In nome di chi?
Un progetto urbano - il progetto delle cose che “fanno la città” - deve essere inteso come progetto civile. Nell’accezione non soltanto di un progetto che sia offerto alla comunità, alla civitas, ma piuttosto che da questa stessa comunità - o più realisticamente dalla pluralità dei soggetti che, anche confliggendo, devono trovare i modi di una condivisione - possa essere prodotto. In primo luogo attraverso la crescita di una cultura, oggi latitante, che aiuti alla comprensione di presenti, latenti o desiderabili valori urbani e sia in grado di esprimere una domanda di architettura – una domanda di qualità urbana – oggi assente.
E’ la capacità immaginativa che può essere dispiegata nella costruzione del progetto urbano – nel suo compito di rendere possibile un’attribuzione di senso ai diversi materiali dell’esistente per costruire luoghi, nella tensione incessante tra cosmopolitismo e radicamento – che può riammettere l’architettura nel processo di trasformazione della città, facendone un elemento essenziale per quella strategia del consenso, attraverso la negoziazione, che deve sostituire le modalità lineari-impositive delle tradizionali strumentazioni e procedure di governo dei territori urbani. In questa prospettiva muta il senso stesso del progetto (e il compito del progettista), non più teso primariamente alla realizzazione di un prodotto - per quanto complesso ed esteso, come un territorio urbano o un suo brano – ma componente essenziale della mobilitazione di un insieme di saperi e discipline, che in una aperta investigazione sul futuro accompagnino il percorso delle decisioni sulle trasformazioni della città. Per Forester (1998) i progettisti non devono solo disegnare per produrre, ma anche per espandere la nostra immaginazione di cosa sia possibile nelle nostre città.
Il progetto urbano è quindi uno dei modi di pensare la città. Trasformarla costruendo la sua conoscenza, ma conoscerla pensando la sua trasformazione.
“Penso che il progetto urbano non rappresenta una frontiera, né un luogo intermedio di lavoro: credo che esso costituisca un atteggiamento progettuale, e insieme una necessità di fronte alla realtà del territorio urbano. Un atteggiamento verso la complessità, che strutturalmente si oppone alla separazione per scale della lettura e della proposta” (Macchi Cassia 1999).
In questa accezione ogni progetto non dovrebbe che intendersi urbano - oggi più che nel passato, essendosi rotti i margini della città compatta che si è estesa disordinatamente nei territori, così minando una, relativamente stabile, sua idea condivisa - perché si deve confrontare, a tutte le scale, con una mutevole idea di urbanità i cui valori spaziali e significati devono essere continuamente ricercati e riconosciuti, e rispetto ai quali ogni proposta deve assumersi la responsabilità di qualunque trasformazione indotta. La realtà urbana in movimento da cui e a cui ogni opera deve trarre e donare senso.
Così il progetto non è ridotto a una mera e circoscritta prestazione di servizio, ma ricondotto alla sua essenza di procedimento conoscitivo di un aperto campo problematico di investigazione di cui il progetto stesso, in quanto sintesi di critica e previsione, costituisce il primario strumento a servizio della collettività. Per superare, così, quel distacco tra oggetti e soggetti (Simmel 2003) presente nell’armamentario tradizionale dei progetti urbanistici e architettonici in quanto applicati essenzialmente alle cose; e individuare, invece, le modalità con cui i diversi soggetti possano riconoscere e attribuire senso ad un insieme di spazi in trasformazione, facendoli propri.
Perché si riconnetta l’urbs a una civitas, molecolare e inconsapevole,il progetto di città deve essere più del progetto di un insieme o sistema, anche evolutivo, di manufatti: si deve intendere, appunto, come progetto civile, in tutte le sue possibili declinazioni, in cui la qualità dei risultati è assicurata dalle modalità stesse in cui si realizza il percorso democratico delle scelte, per mezzo di una attivazione del contesto che coincide con una capacitazione delle sue diverse componenti sociali ed economiche, messe in grado di intervenire, consapevoli, nel processo.
