cultura e della pratica urbanistica. Dopo tante coraggiose o imprudenti peregrinazioni (la qualità delle intenzioni non può giustificare la modestia degli esiti), la disciplina forse sta ripiegando verso una concezione minimalista dei suoi requisiti fondamentali? Questo è il dubbio che mi preoccupa più delle generalizzazioni critiche che ho richiamato in questo paragrafo. Perché se questa è la tendenza, una conclusione mi sembra inevitabile: in questo modo l’urbanistica sta perdendo di nuovo il suo progetto - urbanistico e urbano.


3. Se visioni e strategie diventano il fine

Eppure, le migliori volontà di riforma, in tempi e contesti diversi, hanno sempre cercato di superare questo limite. In Italia, il tema della riforma di un sistema regolativo troppo rigido e dettagliato risale (soltanto) a un quarto di secolo fa, con un netto ritardo rispetto ad altre tendenze europee. Si è osservato che il piano generale definito dalla legge nazionale del 1942 assumeva in sé, rendendole confuse e probabilmente meno efficaci, funzioni assai diverse come quelle visionarie e regolative. Una robusta componente riformista ha spinto la disciplina, nonostante la tenace opposizione di una minoranza di ortodossi, a distinguere formalmente strumenti programmatici (a carattere non vincolante) o direttamente prescrittivi: configurando la coppia piano strutturale/piano operativo che riprendeva modelli affini da tempo sperimentati in Europa e altrove. Oggi è difficile sostenere che il processo di riforma abbia avuto pieno successo. Non ha giovato l’intreccio con la controversa riforma del titolo V della Costituzione, che ha creato notevoli confusioni, incertezze o conflitti sulle responsabilità e modalità di governo del territorio. Non ha giovato la frammentazione delle urbanistiche regionali, che hanno seguito percorsi in parte differenti, per certi aspetti contrastanti, mentre il sistema politico è stato vergognosamente incapace di garantire una nuova legge unitaria di principi condivisi alla scala nazionale (l’urbanistica è materia che scotta quando si tratta di acquisire o conservare consenso politico). Si è spesso creato uno scarto preoccupante, per gravi ritardi o deboli connessioni, fra l’elaborazione programmatica e la progettazione operativa. I piani di struttura per lo più sono diventati un esercizio ricognitivo, una sorta di descrizione esauriente del territorio e di censimento di buone intenzioni. E’ generalmente mancata la responsabilità o capacità di selezionare temi e nodi critici di sicuro interesse strategico; cioè di incardinare la visione futura del territorio su un insieme limitato e saliente di grandi e veri progetti di trasformazione, che verosimilmente tendono ad assumere una valenza transcalare. Perciò un quadro strutturale potrebbe diventare lo strumento più idoneo per affrontare i problemi del coordinamento verticale fra poteri e interessi che agiscono a livelli territoriali diversi – uno dei nodi cruciali sui quali sono naufragate le buone intenzioni di tanti sistemi (ortodossi) di pianificazione, concepiti come una struttura gerarchica, a molti livelli, di piani “orizzontali”, ciascuno dei quali dovrebbe corroborare e specificare le norme e raccomandazioni formulate al livello superiore. Ma la catena è tutt’altro che perfetta. A causa di banali ritardi, differenze di fase, omissioni, controversie o conflitti, la macchina generalmente funziona in modo approssimativo e precario, ben lontano dal modello ideale. Mentre il piano di struttura svolge una funzione retorica o meramente indicativa (per la sostanziale debolezza normativa), il piano operativo rischia di configurarsi come uno strumento tradizionale, che agisce in forme regolative ancora rigide ed elementari per parti di città, in assenza di una vera visione guida. In una prima fase, questi temi sono stati oggetto di un’intensa e appassionata rielaborazione, almeno alla scala regionale (come documentano l’intensa produzione/revisione di leggi urbanistiche e un’ampia sperimentazione dei nuovi strumenti di piano). Da una decina d’anni la questione sembra caduta in ombra, come se la sfiducia o rassegnazione, che frenano l’azione del governo e del parlamento nazionale su questi temi, avessero ormai condizionato anche le istituzioni regionali. Questo comporta però che non siano superati i limiti della “regolazione senza visione progettuale”. I quadri strutturali, se disponibili e significanti, sono generalmente rimasti un contributo largamente fine a se stesso.
Nel medesimo periodo, possiamo individuare altre linee di tendenza che miravano ad affrontare problemi simili, ma hanno incontrato difficoltà non minori. E’ il caso del movimento europeo per lo spatial planning che ha assorbito molte energie disciplinari e creato un certo rumore fra gli anni ’90 e la prima decade del nuovo secolo (negli stessi anni in cui l’Italia stava scoprendo i piani di struttura). La politica territoriale non è materia di diretta competenza dell’Unione Europea, ma in quel periodo “costituente” (erano gli anni nei quali i vertici della UE confidavano nella possibilità di condividere una Costituzione comune) è parso ragionevole e giusto tentare una svolta: invece di finanziare (soltanto) interventi mirati di interesse territoriale - su aree urbane degradate, ambienti in crisi, territori di frontiera e così via, dove sarebbe necessario rimediare a situazioni di disagio già consolidate - perché non provare ad anticipare il sorgere dei problemi grazie alla promozione e al sostegno di politiche virtuose dello spazio, più coerenti con i buoni principi della sostenibilità ambientale, coesione sociale ed efficienza economica? Molti anni sono stati dedicati alla messa a punto e condivisione di una “buona pedagogia” dello spatial planning. L’esito è stato un insieme di principi e raccomandazioni edificanti, per certi aspetti ovvi, ma anche astratti perché privi di indicazioni concrete sulle condizioni e gli strumenti necessari per una realizzazione effettiva. Eppure Dahrendorf aveva ammonito: armonizzare obiettivi di sostenibilità, coesione ed efficienza è una missione ardua come la “quadratura del cerchio” (1995). Infatti, i risultati sono stati modesti: nulla più che la reiterazione di principi non inediti, che qualunque sistema di pianificazione dovrebbe sempre tentare di rispettare; ma gli esiti sono stati spesso parziali o insoddisfacenti perché la difficoltà non sta nei principi, ma negli ostacoli concreti alla loro attuazione. Parte della cultura urbanistica italiana ha guardato con zelo, talora con entusiasmo, a quel filone emergente, sopravvalutandone la portata innovativa; eludendo invece le difficoltà materiali, peraltro già ampiamente esperite nel corso di tanti processi ordinari. Fin dall’inizio ho manifestato il mio scetticismo (Palermo, 2001a). Gli stessi promotori, dopo quasi due decenni di generosi tentativi, hanno dovuto riconoscere la modestia degli esiti (Faludi, 2010). Ora il tema sembra di nuovo marginale. Tante energie sono state spese per ridare una visione degna alle pratiche urbanistiche correnti, ma gli sforzi sono rimasti fini a se stessi. Se di visioni al futuro si è trattato, è mancata ogni innovazione effettiva nel rapporto con gli strumenti e le azioni.
Alle soglie del millennio, un’altra tendenza è emersa in Italia, con il consueto ritardo – almeno vent’anni – rispetto alle esperienze internazionali d’avanguardia: la scoperta dei “piani strategici” territoriali.  Le ragioni erano molteplici: il bisogno di padroneggiare uno stile manageriale più professionale, per affrontare i problemi emergenti della trasformazione urbana per progetti e sviluppare nuovi rapporti – di stimolo e cooperazione oltre che di mero controllo – con interessi e operatori di mercato; ma anche, probabilmente, un’insoddisfazione latente per le più recenti esperienze di pianificazione strutturale, che avevano saputo produrre descrizioni sistemiche e quadri programmatici, ma scarsi contributi di interesse strategico, in grado cioè di individuare e valutare obiettivi e interventi prioritari. Si è cercato dunque di trasferire nel contesto competenze ed esperienze già maturate nel mondo delle imprese. Trascurando purtroppo, con l’entusiasmo dei neofiti, difficoltà e critiche che in quello stesso campo erano già emerse da tempo (Mintzberg, 1994) e che in un dominio pubblico rischiavano di diventare più gravi. “Pensare per obiettivi” sembra un’innovazione auspicabile, ma il compito non può essere affidato al tecnocrate (che verrebbe a svolgere un ruolo vicario della politica, privo di legittimazione), né solo alla partecipazione spontanea dal basso (sono note le aporie della democrazia deliberativa: Dryzek, 2000; Mouffe, 2000). La politica, peraltro, è spesso riluttante ad assumere impegni precisi e trasparenti (infatti, la comunicazione post-moderna predilige chiaramente slogan che eludono qualunque fact-checking). Formulare programmi strategici condivisi? Se gli obiettivi sono generici, i tempi incerti, le risorse a disposizione solo vagamente definite, perché mai gli attori potenzialmente interessati dovrebbero prendere posizioni o addirittura impegni vincolanti? L’esito più plausibile è un consenso di massima verso qualunque scenario potenzialmente conveniente. Questo significa che generalmente tendono ad emergere eventuali strategie win win, appena abbozzate e a basso rischio (ma anche poco innovative e non verosimili). Individuare priorità di intervento? Se sono fondate le osservazioni precedenti, non è facile garantire questo obiettivo: in molti casi il processo strategico diventa la macchina retorica in grado (soltanto) di giustificare iniziative già costituite e in attesa. Potenziare l’azione urbanistica grazie al metodo della valutazione? In realtà è noto che i modelli tipici del calcolo razionale possono valere solo per problemi di portata limitata, di solito di routine. Quando la complessità cresce, la valutazione diventa un processo esplorativo dagli esiti non sempre determinati, tanto che pregiudizi e volontà decisionali continuano a svolgere una funzione influente (Christensen, 1985; March, 1994). Costruire e condividere una visione al futuro in grado di legittimare regole e progetti? Purtroppo gli esercizi di visioning risultano spesso privi di caratteri morfologici e ambientali significativi, e mostrano una frammentazione eccessiva di obiettivi ed azioni per ambiti strettamente settoriali (questa è una conseguenza logica dell’adozione di metodi come il decision-tree). Perciò è serio il rischio di uno scarto fra intenzioni e risultati. L’ambizione era garantire grandi innovazioni concettuali e tecniche. L’esito più comune è stato una retorica superficiale e ben presto ripetitiva. Sul piano delle azioni concrete hanno avuto successo soprattutto iniziative locali probabilmente già destinate al compimento perché erano maturi alcuni presupposti. Si può comprendere perché, dopo una stagione di entusiasmi sorprendenti e sostanzialmente ingiustificati (che è durata 10-15 anni), ora anche questo movimento appaia in evidente declino: restano attività di routine, senza troppe ambizioni o speranze.
Questa sequenza di delusioni sembra avere lasciato il segno. Da qualche tempo la capacità di visione dell’urbanistica non sembra più affidata a grandi promesse di innovazione disciplinare, ma deve trovare conferme nella prassi effettiva (questo sarebbe un segno di maturità).  Mi pare di poter individuare solo un orientamento emergente, che peraltro non costituisce una linea di tendenza consolidata. Mi riferisco all’idea di “progetto urbanistico” esplorata negli anni ‘2000 da Bernardo Secchi, probabilmente per due ragioni: provare a interpretare tecnicamente un tema di enorme difficoltà come la creazione di “visioni al futuro” per metropoli o città globali ad alta complessità; ma anche l’esigenza di rinnovare l’approccio disciplinare dopo la crisi palese dei paradigmi più influenti – non solo l’urbanistica funzionale più familiare alle burocrazie amministrative, ma anche alcuni esperimenti innovativi come gli stessi “piani disegnati” degli anni ’90 (Secchi e Viganò, 1998). Se piani di struttura, spatial planning e pianificazione strategica non convincono pienamente, quali opzioni restano disponibili per il rinnovamento disciplinare? Che in ogni caso appare necessario perché ormai la città si trasforma principalmente tramite progetti d’area, la cui selezione e definizione deve essere legittimata da una visione condivisa; la quale non può essere decisa dall’alto, da un potere autarchico, ma neppure può emergere da un puro processo di aggregazione delle preferenze spontanee di tutti i soggetti implicati. L’ipotesi di Secchi è originale nel contesto: provare a costruire scenari tendenziali in relazione a temi di cruciale interesse prospettico (come mobilità, rinnovamento energetico, gestione delle acque, sostenibilità ambientale, mitigazione degli squilibri sociali e territoriali); per ciascuno, rendere pubblico il possibile impatto di misure diverse di intervento, in modo da offrire buoni argomenti a chi ha responsabilità di governo, affinché sia possibile adottare le scelte più idonee (Secchi, 2015). Il “progetto urbanistico”, di conseguenza, si configurerebbe come una collezione di suggestioni possibili, con una valenza in primo luogo cognitiva e valutativa. Lasciando alla politica la responsabilità di selezionare e coordinare priorità, opzioni e interventi mirati, secondo una strategia corroborata e condivisa. La proposta presenta molteplici motivi di interesse ed è stata messa alla prova in forme sofisticate e brillanti in contesti di grande rilievo (Parigi, Bruxelles, Mosca e altrove). Si espone, a mio avviso, ad alcune obiezioni. Infatti, resta elusiva rispetto ai nodi fondamentali della regolazione e dei progetti “veri”; non chiarisce cioè quali potrebbero essere gli strumenti più idonei per dare corpo a scenari e visioni condivise (Secchi giustamente critica le correnti disciplinari che hanno concentrato i loro interessi sulle dimensioni giuridico-istituzionali dei problemi; questo non significa, a mio avviso, che la messa a punto di regole e strumenti più idonei possa essere ignorata, come se la questione fosse irrilevante). Inoltre, l’approccio di Secchi ripropone una concezione illuministica delle relazioni fra conoscenza e decisione, ruolo esperto e autorità politica. Il contributo analitico e valutativo degli scenari dovrebbe svolgere una funzione decisiva per legittimare scelte virtuose. Si rinnovano così i sogni dell’illuminismo applicato (Panebianco, 1989), con un’aggravante: le forme dell’elaborazione probabilmente sono troppo sofisticate o astruse per lo stile più attuale di policy-making. Anche perché le esplorazioni di Secchi generano scenari a spettro ampio, ma sempre vincolati a un tema settoriale dominante, mentre le sfide di governo concernono, in questa fase più che mai, ambiti prioritari circoscritti e relazioni problematiche trasversali. Per queste ragioni, pur apprezzando l’originalità e l’impegno del tentativo, non ritengo che questa possa essere una concezione auto-sufficiente del “progetto urbanistico”. Come accade ai tre filoni di esperienze richiamati in precedenza, pesa lo scarto fra il contributo ricognitivo (necessario e auspicabile, ma per definizione incompleto) e la capacità d’azione effettiva. La politica che si ispira ai canoni della modernità è stata più volte, e a ragione, accusata di avere abusato strumentalmente o cinicamente dei mezzi (non importa quali) pur di perseguire i fini proclamati (Agamben, 1996; Revelli, 2003). Anche in questi casi la relazione fra mezzi e fini diventa un problema, ma per ragioni opposte: questa è un’urbanistica che si prende cura dei fini, in forme retoriche o (nei migliori dei casi) analitiche; continua a eludere però la sostanza degli strumenti e delle azioni possibili.