Se la città non appare più pensabile come spazio politico unitario, ma piuttosto come “un luogo di divenire e di sperimentazione democratica attraverso gli sforzi dei cittadini stessi” (Clementi 2016; Amin, Thrift, 2005), si deve ridefinire il ruolo che in questa sperimentazione va attribuito al progetto e ai progettisti.
Si tratta, quindi, di mettere al centro di una riflessione teorica sull’architettura della contemporaneità il problema della legittimazione sociale della stessa produzione e ricerca progettuale: una revisione indispensabile di strumentazioni e procedure che consenta di rinegoziare un mandato sociale messo in crisi da mutamenti profondi, sia dalle nuove forme di produzione del progetto, sia da una aumentata distanza tra poteri e saperi, per cui i poteri – e in primo luogo il mercato – non riconoscono più quel ruolo, che, pure, da due secoli, e fino a ieri, era stato, almeno parzialmente, riconosciuto alla professione liberale dell’architetto (III Forum ProArch 2013).
E’ una riflessione che deve muovere dalla considerazione che il progetto della modernità per la città è stato un esperimento incompiuto (Donolo 2016) secondo la nota interpretazione di Habermas (1987) per cui, abbacinato dalla Visione, dall'ossessione del punto-di-vista, il Moderno avrebbe messo in opera una razionalità dimezzata, meramente tecnico-strumentale, incapace di aprirsi alla concretezza "comunicativa" delle forme-di-vita.
Incompiuto soprattutto perché, nel rapporto tra opera finita/processo e tra distanza/partecipazione possiamo riscontrare la differenza più significativa tra pensiero della modernità e le forme che queste due coppie di polarità potrebbero o dovrebbero assumere nella contemporaneità. Esse riguardano il nodo centrale della relazione tra il mondo degli oggetti e i soggetti che lo abitano. E il supposto superamento nella modernità di questa distanza, come veniva letto, ad esempio da Tafuri, va considerato più ipotizzato che realizzato. Infatti il processo e la supposta partecipazione rimanevano circoscritti alla possibilità di intervenire sulle cose per mezzo di una intelligente campionatura di oggetti offerti per il loro ipoteticamente libero montaggio, mentre una reale possibilità di intervento dei soggetti sul senso e sui valori in gioco, sulle strategie generali rimaneva di fatto esclusa; ampliando in questo modo la distanza tra poteri e saperi nel costruire gli ambienti della vita, dove l’azione delle tecniche produce sempre più esiti lontani dalla capacità degli abitanti di comprenderli, così da poter considerare dimora i paesaggi impoveriti che incessantemente si depositano loro intorno.
Testo/contesto
Ogni rivoluzione spaziale, che scandisce sempre più ravvicinati mutamenti profondi dell’abitare, consegna all’architettura il problema di interpretare i cambiamenti del rapporto tra spazio e tempo e di individuare, nei diversi approcci, il ruolo relativo di opere (testi) e contesti.
In una delle copertine più note del libro di Giedion, l’opera, una superstrada con il suo svincolo a tromba, si sovrappone alla rossa prospettiva settecentesca di un antico giardino reale - un contesto ideale, rappresentazione di un passato con cui misurarsi. Quell’immagine, con la violenza suggerita nell’invasione e “rottura” della prospettiva centrale e con la scelta di non mostrare un’ architettura, ma una strada, costringeva a cogliere con lo sguardo una rivoluzione in corso. Una rivoluzione che riguardava il motore fondamentale della trasformazione del rapporto tra abitante e realtà: i suoi modi di percorrere il mondo e di scoprire le nuove dimensioni dello spazio/tempo anche con la velocità dell’automobile. Era la muscolare rappresentazione della potenza di una tecnica capace di disegnare un diverso futuro e di occuparlo, come poteva occupare uno spazio interamente reso disponibile, anche negandone il passato( Barbieri 2016).