4. Restituire all’urbanistica il progetto di luoghi?

Per riprendere il filo del discorso, un richiamo al “realismo critico” mi sembra un presupposto indispensabile (Gregotti, 2004; Palermo e Ponzini, 2010 e 2015). E’ un fatto, da tempo, che le città si trasformino, per parti, nonostante (o grazie a) un’urbanistica debole. Il rapporto diretto fra promotore/costruttore e amministrazione pubblica risulta spesso determinante, mentre le regole urbanistiche in vigore rappresentano un fattore d’attrito, da interpretare o neutralizzare secondo le contingenze più opportune, e le visioni si riducono a un esercizio retorico sempre più rituale e meno influente. Si potrebbe notare qualche similitudine formale con le stagioni della renovatio urbis (Gregotti 1999; Secchi, 1989 e 2000). In quel contesto, però, città e territorio potevano contare su presupposti di forma, coesione e identità che non trovano riscontro nelle realtà frammentate e ambigue del presente (Soja, 2000; Shane, 2011). Diventa perciò più difficile individuare solidi principi di legittimità e criteri condivisi di qualità per le operazioni in atto. Che in diverse situazioni attirano critiche severe e giustificate, mentre la capacità di diagnosi, i rimedi possibili e le linee d’azione conseguenti, generalmente, restano ancora incerti o confusi. A Milano, per esempio, La Cecla (una delle poche voci critiche, 2015) ha denunciato gli esiti modesti o scadenti del più recente (presunto) “rinascimento urbano”, ma paradossalmente ne ha attribuito le responsabilità all’urbanistica, come se il piano del sindaco Moratti potesse essere considerato un degno paradigma disciplinare. D’altra parte media e opinione pubblica sembrano esprimere un orientamento assai più benevolo verso le torri che hanno modificato lo skyline della città. Come è possibile questa varietà di giudizi? Dove sta la ragione? Quali sono le cause dei problemi emergenti e delle differenze di valutazione? Ecco perché, a mio avviso, oggi abbiamo bisogno di “nuovo realismo”, e non solo di suggestioni.
 Proprio il caso di Milano potrebbe diventare un laboratorio interessante. Dopo una lunghissima fase di immobilismo o sostanziale inconcludenza, negli anni ‘2000 alcuni grandi progetti di trasformazione sono stati in buona misura o almeno in parte realizzati, dopo processi in verità tortuosi e gravi ritardi. Secondo i promotori, non vi sono dubbi: sta prendendo forma un nuovo modo di vivere la città, nobilitato da architetture di eccellenza. Un punto di vista di parte, che può essere compreso. L’opinione pubblica appare più incerta di fronte a tante, inusuali novità, ma nel complesso sembra ben disposta. Gli urbanisti per lo più tacciono: hanno criticato le contraddizioni più evidenti del piano Moratti; ora - salvo poche eccezioni – non sentono l’esigenza di prendere le distanze dal mainstream prevalente. Eppure un ragionamento urbanistico sulle trasformazioni in atto potrebbe offrire alla città stessa argomenti di qualche interesse,
Il progetto di Porta Nuova, per esempio. L’area è strategica: vasta (circa 340 mila mq), centrale e dotata di importanti infrastrutture, grazie alla confluenza di linee ferroviarie e metropolitane. Dopo una lunga e controversa fase preparatoria, qualche risultato finalmente è visibile (questo solo fatto può indurre a giudizi benevoli). Si tratta di un denso grumo di torri, aggregate senza un chiaro disegno di suolo, in uno spazio che soffre per problemi evidenti di traffico, essendo attraversato e diviso da una via di intenso scorrimento. Non è un rimedio un sottopasso automobilistico, che in realtà si sviluppa al livello del suolo. Da un lato, la sua apertura rappresenta una ferita grossolana e indelebile sul profilo dell’area, che già soffre per lo schiacciamento prospettico di forme architettoniche occasionali e reciprocamente estranee. Dal lato opposto, il canale di flusso impone una brusca rottura delle connessioni di superficie fra la piazza centrale dell’area-progetto (dedicata a Gae Aulenti) e la contigua stazione Garibaldi. La scalinata d’accesso pedonale alla stessa piazza avrebbe forse qualche ambizione scenografica, ma è ridimensionata dall’esiguità degli spazi a disposizione rispetto ai volumi degli edifici sovrastanti. Dal medesimo lato, inoltre, un paio di curve sinuose e un semaforo ostacolano il flusso dei veicoli e quindi la stessa mobilità pedonale, aggravando l’impatto del traffico sulla qualità del contesto e dell’ambiente. Quando si raggiunge piazza Aulenti le condizioni di abitabilità del luogo non diventano più soddisfacenti. Il microclima non è certo ideale. Il visitatore deve preoccuparsi dei venti che imperversano senza possibilità di riparo durante le stagioni fredde; ma anche del sole cocente durante i mesi caldi, con effetti moltiplicati dalla vasta spianata di cemento (due temi ambientali ampiamente sottovalutati). Il visitatore troverà ristoro nel verde? Non per il momento, perché il progetto di parco ritarda come se si trattasse di una componente secondaria e residuale. Sono passati più di dieci anni dalla selezione concorsuale del progetto vincitore. Non si sente il bisogno di giustificare il ritardo, anzi l’inaugurazione del cantiere per una parte circoscritta del parco dovrebbe diventare motivo di compiacimento e di festa (aprile 2017). Per diversi anni lo spazio destinato a verde è rimasto recintato. Poi, ai tempi di Expo, per motivi di decoro temporaneo è stato sottoposto a un esperimento strumentale – coltivare frumento in città (espediente effimero e persino controproducente, come avrebbe potuto osservare l’agronomo o il contadino). In seguito l’ambito è stato trattato come un mero tessuto di zolle solcato da un grossolano percorso pedonale. Ora si attende il compimento del progetto, che si preannuncia denso di siti specializzati e attività programmate, invece di puntare alla sobria e aperta disponibilità agli usi che è tipica dei commons inglesi(o, per restare nelle vicinanze, del parco Nord situato tra Milano, Cinisello e Bresso). L’enfasi verso gli orti urbani, in particolare, diventa un’ideologia priva di misura: per la banalità del tema, ma anche per le implicazioni ambientali (raccomandereste il consumo di vegetali prodotti ai margini di una superstrada?). Eppure, la retorica ecologica continua ad essere un motivo dominante. Si celebra la disponibilità (futura) di un nuovo grande polmone verde per Milano (sarà più vasto delle Tuileries!), ma sulle sue dimensioni qualche interrogativo è lecito. Secondo i programmi annunciati nelle fasi preliminari sarebbe stata destinata a verde circa la metà dell’area (quindi più di 150mila mq). I manifesti esposti dal promotore sul recinto del parco futuro indicavano (soltanto) una superficie di 90 mila mq. La differenza non è marginale. Trovo paradossale che si continui a lodare la sensibilità ambientale del “bosco verticale” quando la sua vegetazione (confinata in condizioni disagiate, rispetto alle esigenze della natura, e al prezzo di alti costi di gestione) non è in grado di compensare il verde perduto rispetto alle prime ipotesi. Posso capire il ricorso a questo modello quando si deve inserire un nuovo grande edificio in un ambito già fortemente densificato e povero di verde, ma quale è il senso della proposta quando si ha l’opportunità di progettare ex novo più di 300 mila mq di superficie urbana? Mi colpisce anche l’attenzione che queste torri suscitano nell’opinione pubblica, con l’avallo compiacente della stampa, come se si trattasse di un’innovazione assoluta e altamente creativa. Mentre Charles Jenks poteva osservare anni fa (2011): “ci sono (ormai) migliaia di esperimenti di questo genere, con effetti incerti in termini di qualità ambientale, architettonica e funzionale”. La qualità architettonica e urbana è comunque un problema per l’intero progetto. Il promotore celebra le sue eccellenze. Io vedo una collezione di architetture largamente occasionali e spesso ordinarie; appesantite da indici di edificabilità fuori misura; confusamente addensate senza la guida e il sostegno di un vero progetto di suolo; corredate da un arredo urbano di qualità disuguale e in parte grossolano. Vedo anche edifici all’affannosa ricerca di funzioni disposte a insediarsi (è una fortuna che i fondi del Qatar possano permettersi investimenti improduttivi anche per un paio di decenni). Le destinazioni funzionali non sono mai state un punto forte del progetto, anzi più di un’ipotesi effimera è stata presa in considerazione (come la proposta di insediare un’ulteriore “città della moda”), prima di ripiegare su ipotesi più generiche di residenze, terziario e commercio. Al momento restano comunque vuoti urbani non trascurabili, anche perché i prezzi sono ancora sensibilmente superiori alle potenzialità del mercato. Non si tiene conto, inoltre, del fatto che l’ampliamento cospicuo dell’offerta avrà comunque effetti collaterali negativi su altri comparti urbani, in una città che già soffre per una quota cospicua e crescente di strutture sotto-utilizzate (ma le esternalità sono l’ultimo pensiero per i promotori e forse anche per l’amministrazione della città). D’altra parte, il nuovo progetto non mostra una cura reale per i problemi di cucitura urbanistica e urbana con il contesto: qualcuno pensa che possa essere più sensibile a effetti esterni meno visibili, in parte immateriali e comunque non immediati? Per concludere: è un dato positivo il fatto che, dopo una stagione interminabile di immobilismo e incapacità d’azione, finalmente la trasformazione dell’area sia stata almeno in parte realizzata. Gli esiti, però, non dovrebbero giustificare celebrazioni irriflessive e un po’ provinciali. Quali opportunità sono andate perdute! Se almeno l’esperienza fosse motivo di riflessione critica e di apprendimento per il futuro…
Porta Nuova non è un caso isolato. L’esperienza di City Life, nell’area della vecchia Fiera urbana (circa 390 mila mq), presenta caratteri assolutamente simili. Anche in questo caso raccomanderei una maggiore attenzione per le buone intenzioni iniziali e lo scarto grave, purtroppo, delle operazioni finora compiute. Si voleva restituire a Milano un grande spazio-parco (destinando a verde la metà dell’area) che rendesse permeabile alla città ciò che era stato un recinto secolare; adottando un disegno luminoso e leggero, capace di dare rilievo al tema delle acque, ben radicato nella tradizione milanese, e di “cucire e legare” le trasformazioni con l’intorno e il pregresso; in questo quadro, sarebbe stato possibile inserire in modo coerente nuclei di edificazione densi e innovativi, in grado di migliorare sensibilmente la qualità e la capacità di attrazione del contesto. Grazie alle sue eccellenze - architettoniche, ambientali e (anche) urbanistiche - il progetto si candidava a diventare un nuovo, importante landmark di Milano. Ai bordi dell’area ora ci troviamo di fronte a due nuclei dominanti di torri residenziali, firmate, ma ordinarie e senza alcuna relazione con il contesto, che configurano nuovi recinti inaccessibili, comprese le aree verdi intercluse che i programmi iniziali intendevano destinare a uso pubblico. In una posizione più centrale svettano due torri più alte (in attesa, forse, della terza già prevista), anch’esse firmate, destinate a funzioni terziarie (che svuoteranno altre parti della città), a ridosso di una stazione metropolitana (dimenticata dal progetto iniziale) che risponde a bisogni funzionali oggettivi, ma ha contribuito a ridimensionare ulteriormente l’area destinata a parco. Che comunque, anche in questo caso, è in gravissimo ritardo, come se fosse l’ultima preoccupazione dei promotori e della stessa amministrazione. Un progetto che avrebbe dovuto trovare compimento da diversi anni è ancora lontano dalla conclusione. Le promesse più interessanti non sono state mantenute. Una grande opportunità sembra al momento seriamente compromessa. Eppure le torri svettanti (non importa in quale contesto e con quali effetti reali?) sembrano rappresentare per larga parte dei media e forse dell’opinione pubblica una prova ulteriore del rinascimento di Milano. La mia conclusione è diversa. Se l’urbanistica avesse ancora un qualche valore e una certa capacità di influenza, sarebbe in grado di accompagnare le trasformazioni urbane verso esiti più degni. Come accade in altri paesi. Lo stato di cose è invece il segno di una sconfitta che non mi sembra possibile eludere. Quale può essere la prospettiva, se continua a mancare una riflessione critica e la volontà di mettersi in discussione?


5. Requisiti urbanistici per i progetti urbani

Sarebbe sufficiente rileggere “in negativo” i progetti appena descritti per individuare una serie di requisiti potenzialmente rilevanti. Non si tratta di considerazioni e orientamenti inediti. Il punto è che sono spesso enunciati, ma non realmente rispettati nel corso dei processi. L’ipotesi è che su questi temi sia possibile e opportuno rilanciare un’urbanistica del progetto urbano. Ecco una rassegna essenziale di principi e strumenti, ordinata secondo cinque famiglie di grandi questioni.


Il contesto non è mai indifferente. Le boutades à la Koohlaas (2006) hanno perso smalto, persino fra gli stessi artefici. Ma l’alternativa non è solo l’appello diligente a principi edificanti, apparentemente ovvi. La nozione di contesto è densa, plurale e ricca di ambiguità. Se l’orizzonte prescelto è territoriale, Gregotti (1966) ha insegnato che molteplici sono le dimensioni da esplorare: morfologiche e fisiche, ma anche storiche, geografiche e antropologiche (altri analisti darebbero rilievo anche alle sfere sociali e politiche). Come trattare questa complessità in modo pertinente è stato sempre un problema. Potremmo dire, adottando le categorie di Gregotti, che c’è un grande bisogno di scelte “semplici, ordinate, organiche, precise” (Gregotti, 1994). Se l’urbanista o l’architetto non è in grado di padroneggiare questo rigore, rischia seriamente di smarrire la via nella complessità del contesto. Sarebbe importante, invece, saper unire una ricchezza interpretativa (sensibile alle ragioni della storia e della società) con il rigore progettuale nel dominio strettamente pertinente delle misure e delle forme, che comprende anche i temi delle infrastrutture da intendere in un senso non solo funzionale, ma morfologico e morfogenetico. Senza alcuna pretesa di progettare ambienti-modello, ma solo possibilità da abitare, in modi che possono cambiare nel tempo - dove la qualità delle forme progettate dipende anche dalla capacità di ospitare bisogni e comportamenti in evoluzione. Studiare il progetto-nel-contesto significa individuare criticamente alcune modificazioni necessarie della situazione preesistente (Gregotti, 1994), ma anche concepire una matrice dotata di virtù generative e di proprietà resilienti: in grado cioè di evolvere sulla base di relazioni e dinamiche emergenti dal contesto stesso. Il “progetto di suolo” dovrebbe essere una componente determinante di questa matrice.
Gli spazi così configurati possono diventare “luoghi” in senso proprio? Questo è un tipico tema di interesse urbanistico perché presuppone la centralità dei nessi fra le dimensioni fisiche e sociali del progetto. Il luogo è uno spazio che ospita un’esperienza di vita compiuta e condivisa; perciò esprime, almeno temporaneamente, un senso e una ragion d’essere. Sono le esperienze vissute, in sostanza, che giustificano e rendono valore alla generazione di forme architettoniche e strutture urbanistiche. Il progetto urbano deve mirare alla creazione di luoghi? La risposta potrebbe sembrare ovvia, ma rischia di essere fuorviante. La vera posta non è cercare di disegnare, in modo deliberato, le forme materiali che sarebbero in grado di ospitare e forse di determinare comportamenti individuali e collettivi virtuosi. Questi tentativi possono dare luogo a esiti paradossali, perché la vita della città e nella città si sviluppa in forme creative, spesso inattese o imprevedibili. Sembra più ragionevole convenire che il carattere di luogo è un “effetto emergente” da uno spazio dato -  può essere cioè solo la risultante (non programmata e neppure voluta, in senso stretto) di una pluralità di azioni, interazioni ed effetti collaterali. Al progetto urbano spetta la responsabilità di configurare non lo stato finale (per quanto detto, ampiamente indeterminato), bensì una serie di presupposti e condizioni – materiali, morfologici e funzionali, ma anche simbolici - che potrebbero favorire l’evoluzione dello spazio-in-luogo. Questa responsabilità può essere intesa in un senso più ampio se l’amministrazione pubblica assume l’obiettivo politico di promuovere la formazione di luoghi urbani come “beni comuni” (Palermo e Ponzini, 2015): che devono dunque garantire, nel modo più aperto possibile, la fruizione del luogo da parte di cittadini e utenti e, nello stesso tempo, le cure necessarie per la sua tutela e rigenerazione, probabilmente messe a rischio da un uso più equo e diffuso (i due requisiti fondamentali che connotano la nozione di bene comune). Se l’ideologia della “città come bene comune” rischia di diventare uno slogan velleitario o evasivo, la produzione di “luoghi urbani come beni comuni” rappresenta una sfida concreta e ben definita per il governo della città, che potrebbe influire sensibilmente sulle capabilities (Nussbaum, 2011) di abitanti e fruitori. Questo intreccio di questioni viene ad assumere una chiara valenza per l’urbanistica contemporanea e le sue istanze di rinnovamento.
Il contesto, però, è anche una nozione transcalare nel mondo della globalizzazione. Limitarsi a una concezione localistica del contesto sarebbe evidentemente un errore e un rischio. In molte situazioni (spesso le più problematiche), nello stesso ambito spaziale convergono e sovente entrano in tensione tradizioni/interessi locali e le proiezioni di forze, progetti ed azioni “a distanza”, spesso in grado di sconvolgere gli ordinamenti spaziali costituiti. Sarà dunque necessario distinguere nel contesto quei nodi cruciali dove si concentrano e si manifestano interessi globali o comunque esogeni, rispetto agli ambiti più consolidati dove operano soltanto o principalmente attori locali. Il tema non è certamente inedito. La distinzione da parte di Ludovico Quaroni (1967) di “emergenze” o “aree-tessuto” nel territorio urbano mostra come la riflessione architettonica abbia saputo cogliere la duplice natura del contesto fin da tempi nei quali i processi di globalizzazione erano meno evidenti e meno studiati. Oggi riconoscere le dimensioni transcalari del contesto significa che il progetto deve affrontare (anche) i temi della sussidiarietà verticale. Ci sono problemi e scelte di trasformazione urbana che trascendono i puri interessi locali, e richiedono dunque un’adeguata capacità di coordinamento verticale fra una molteplicità di poteri e interessi che agiscono a scale diverse. Se nelle aree-tessuto il governo del territorio può essere affidato alla regolazione locale, nelle “emergenze” occorre una visione condivisa (transcalare), in grado di portare a sintesi la pluralità degli interessi. Seguendo questa via, mi sembra ragionevole supporre (Palermo e Ponzini, 2015; Palermo, 2016) che lo scopo principale di una visione spaziale d’area vasta sia selezionare e rappresentare nodi, reti e progetti di rilevante interesse strategico, che richiedono modalità adeguate di coordinamento verticale fra diversi livelli di governo. Per gli ambiti di interesse locale saranno sufficienti dispositivi di regolazione endogena. Quest’idea di visione territoriale “strategica” può rappresentare un’altra sfida emergente per la cultura urbanistica, che si aggiunge alla nozione di “progetto di luogo” delineata poco sopra. L’innovazione non sarebbe di poco conto rispetto ai sistemi ortodossi di pianificazione, che ancora assumono un modello “a millefoglie”: come stratificazione di piani orizzontali all’eterna ricerca di interrelazioni congruenti e funzionali. Perché, invece, non provare a sviluppare le relazioni verticali di interesse strategico entro un’unica visione condivisa, affidando le parti più consolidate e autonome del territorio alla buona regolazione locale? Con il vantaggio di una semplificazione significativa: una sola visione al futuro per il territorio, progetti di trasformazione mirati e condivisi per i nodi strategici, un solo regolamento per ogni contesto locale. E contributi urbanistici pertinenti (e innovativi) per ogni tipo di contesto.