Di fronte a quella rivoluzione spaziale, indotta dalle innovazioni dell’industria, l’architettura moderna si proponeva di fare della tecnica un proprio strumento (Galimberti 1999) assumendo gli stessi materiali costitutivi e lo stesso processo produttivo – l’universo della precisione tecnologica e i suoi moltiplicati esiti- come i fondamentali generatori di un nuovo statuto e sentimento delle forme e della stessa città; la fiducia era di poter tenere insieme, in un unitario e lineare processo di scelte e azioni, le indispensabili innovazioni nella realizzazione di opere ( il testo) tese a produrre un inedito contesto spaziale – sciolto dal passato - da offrire al nuovo abitante della modernità. Così nel progetto urbano moderno, abbandonata la città compatta, le diverse stereometrie degli edifici, liberate dalla costrizione della strada-corridoio, si disponevano a colonizzare il territorio - non materiale o componente, ma puro supporto della costruzione - secondo le contrapposte poetiche della rigorista nuova oggettività o della plastica modellazione espressionista. E’ l’immagine chiave della modernità, come impositiva arte urbana che ordina e produce - traducendo in forma le scoperte della tecnica, in opposizione al caos della metropoli spontanea, in una serrata alternanza di pieni e vuoti –un contesto, insieme sociale e spaziale, per sostituire la città esistente con una città “razionale” (Corboz 1998).
La costruzione di questo nuovo contesto, pur con straordinari esempi di qualità, nella produzione ordinaria della città è fallita, lasciando – letteralmente – sul terreno, i resti approssimativi e spesso rudimentali di un progetto cui è stata tolta la spinta utopica ed etica, con i guasti notevoli provocati dall’uso maldestro delle stesse idee guida del moderno: una razionalizzazione del funzionamento urbano ridotta allo spezzettamento dello zoning; una ricerca di rigore e sincerità della costruzione tradotta in utilitaristiche semplificazioni per sfuggire all’impegno di una regia poetica di forme in cui gli abitanti (i soggetti) potessero riconoscersi e di cui appropriarsi.
E’ questo il nodo problematico - l’interpretazione da dare al dittico testo-contesto - di un confronto, in Italia, in cui, a partire dagli anni cinquanta del ‘900, ci si è misurati dapprima sui temi del linguaggio: la ricerca di una lingua che, attraverso la riformulazione di valori raccolti nelle tradizioni nazionali potesse rimettere in moto e collegare a sentimenti comuni una eredità di un Moderno irrigidito in stilemi iterati e non più movimento. Era questa una meditata ritirata dalla lingua dell’astrazione, considerata lontana da un immaginario comprensibile comunemente e perciò poco adatta al momento problematico di un dopoguerra in cui rifondare, anche per lo spazio dell’abitare, una base di significati e di valori condivisi.
Successivamente, negli anni sessanta e settanta una generazione di architetti – Aymonino, Rossi, Grassi, Canella, Gregotti, Secchi, Muratori, Quaroni, Gabetti e Isola– con vari approcci e modalità, ha posto con chiarezza il contesto stesso – quindi, in quegli anni, essenzialmente la città compatta– come oggetto fondamentale della ricerca progettuale. La città come grande manufatto: la complessa e mobile architettura che ogni progetto, a tutte le scale, deve continuamente interpretare. E’ centrale in quegli anni un’interpretazione del rapporto tra testo e contesto - tra architettura e città – che si esprimeva nella ricerca delle ragioni ”urbane” delle scelte: la affermazione di una relazione indispensabile tra analisi urbana e progetto. L’analisi stessa non come premessa, ma come fase continuamente interagente del percorso progettuale. Un’idea di progetto da collocare nel flusso della storia, nella continuità auspicata della costruzione della città, reinterpretando e rinnovando quanto ereditato, attraverso lo studio dei rapporti tra tipologia e morfologia urbana. In modo che, con il riferimento al tipo, si potesse individuare il legame con la memoria e l’immaginario collettivo. Superando in questo modo il possibile distacco tra gli oggetti che formano la città e i soggetti ai quali sono offerti come dimora. Attraverso un’idea aperta di tipo si doveva esplorare l’adeguatezza del progetto rispetto ai temi urbani, concependo la stessa forma come una conoscenza da sviluppare lungo l’intero percorso del progetto e non come suo fine. Attuando in questo modo il superamento di una visione metrica del controllo delle trasformazioni urbane, da affidare invece all’individuazione di temi urbani con i quali le proposte tipomorfologiche si sarebbero confrontate. S’ intendeva così assicurare un controllabile movimento alla trasformazione e crescita dei contesti urbani, in cui il rapporto problematico tra oggetti e soggetti, tra soluzioni e desideri, era mediato dalla stessa utilizzazione critica ed operativa della storia.