Un certo grado di discrezionalità è inevitabile. Se ora riportiamo lo sguardo sui temi canonici della regolazione (cuore tradizionale della disciplina, ieri e oggi come abbiamo osservato), è possibile cogliere alcuni paradossi che, con una certa ipocrisia, generalmente sono lasciati in ombra dalle comunicazioni disciplinari. Con l’eccezione delle esperienze anglosassoni, la rigidità delle regole sembra un tabù nel continente europeo come negli Stati Uniti. Un’evidente sfiducia nella lealtà sociale e nello stesso rigore della pubblica amministrazione, il timore di mettere in crisi la legittimità delle decisioni o di sovraccaricare di responsabilità lo stesso operatore pubblico, favoriscono evidentemente l’adozione diffusa di sistemi di regolazione prescrittivi. Si tende a ridurre sistematicamente i margini di discrezionalità delle scelte, ed a valersi solo saltuariamente della possibilità di valutazioni ex post dei progetti. Il concetto di urban code, con tutte le sue difficoltà, risulta chiaramente privilegiato rispetto alle opportunità di design review. Si preferisce dunque cercare di codificare ex ante le modalità virtuose d’azione per la grande varietà di situazioni e problemi (un impegno senza fine), invece di puntare su meccanismi trasparenti e responsabili di valutazione delle proposte emergenti, sulla base di principi-guida condivisi e di un sistema essenziale di regole generali predefinite. Il coding continua a rappresentare una componente fondamentale del planning; in pratica ne può costituire il nucleo determinante per il controllo delle trasformazioni territoriali, mentre i piani generali si occupano di obiettivi, strategie e programmi, in termini solo preliminari e spesso generici (è il caso di molte esperienze statunitensi). Proprio nei contesti dove chiaramente prevale l’orientamento prescrittivo emergono però tendenze all’apparenza paradossali (Marshall, 2011, le descrive con cura, senza trarre però conclusioni innovative). Negli Stati Uniti, le ordinanze locali di zoning sono spesso schematiche, elementari, rigide, e ancora fondate su principi e visioni che risalgono addirittura al primo ‘900. Questi modelli, francamente obsoleti, non sono messi in discussione in molte realtà. Tuttavia, sempre più frequentemente sono affiancati o sostituiti, in ogni caso corretti da strumenti ad hoc – “special district zoning”, “planning unit development provisions”, “specific plans” per temi ed aree di speciale interesse (ibidem, cap.11) – che rappresentano evidentemente una varietà di tentativi (legalizzati) di deroga dalle limitazioni ordinarie. Si crea così una notevole varietà di situazioni contingenti. Negli ultimi dieci anni gli ambienti del New Urbanism (Duany e Speck, 2010) hanno provato a proporre nuove forme di codici generali, più sensibili ai caratteri topologici e ambientali dei territori (con tutti i limiti che sono intrinseci a quel movimento: Palermo e Ponzini, 2015). Per il momento, tuttavia, questi modelli di “smart code” non si sono compiutamente affermati: strumenti tradizionali o in deroga continuano a svolgere ruoli di grande rilievo. Anche in Francia, la concezione più tradizionale degli strumenti urbanistici rivela un forte orientamento prescrittivo alla scala locale, mentre le visioni d’area vasta sono state sviluppate solo negli ultimi decenni e non sono esenti dai limiti tipici dei quadri strutturali. Questo modello culturale e tecnico è forse ancora più radicato che nel nostro paese, e più deboli sono stati i tentativi endogeni di metterlo in discussione. Un importante filone di studi tipo-morfologici si è sviluppato dagli anni ’70 (anche per l’influenza di alcuni maestri italiani), ma non sembra essere riuscito a contaminare le concezioni più ortodosse dello zoning. Alcune regole sulla posizione degli edifici nei lotti, i rapporti di copertura, densità, altezze e temi affini, hanno evidentemente una valenza morfologica, ma in generale le analisi di tipi e forme preesistenti svolgono una funzione (solo) preparatoria: tendono a influire, indirettamente, sulla definizione formale delle zone e sulla elaborazione di alcune regole d’uso e trasformazione del suolo. La possibilità di creare sistemi innovativi di norme disegnate, più sensibili alla varietà delle forme e dei contesti, resta un problema ancora aperto, come negli Stati Uniti e altrove. Tuttavia, è degna di nota una tendenza di frontiera che mira a integrare meglio i temi della generazione e del controllo della forma urbana nei processi di pianificazione urbanistica. La chiave sarebbe la sperimentazione di “development codes” dotati di una potenzialità generativa, in grado cioè di evolvere (in modi intenzionalmente controllati) in relazione alle dinamiche di contesto. Restano però molti dubbi sulla opportunità/possibilità di elaborare codici differenziati ed esaurienti piuttosto che generali e standardizzati (Marshall, 2011, cap. 9). Anche questo movimento (come la creazione di strumenti ad hoc negli Usa) esprime il bisogno di ridefinire le condizioni di rigidità/flessibilità del processo di piano. Anche in questo caso, però, continua a mancare un esplicito riconoscimento della domanda emergente di discrezionalità (tema magistralmente anticipato in Italia da Luigi Mazza, 2004). Si continuano a cercare surrogati o correzioni per i sistemi regolativi più tradizionali. Non si ha il coraggio di mettere in discussione il primato di un ordine prescrittivo che risulta sempre meno sostenibile (infatti è spesso mitigato o aggirato). La mia opinione è diversa. Riterrei più coerente e trasparente riconoscere che, per varie ragioni, un certo grado di discrezionalità è indispensabile nei processi attuali di governo del territorio. Il punto è individuarne l’oggetto e i limiti in modi rigorosi e condivisi (ci sono temi e questioni che esigono certezze). E garantire che l’esercizio della discrezionalità sia sempre pubblico (consenta cioè la formazione di conoscenze e giudizi pubblici) e possa essere associato a chiare responsabilità politiche e amministrative (ai fini di future valutazioni e, se necessario, correzioni). Una società matura non dovrebbe temere i rischi della discrezionalità, o meglio dovrebbe disporre degli anti-corpi necessari per poterne controllare gli eventuali effetti perversi. So bene che il discorso non è popolare in Italia. Potremo sperare in orientamenti futuri più aperti e responsabili, oppure il nostro governo del territorio dovrà continuare a convivere con modelli formalmente rigorosi, ma inattuabili se non in forme precarie, fortemente mediate e talora mistificanti? Credo che ripensare il nesso rigidità/discrezionalità sia oggi una delle sfide più appassionanti per la cultura urbanistica che si occupa di regolazione. Una sfida molto attuale, a mio avviso, perché la valutazione dei progressi compiuti in questo campo, sulla scena internazionale, non è certo soddisfacente. Purtroppo pochi passi in avanti sono stati compiuti rispetto alle intuizioni e ai suggerimenti che maestri italiani come Giuseppe Samonà, Ludovico Quaroni e Giancarlo De Carlo hanno anticipato fin dagli anni ’60.