Tuttavia l’incontro, attraverso l’analisi tipomorfologica, con un immaginario condiviso entra in crisi – anche per i rigidi schematismi con cui veniva tradotta in azione progettuale - con l’irrompere sulla scena urbana di un altro abitante, un individuo metropolitano, non più collettività, che si muove nei flussi immateriali ed immateriali che attraversano e modificano il suo sentimento dei luoghi, modellando immaginari spaziali slegati da contesti antichi e nuovi. Si rompe nella contemporaneità la stabilità delle appartenenze identitarie tra abitante e luogo, che si trasformano piuttosto in un’appartenenza molteplice: si genera così una moltiplicazione di materiali che non sostituiscono, ma dilatano il vocabolario a disposizione dell’architetto.
In questa condizione non è più sufficiente riconoscere il pur necessario fondamento urbano delle scelte progettuali, ma occorre muoversi nella consapevolezza che ogni nuova opera deve essere chiamata a concorrere alla realizzazione di una spazialità urbana anche inedita, secondo una visione di futuro tutta da elaborare, a partire da condizioni profondamente mutate che richiedono una ridefinizione dell’idea stessa di città e di spazio: la individuazione cioè di nuovi paradigmi per il progetto di città.
Quali sono i caratteri distintivi dell’attuale rivoluzione spaziale?
Si può pensare anche qui alla combinazione di due immagini: il globo terrestre di cui sia reso percepibile l’inviluppo vorticoso dei flussi e delle reti, materiali e immateriali, - è nel 1969 che la terra si può vedere dalla luna come una sfera mentre, poco dopo, internet la “rimpiccolisce” - e un luogo, una porzione di terra in cui si possa leggere la compresenza di natura ed artificio, espressione dei cicli continui del mutamento nello svolgersi non lineare del tempo.
Si suggerisce così una questione urbana centrale della contemporaneità: come abitare nello stesso tempo un luogo e il mondo? Come conciliare cosmopolitismo e radicamento ? (Tagliagambe 2013). Una questione ricorrente, che si presenta oggi con la tragica forza di più diffusi rischi globali - il clima, l’economia, le guerre, il terrorismo, le migrazioni- che richiedono necessariamente una combinazione di strategie condivise globalmente e di risposte locali. La società molecolare, attraverso la percezione di questo “futuro a rischio”, è costretta a uscire dai propri ripari individuali per partecipare ai percorsi di trasformazione dell’abitare in cui mobilitare e mettere in opera, com’è indispensabile, i contesti per rispondere ad una generale domanda di protezione e prevenzione. È l’auspicato passaggio dalla società globale del rischio a una società cosmopolita (Beck 2003), chiamata a costruire gli spazi del proprio abitare anche attraverso il confronto, la commistione e la possibile integrazione che si producono nei cortocircuiti tra l’“altrove”, le diverse culture e i luoghi, a partire dall’inevitabile, anche se problematico, incontro con l’altro che, secondo la visione kantiana, proprio la terra in quanto sfera impone.
Il progetto di città deve perciò registrare la necessità di doversi applicare a una nuova e più ambigua -anche se non inedita- dimensione territoriale dei fenomeni urbani, fino a dover considerare, oggi, il problematico portato di una avvenuta costruzione del mondo: un pianeta metropolitano.
Si abita così nello stesso tempo il mondo e un luogo: si vive nella dimensione mobile di una geocittà. Un termine polisenso che suggerisce nello stesso tempo una condizione - essere, per certi versi, l’intero globo una città, costantemente interconnessa - ed una opportunità, offerta dalla sua stessa forma e struttura - gli effetti della sua imperfetta sfericità e il pianeta come materia/terra operabile nelle sue diverse accezioni( Barbieri 2015).
È questo lo spazio problematico che si percorre nella geocittà. Nel doppio significato di questo termine - l’abitare nelle reti: nello stesso tempo la sfera terrestre e il proprio suolo, l’altrove e il qui, l’orizzontale e il verticale - è già dichiarata una condizione che implica il movimento e la percezione, in inconsapevoli montaggi, di uno spazio composto da più dimensioni eterogenee.
Si abita in una poligamia urbana, anche quando ci diciamo abitanti di un’unica città.
Di fronte al movimento incessante che intesse e agita il mondo, i saperi dell’architettura si devono applicare alla mobile articolazione di un campo relazionale in cui è dato un ruolo, ma non una fissa gerarchia, alle parti, con la rinuncia al controllo prospettico e univoco di uno spazio non più euclideo. Si vive in un territorio de-territorializzato, in una dimensione di fatto anti-spaziale (Cacciari, 2008), che perché possa essere davvero “abitato” implica, però, l’identificazione di nuovi possibili luoghi metropolitani. Si aprono, in questo modo,prospettive alternative all’apparentemente inarrestabile processo di urbanizzazione della terra attraverso la sola modalità di concentrazione e densificazione dell’artificio nelle ipercittà. E’, invece, il territorio stesso, in base ad ipotesi di natura di matrice ecologista (Odum,1971) fondate su una valorizzazione delle risorse “locali”, che si potrebbe offrire a nuove formule dell’abitare, come nella idea di bioregione urbana policentrica di Magnaghi (2010) o nell’Agronica di Branzi, che sembrano poter avverare a distanza di tempo – proprio per i mezzi consentiti dallo sviluppo delle reti e del mondo digitale – le visioni utopiche della Broadacre di Wright (1934) o del "The New Regional Pattern" (1945-49) di Hilberseimer.
Nel campo più ampio dei materiali del progetto urbano appaiono, quindi, destinate a sovvertirsi le gerarchie tradizionali del rapporto tra testo e contesto: è lo “sfondo” – le geografie; i suoli; Gea la veste della terra che si annuncia come forma e Cton il mondo sotterraneo che nutre e assicura il ricambio e la vita – che diviene protagonista di un progetto di città che le opere devono assecondare. Da qui il successo, anche se spesso superficiale e ingannevole, dell’adozione del paesaggio come riferimento onnicomprensivo del progetto urbano contemporaneo. Con un rischio di estetizzazione che, ancora una volta, potrebbe oscurare i contenuti più significativi delle ricerche sullo stesso paesaggio da intendere come entità in movimento e da riconoscere nelle attribuzioni di senso che gli vengono riconosciute dagli abitanti. Il movimento di opere e contesti, quindi, - da considerare, come sosteneva Habraken, come qualcosa che si trasforma continuamente, assomigliando sempre più ad un organismo vivente piuttosto che a un artefatto – pone il progettista di fronte al compito, a qualunque scala, di collocare le decisioni all’interno di un percorso argomentativo, il cui esito non si misura più con la pura astanza dell’oggetto prodotto qualunque sia la sua dimensione.