I caratteri ambientali non sono un ornamento. Questo è un monito che risuona spesso con riferimento ad aree verdi e paesaggi, cioè in ambiti nei quali non sono mancati orientamenti formalistici ed estetizzanti, che generalmente sono considerati riduttivi. Cerchiamo ora di non rendere ornamentale la concezione della “sostenibilità”: come insieme di idee e pratiche che da tempo suscita interessi crescenti e diffusi, ma è anche al centro di retoriche banali e talora mistificanti, con le quali il marketing immobiliare o territoriale e la stessa politica urbana cercano di attrarre il consenso e di valorizzare scelte e proposte non sempre innovative. Sarebbe imperdonabile accontentarsi della retorica della sostenibilità, invece di affrontare le questioni di sostanza che il tema impone all’attenzione: che potrebbero garantire benefici rilevanti per l’economia e la salute della città, e rendere più attuali e pertinenti le competenze dell’urbanistica. La città contemporanea soffre, al tempo stesso, per crisi endemiche di bilancio e uno spreco sistematico di risorse, in parte ereditato da scelte e comportamenti di lungo periodo, ma anche aggravato da alcuni attuali modelli di gestione e di consumo. La città contemporanea sembra inerte e indifesa di fronte ai rischi per la qualità della vita conseguenti da problemi cronici come l’inquinamento e il traffico – due temi quasi-intrattabili, che la politica urbana finisce per eludere non essendo in grado di garantire promesse e impegni significativi (misure come la congestion charge sono iniziative marginali, rapidamente assorbite dal mercato; i programmi di intervento strutturali sono molto più costosi e complicati, perciò rari o discontinui). Una politica dello sviluppo urbano “veramente sostenibile” dovrebbe invece misurarsi direttamente con i problemi dello spreco di risorse e della qualità ambientale. Una serie di ricerche ed esperienze di settore hanno prodotto risultati interessanti negli ultimi 10-15 anni. Importanti sviluppi nella gestione delle acque e dei rifiuti, e nell’innovazione tecnologica ai fini del risparmio energetico (Corburn, 2009; Chapin et al., 2011; Coyle e Duany, 2011; Banerjee e Loukaitou-Sideris, 2011; Beatley 2011 e 2012; Brown et al., 2013; Iyengar, 2015 ). Una migliore capacità diagnostica delle cause dell’inquinamento atmosferico e, da un punto di vista tecnico, delle possibilità di mitigazione del problema grazie a vasti programmi di rinnovamento edilizio, urbano e delle modalità e dei flussi di traffico. Una rivisitazione dei temi classici dell’ambientazione dei sistemi insediativi secondo i criteri micro-climatici più opportuni, in relazione alla prospettiva emergente – ancora poco familiare alla cultura urbanistica - del climate change (Newman et al., 2009; Calthorpe, 2011, Pelling, 2011; Shaw e Sharma, 2011). In termini più generali, e più ambiziosi, la possibilità di concepire un’idea e realizzare un’immagine più evoluta di eco-city (Cooper et al., 2009; Wong e Yuen, 2011; Flannery e Smith, 2011; Tang, 2013; Yang, 2013; Clementi, 2016) che potrebbe diventare la chiave per rendere più sostenibili le condizioni della vita urbana. Per ogni filone, si moltiplicano i riferimenti, le proposte, le sperimentazioni. Potrebbero le diverse tendenze (la cui impronta per ora è prevalentemente settoriale) essere meglio articolate secondo il contesto spaziale specifico, alla ricerca di interdipendenze proficue? Non si delinea forse l’opportunità di rinnovare contenuti e strumenti della “tecnica urbanistica” più tradizionale? Un rinnovamento profondo sarebbe possibile grazie a un’estensione di campo: dai temi inaugurali della costruzione di edifici e infrastrutture hard verso interessi ambientali più diversificati e qualitativi, in larga misura inediti per la disciplina, ma ormai determinanti, oggi e in prospettiva, per gli esiti del progetto. Attualmente, gli urbanisti italiani (ma non solo) sono afflitti da un evidente bisogno di rilegittimazione. Queste opportunità potrebbero indicare una via di rilancio plausibile, per chi avrà il coraggio di mettere in discussione gli stereotipi del passato per intraprendere percorsi nuovi. Innovazioni importanti sono state possibili, fin dagli anni ’90, sul tema del paesaggio – che un tempo rappresentava una frontiera disciplinare (Clementi, 2002; Lanzani, 2011). Che questo precedente sia di buon auspicio!


Gli effetti collaterali sono parte del problema. Nelle pagine precedenti, questo principio ha trovato sostegno empirico rispetto a due questioni rilevanti: il progetto di luogo può essere inteso (con buone ragioni) come un “effetto emergente”; le relazioni fra nodi locali e reti di flusso tendono a evolvere in forme inattese e imprevedibili nei contesti territoriali. Non si tratta di situazioni eccezionali: le “esternalità” sono una componente costitutiva della condizione urbana (Giovanni Ferraro, 1990, ha saputo cogliere la novità e l’importanza di questa prospettiva). La città è l’ambito privilegiato per la generazione di effetti collaterali - infatti è l’ambiente più propizio per imbattersi in fenomeni di serendipity: Hannerz, 1980). Pertanto un’incertezza radicale condiziona gli scenari urbani. Radicale perché non dipende da limiti contingenti di visione e conoscenza, ma dal gioco inesauribile delle interazioni strategiche fra una pluralità di soggetti (e interessi, decisioni, comportamenti) almeno in parte indipendenti. La loro composizione non può essere affidata a ordinamenti funzionali precostituiti (la considerazione vale anche per i piani urbanistici tradizionali, quando cercano di prefigurare un ideale “progetto di stato”). Potrà essere l’esito, generalmente provvisorio, di processi evolutivi di mutuo adattamento. Ogni parte si muove sulla base di obiettivi individuali e valutazioni inevitabilmente incomplete, con effetti, però, spesso rilevanti e non sempre indolori per il contesto materiale e sociale. Perciò, non dovrebbe destare sorpresa lo scarto continuo fra intenzioni ed esiti, né il fatto che il “progetto urbanistico”, di solito, non riesca a trovare attuazione compiuta (con risultati meno soddisfacenti quando l’approccio è rigorosamente funzionale). Se l’incertezza è strategica, la risposta pubblica non può essere affidata a modelli d’ordine impositivi, ma solo a soluzioni “politiche”, capaci di individuare ragionevoli punti di equilibrio nel gioco fra gli interessi di parte, favorendo la formazione del consenso e la costruzione di relazioni cooperative. Lo slittamento tendenziale da forme generali di piano prescrittivo verso modalità di trasformazione urbana per progetti è uno dei sintomi di queste esigenze. Con qualche rischio, naturalmente: di sacrificare il principio dell’interesse collettivo (così difficile da interpretare) di fronte alla chiarezza, la forza e le pressioni di alcune strategie individuali. Secondo un tipico scenario neo-liberista. Per queste ragioni, sarebbe irresponsabile sottovalutare i possibili effetti collaterali dei progetti urbani emergenti: che riguardano la qualità morfologica e ambientale del contesto, l’impatto sui consumi delle risorse disponibili e sui modi d’uso della città esistente, l’evoluzione delle relazioni di flusso e le condizioni di permeabilità fra comparti urbani, gli effetti sulla biodiversità del contesto e sulle disuguaglianze spaziali e sociali; la possibilità di adattamenti futuri se dovesse sensibilmente mutare il quadro di riferimento. Questi sono temi di evidente interesse urbanistico. La cura degli effetti collaterali mette in crisi le logiche tradizionali della pianificazione, ma diventa una nuova sfida cruciale per lo scenario delle trasformazioni urbane per progetto. Si potrebbe osservare: per affrontare questi problemi sono già previste diverse modalità di “analisi di impatto”. E’ vero, ma attenzione a non commettere l’errore già denunciato da Mintzberg: confondere “strategic thinking” e “strategic programming” (1994). Da tempo sembra chiara l’esigenza di affrontare una serie di problemi emergenti di chiaro interesse strategico, ma non è una risposta adeguata la codificazione di metodi e modelli formali, come appunto è avvenuto con le “valutazioni di impatto”. Così si è tentato di neutralizzare difficoltà e incertezze (sempre contestuali e contingenti) grazie a procedure standard, che si prestano a usi rituali e accomodanti, secondo le logiche tipiche della controllo burocratico e del formalismo giuridico. Tanto generici e scontati sono questi esercizi che è altamente improbabile che le loro conclusioni possano mettere a rischio progetti maturi, sostenuti da interessi forti. Non abbiamo bisogno di metodologie standard ed ex post, ma di indagini perspicaci e rigorose nel corso della generazione dei progetti (nel senso della “policy inquiry” che si ispira al pragmatismo critico: Regonini, 2001). Per cercare di anticipare gli effetti collaterali, sono necessarie review mirate di azioni e relazioni nel contesto, strategie e comportamenti di attori emergenti, rischi e possibilità di interesse collettivo. Un insieme di questioni che è difficile assegnare ad ambiti disciplinari distinti e tradizionali. Credo che l’urbanista potrebbe o dovrebbe candidarsi per assumere queste responsabilità.