Si tratta piuttosto di comprendere come l’architettura possa offrire strumenti perché il percorso negoziale di costruzione della città, che ha ormai sostituito, avendone registrato l’inefficacia, quello lineare-autoritativo ereditato dalla modernità, possa consentire ai diversi attori, pubblici e privati, di intervenire nel processo delle trasformazioni urbane. Questo passaggio, nel ruolo del progetto, da esclusiva prefigurazione di oggetti a indispensabile supporto alle decisioni, si lega al profondo mutamento di paradigmi che ha investito il pensiero scientifico e filosofico, evidenziando la crisi del determinismo: dalle geometrie frattali, alle teorie delle catastrofi, ai movimenti molecolari e ai quanti. Si genera una visione di universo, macro e micro, instabile, mobile e frammentario; un sistema relazionale di flussi ed energie non più prevedibile, secondo la metafora macchinista, nelle sue trasformazioni.
E’ una nuova condizione e un nuovo compito per l’architettura che chiama in causa, in modi diversi dal passato, il ruolo da conferire all’esercizio della forma e all’utilizzazione strategica del tempo lungo il processo.
Forme tentative
Tentative in inglese significa provvisorio, incerto, dubbioso. Di progetto tentativo parlava De Carlo nel 1995 non solo perché la realizzazione di un’architettura si ottiene in un percorso, attraverso più prove e verifiche, in cui la qualità dei risultati dipende dalle modalità aperte e da condividere con cui si prendono le decisioni, ma anche perché il progetto deve “mettere in tentazione la situazione con la quale si confronta”. Una tentazione indispensabile per attivare i contesti (la società, gli abitanti, i diversi attori) e spingerli, attraverso la proposta di forme alternative alla produzione banale ed automatica della città, ad una interrogazione che costringa i diversi soggetti a prendere posizione e ad effettuare consapevolmente una scelta.
E’ l’individuazione della forma, la proiezione al futuro che annuncia, il mezzo principale che consente questo percorso da condividere. Anzi, proprio perché la forma è lo strumento e non solo il fine di un processo argomentativo - come quella che, invece, alimentata da poetiche personali, corrisponde al modello autoriale ancora diffuso – diviene più rilevante la necessità di precisarne i peculiari caratteri. Forme che devono lasciare aperti vari gradi di scelta nell’itinerario delle decisioni. Forme insieme esatte e adattive. Per produrre immaginari che servano ad attivare le qualità potenziali della stessa essenza ambigua della realtà contemporanea, queste devono adottare una strategia duale, che coniughi precisione e indeterminatezza per proiettare nella mescolanza del tempo una previsione possibile, che si deve poter avverare in modi diversi, anche non guidata dall’alto, in forma spontanea e autorganizzata. Sono forme di cui va riconosciuto il ruolo strategico, perché si propongono come problemi aperti: figure che utilizzano soluzioni per presentare problemi. Perché solo così lo spazio della città diviene “più pubblico”, non perché elargito dall’alto, ma perché rappresenta la risposta a un problema da condividere su cui ci si sia interrogati e la cui soluzione sia stata desiderata così da realizzare una efficace dinamica del rapporto tra spazi e mutamento dei paesaggi sociali che possa esplicitarsi come esercizio di democrazia urbana. Un’idea di nuovo spazio pubblico reso praticabile da un tempo pubblico delle decisioni.
E’ in questa direzione che occorre approfondire, dal punto di vista del mutamento dei paradigmi del progetto, il rapporto tra opera e contesto, considerati gli ambigui connotati dello spazio-tempo della contemporaneità: cosa significa passare da un orizzonte di conciliazione e compiutezza, proprio del pensiero moderno, ad una concezione relazionale, sistemica e, strutturalmente instabile in cui si muovono testi e contesti, nella trasformazione della città e dei paesaggi? E’ questa una concezione “dinamica, inclusiva, aperta”, ma si differenzia da quella organicista oppure olistica poiché alla convinzione che il tutto sia più della somma delle parti, aggiunge la persuasione che la concorrenza di più fattori nella determinazione di un fenomeno o nell’elaborazione di una concezione non implichi la conciliazione e la sintesi. L’irriducibilità dunque dei fattori a unità è garanzia dello sviluppo, l’incertezza garanzia della ricerca, l’instabilità garanzia della possibilità. L’autentica comprensione delle cose consiste nel tenere insieme e non nella riduzione all’unità”(Secchi 2010).