Il progetto non è uno stato finale. Un’idea scontata dopo le considerazioni precedenti? E’ ovvio che l’alternativa alle concezioni del “progetto urbanistico” come suggestione forse sofisticata, ma troppo vaga in termini di scelte, strumenti ed azioni, non può essere un ritorno alle pretese moderniste – più ideologiche che reali - di disegnare una soluzione definitiva dei problemi. Fra questi due estremi, però, si apre una terra di mezzo densa di sfide e di responsabilità. Due questioni, almeno, meritano di essere segnalate. La prima riguarda i temi della “implementazione”, che sono stati al centro dell’attenzione disciplinare negli ultimi decenni del ‘900, ma da qualche tempo sembrano essere indebitamente ignorati o sottovalutati. Non si tratta di questioni meramente gestionali: fin dagli studi pioneristici di Aaron Wildavsky negli anni ’70, dovrebbe essere chiaro che entrano in gioco concezioni diverse del processo decisionale e delle sue forme di razionalità. Le differenze sono radicali fra chi sostiene che l’implementazione sia solo il procedimento esecutivo, per quanto possibile fedele ed efficiente, di un disegno prestabilito e indiscutibile; e chi invece, seguendo Wildavsky, intende l’attuazione come una fase generativa, nel corso della quale obiettivi, strumenti e soluzioni progettuali possono essere rivisti e legittimamente messi a punto sulla base di dinamiche del contesto, interazioni strategiche e processi di apprendimento (Regonini, 2001; Hill e Hupe, 2002; Palermo, 2009). Grandi trasformazioni urbane, sulla scena internazionale, documentano chiaramente l’importanza di questi requisiti. Sembra invece incredibile in molte esperienze italiane (incluse quelle segnalate nel testo) la grave sottovalutazione del problema: l’implementazione non rispetta l’agenda (con ritardi in molti casi clamorosi); le modifiche del progetto sono spesso rilevanti, purtroppo quasi sempre eterodirette (da forze o fattori esterni) e non giustificate da verifiche adeguate delle ragioni e delle conseguenze. La cultura architettonica e del design sembra oggi sensibile a certe derive post-moderne: celebra il disegno formale, poco si cura della sua realizzazione nel tempo e nel contesto. Ecco un altro possibile campo di responsabilità per l’urbanistica dei nostri giorni e del futuro. Responsabilità che sarebbe opportuno estendere a un dominio contiguo - il secondo tema che vorrei richiamare all’attenzione. Non è un problema soltanto l’attuazione coerente del grande progetto (processo per sua natura lungo e complesso), ma anche la capacità adattativa di un progetto già realizzato rispetto ai cambiamenti del contesto, a volte notevoli, inattesi e probabilmente imprevedibili. Questo è il tema della “resilienza” che ha assunto rilievo nel dibattito disciplinare degli ultimi anni, in relazione a emergenze possibili di natura ambientale forse più che funzionale (Walker e Salt, 2006; Graeme, 2011; Otto-Zimmermann e Balbo, 2012; Erayden e Tasan-Kok, 2013). Come conciliare l’esigenza di costruire un progetto “semplice, ordinato, organico, preciso” con la possibilità di modifiche intenzionalmente adattive? Gregotti ha sempre sostenuto che proprio questi sono i requisiti indispensabili per dare luogo, se e quando sarà necessario, a eventuali eccezioni. Tuttavia, non si può negare che il tema sia complicato e assuma oggi forme poco esplorate. Un’urbanistica responsabile dovrebbe provare a misurarsi con queste difficoltà, per dimostrare se è ancora fondata la sua aspirazione a offrire una visione relazionale e orientata al futuro dei problemi dello sviluppo urbano.


6. Scenari

Formulare previsioni sulle sorti future dell’urbanistica è tema che appassiona circoli sempre più ristretti, e non consente conclusioni veramente affidabili – se non forse le ipotesi più pessimistiche perché marginalità o irrilevanza vanno crescendo da tempo. Vorrei accogliere, in questo caso, il suggerimento di Secchi: forse è meglio provare a tracciare, soltanto, alcuni scenari tendenziali, in grado di evidenziare alcuni nodi che potrebbero diventare cruciali per il corso futuro degli eventi. Penso a tre tracce.

Continuiamo così. Se non cambia l’inerzia, le sorti mi sembrano segnate. Le pratiche urbanistiche continueranno a produrre, con grande frequenza, delusioni, insuccessi o fallimenti. Continuerà a crescere lo scarto fra intenzioni e strumenti, azioni ed effetti. bisogni emergenti e capacità di risposte disciplinari. Gli ordinamenti formali resteranno in larga parte obsoleti e incongruenti rispetto alle dinamiche sociali e territoriali. Tuttavia, l’area culturale/professionale non avrà la forza di mettersi in discussione, per cercare qualche via di rinnovamento da sottoporre alle prove dell’esperienza. In tal caso, verrà confermato un noto paradosso: l’urbanistica non riuscirà mai a diventare inattuale, come istituzione e pratica ormai marginale rispetto ai processi reali, e dunque da rigenerare. Il suo destino sarà sopravvivere a se stessa - alle sue ambizioni e promesse di lungo periodo - come un mero simulacro che gli interessi più forti, di volta in volta, sapranno usare come leva funzionale a finalità di parte. Senza negare all’urbanista un ruolo formale, ma carico di ipocrisia e, in sostanza, strumentale al successo di interessi costituiti. Si può accettare questa prospettiva oppure provare a rimuoverla (ma sarebbe necessario attivare qualche meccanismo di dissonanza cognitiva!).

Voglia di ortodossia. Di fronte alle difficoltà e alle paure della vita contemporanea, può riemergere la tentazione di affidarsi con nostalgia ai modelli del passato. Nel caso, questo significherebbe ribadire la fiducia (o la fede) in un modello forte di controllo pubblico, che si basa ancora sul “metodo della pianificazione”, su sistemi di regole ancora più rigide e minuziose, e così via. Senza mettere in discussione le capacità e l’efficienza del settore pubblico, la coerenza e adeguatezza dei sistemi regolativi, la qualità dei risultati effettivamente conseguiti? In verità, la cultura urbanistica spesso ha preferito sorvolare su questi problemi (come una tradizione di sinistra che a me pare sempre più immobile e inconcludente). Questa è la via più facile per riaffermare un ruolo, attribuendo al mondo le principali responsabilità per gli esiti insoddisfacenti. Dubito che possa portare a risultati più convincenti di quelli, oggettivamente mediocri, che da tempo stiamo osservando.

Rischiare. L’alternativa è provare a ripensare ruoli, paradigmi e pratiche, senza rinunciare ai valori originari, ma neppure accontentarsi di mere testimonianze. La sfida è riuscire a interpretare quei valori in modi (finalmente) più coerenti ed efficaci, grazie a una migliore capacità d’azione. Se questo è lo scopo, a me pare indispensabile una revisione sostanziale non tanto dei principi, quanto degli strumenti e delle azioni disciplinari. Ho cercato di indicare qualche ipotesi, in relazione ad alcuni temi probabilmente cruciali – contestualismo, discrezionalità, sostenibilità, effetti collaterali, implementazione e resilienza - non sempre inediti, ma da interpretare in modi non scontati. Questo significherebbe rinunciare a presunte certezze per correre il rischio di una pratica più semplice da un punto di vista organizzativo e gestionale (vs. la macchinosità e ridondanza dell’urbanistica burocratica), più responsabile politicamente (perché consapevolmente discrezionale rispetto a certe famiglie di decisioni) e più progettuale: non solo regolativa o visionaria, ma capace di contribuire direttamente alla qualità delle trasformazioni effettive. Immagino le obiezioni: in questo modo si facilita la via al neo-liberismo che si auto-realizza. Ma una società matura dovrebbe possedere gli anti-corpi per coniugare capacità d’azione positiva e immunità dai rischi del primato di interessi partigiani. E una disciplina matura in difficoltà dovrebbe avere la forza per rimettersi in discussione, se ancora aspira a svolgere un ruolo sociale.

 

 

Riferimenti bibliografici

Agamben, G. (1996) Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino: Bollati Boringhieri
Banerjee, T e Loukaitou-Sideris, A. (a cura, 2011) Companion to Urban Design, London: Routledge
Beatley, T. (2011) Biophilic Cities: Integrating Nature into Urban Design and Planning, Washington: Island Press
Beatley, T. (a cura, 2012) Green Cities of Europe. Global Lessons on Green Urbanism, Washington: Island Press
Bianchetti, C. (2011), Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Roma: Donzelli
Bianchetti, C. (2016) Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale, Roma: Donzelli
Branzi, A. (2006) Modernità debole e diffusa: il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Milano: Skira
Brown, L.J., Dixon, D. e Gillham, O. (2013) Urban Design for an Urban Century. Shaping more Livable, Equitable and Resilient Cities, New Jersey: Wiley
Calthorpe, P. (2011) Urbanism in the Age of Climate Change, Washington: Island Press
Chapin, F.S., Kofinas, G.P. e Folke, C. (2011) Principles of Ecosystems Stewardship, Dordrecht, Heidelberg, New York: Springer
Clementi, A. (2002) Interpretazioni di paesaggio, Roma: Meltemi
Clementi, A. (2016) Forme imminenti. Città e innovazione urbana, Trento: LISt Lab, pp.81-92
Christensen, K. (1985) “Coping with Uncertainty in Planning”, Journal of the American Planning Association, 51 (1), 63-73
Cooper, R., Evans, G. e Boyko, C. (2009) Designing Sustainable Cities, Oxford: Blackwell
Corburn, J. (2009) Toward the Healthy City: People, Places and the Politics of Urban Planning, Cambridge MS: The MIT Press
Coyle, S. e Duany, A. (2011) Sustainable and Resilient Communities, New Jersey: Wiley
Dahrendorf, R. (1995) Economic Opportunity, Civil Society and Political Liberty, Copenhagen: Unrisd
Dryzek, J. (2000) Deliberative Democracy and Beyond: Liberals, Critics, Contestations, Oxford: Oxford University Press
Duany, A. e Speck, J. (2010) The Smart Growth Manual, New York: McGraw-Hill
Erayden, A. e Tasan-Kok. (a cura, 2013) Resilience Thinking in Urban Planning, Dordrecht, Heidelberg, New York: Springer
Faludi, A. (2010) Cohesion, Coherence, Cooperation. European Spatial Planning Coming of Age, London: Routledge
Ferraro, G. (1990) La città dell’incertezza e la retorica del piano, Milano: FrancoAngeli
Flannery, J.A. e Smith, K. M. (2011) Eco-Urban Design, Heidelberg, Berlin, New York: Springer
Graeme S. (2011) Cumming Spatial Resilience in Social-Ecological Systems, Heidelberg, Berlin, New York: Springer
Gregotti, V. (1966) Il territorio dell’architettura, Milano: Feltrinelli
Gregotti, V. (1994) Le scarpe di Van Gogh. Modificazioni dell’architettura, Torino: Einaudi
Gregotti, V. (1999) Identità e crisi dell’architettura europea, Torino: Einaudi
Gregotti, V. (2004) L’architettura del realismo critico, Roma-Bari: Laterza
Hannerz, U. (1980) Exploring the City: Inquiries toward an Urban Anthropology, New York: Columbia University Press
Hill, M. e Hupe, P. (2002) Implementing Public Policy: Governance in Theory and Practice, London: Sage
Iyengar, K. (2015) Sustainable Architectural Design, London: Routledge
Koolhaas, R (2006), Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Macerata: Quodlibet (ed.or.2001)
Jenks, C. (2011) The Story of Post-Modernism. Five Decades of the Ironic, Iconic and Critical in Architecture, New Jersey: Wiley
La Cecla, F. (2015) Contro l'urbanistica, Torino: Einaudi
Lanzani, A. (2011) In cammino nel paesaggio. Questioni di geografia e di urbanistica, Roma: Carocci
March, J. (1994) A Primer on Decision-making. How Decisions Happens, New York: Free Press
Marshall, S. (2011) Urban Coding and Planning, London: Routledge
Mazza, L. (2004) Piani, progetti, strategie, Milano: FrancoAngeli
Mintzberg, H. (1994) The Rise and Fall of Strategic Planning, New York: Free Press
Mouffe, C. (2000) The Democratic Paradox, London: Verso
Newman, P., Beatley, T. e Boyer, H. (2009) Resilient Cities. Responding to Peak Oil and Climate Change, Washington: Island Press
Nussbaum, M. (2011) Creating Capabilities. The Human Development Approach, Cambridge MS: Harvard University Press
Otto-Zimmermann, K. e Balbo, A. (a cura, 2012) Resilient Cities, Dordrecht, Heidelberg, New York: Springer
Palermo, P.C. (2001a) Prove di innovazione. Nuove forme ed esperienze di governo del territorio in Italia, Milano: FrancoAngeli
Palermo, P.C. (2001b) “L’ultimo paradigma. Tendenze della pianificazione urbanistica in Italia”, Urbanistica, 116, 207-211
Palermo, P.C. (2009) I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo, Roma: Donzelli
Palermo, P.C. (2011) “Milano-Bigness. Quando la crescita non è sviluppo”, in Arcidiacono. A., Pogliani, L. (a cura) Milano al futuro. Riforma o crisi del governo urbano, Milano: Et Al, 127-156
Palermo, P.C. (2016) “L’urbanistica può essere moderna solo se si mette in discussione”, in Clementi, A. Forme imminenti. Città e innovazione urbana, Trento: LISt Lab, pp.81-92
Palermo, P.C. e Ponzini, D. (2010) Spatial Planning and Urban Development. Critical Perspectives, Heidelberg, Berlin, New York: Springer
Palermo, P.C. e Ponzini, D. (2015) Place-Making and Urban Development. New Challenges for Contemporary Planning and Design, London: Routledge
Panebianco, A. (a cura, 1989) L’analisi della politica, Bologna: il Mulino
Pelling, M. (2011) Adaptation to Climate Change, London: Routledge
Quaroni, L. (1967) La Torre di Babele, Padova: Marsilio
Regonini, G. (2001) Capire le politiche pubbliche, Bologna: il Mulino
Revelli, M. (2003) La politica perduta, Torino: Einaudi
Secchi, B, (1989) Un progetto per l’urbanistica, Torino: Einaudi
Secchi, B. (2000) Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari: Laterza
Secchi, B. (2015) Il futuro si costruisce giorno per giorno. Riflessioni su spazio, società e progetto, Roma: Donzelli
Secchi, B. e Viganò, P. (1998) “Un programma per l’urbanistica”, Urbanistica, 111, 64-77
Shane, D.G. (2011) Urban Design since 1945: A Global Perspective, New Jersey: Wiley
Shaw, R. e Sharma, A. (2011) Climate and Disaster Resilience Cities, Bingley, UK: Emerald
Soja, E.W. (2000) Post-metropolis. Critical Studies of Cities and Regions, London: Verso
Tang, Z. (a cura, 2013) Eco-Cities and Green Communities, New York: Nova Science
Walker, B. e Salt, D. (2006) Resilience Thinking: Sustaining Ecosystems and People in a Changing World, Washington: Island Press
Wong, T.C. e Yuen, B. (a cura, 2011) Eco-city Planning. Policies, Practice and Design, Heidelberg, Berlin, New York: Springer
Yang, Z. (a cura, 2013) Eco-Cities: A Planning Guide, London: Taylor&Francis.