Quali figure - proprio in virtù della loro forma indeterminata o incompleta, ma positivamente definitanell’indicare, in una generale visione,le strategie di relazione tra i diversi materiali urbani - devono avviare i processi di trasformazione dei territori urbani? Nella tradizione del progetto lineare e scalare di città la forma è l’esito dell’applicazione di una norma, mentre in un percorso dialogico e circolare la forma serve a individuare la norma per poi, in altra accezione, tornare ad indirizzare le azioni di trasformazione. Si tratta di attivare una progettazione “per temi” delle trasformazioni, dove il tema rappresenta il “navigatore” di riferimento e il tramite del “patto” tra autori e collettività. Temi che indirizzano all’idea di città da condividere e rappresentano, quindi, il necessario presupposto - il primo layer - di ulteriori passaggi di un processo multiscalare e polimaterico con cui si produce la città. Nella città del globo e del luogo si potranno condividere i seguenti temi che possono essere toccati in varie possibili scale d’intervento :
- città pubblica. Il permeare la città di nuovo spazio pubblico, in antiche e nuove orditure spaziali, attraverso una più consapevole negoziazione, e anche ibridazione, tra pubblico e privato, è lo strumento per arginare i problemi derivanti dai molteplici rischi, come, ad esempio, per i mutamenti climatici, nei loro bordi fragili, in città come Anversa, Malmö, Rotterdam. Ma anche per rompere l’organizzazione per recinti giustapposti della città segregata. Con la consapevolezza che lo spazio è pubblico non perché elargito dall’alto, ma perché, nel confronto e nel conflitto, deve essere affermato, condiviso, conquistato.
- porosità. Il progetto urbano deve confrontarsi con l’eredità del principio mediterraneo. Vuol dire rispondere a una domanda, a volte inconsapevole, di un più stretto legame tra corpo, movimento, vita individuale e collettiva e organizzazione dello spazio. Una risposta che ricompare oggi nella sperimentazione di una tridimensionalità dei suoli, nella loro attivazione in nuovi rapporti con i pieni, nella ricerca di dispositivi ibridi e aperti e di un continuo respiro che animi e attraversi una pulsante città cellulare, come nella visione anticipatrice della Londra di Abercrombie.
Come afferma Clementi ( 2016): “la natura della città tende ad assumere i contorni di una struttura aperta e relativamente indeterminata, delimitata da confini porosi e permeabili tra le diverse parti, strutturata da forme incomplete e adattive, e tradotta in narrative irrisolte, che rendono imprevedibili le conclusioni future”.
- internità. La consapevolezza di abitare un globocomporta un mutamento fondamentale del rapporto tra esterno e interno. Ogni parte diviene, di volta in volta, in qualche modo interna nella continua sequenza di materiali spaziali – vuoti e pieni - che avvolgono il mondo, in una variegata tessitura ininterrotta. Vivere su una sfera avvicina non solo, come affermava Kant, inesorabilmente ogni abitante all’altro, ma genera un’incessante concatenazione degli spazi, perché il mondo non è più una tavola di cui si scorga un centro e una periferia, un limite. E’ così che occorre ripensare le periferie: non più ai margini,ma, irrevocabilmente,componenti interne ed essenziali dei nuovi paesaggi urbani. Il che comporta una ridefinizione del concetto di “intermedio”. L’individuazione di una scala intermedia era stato un tema ricorrente nel dibattito sul progetto urbano già a partire dal ’29 con il congresso del CIAM dedicato ai quartieri residenziali e trova una sua sistemazione teorica, rispetto al problema complessivo delle trasformazioni urbane, nella concezione rossiana di una “città per parti” che, in tempi più vicini, si è tradotta nell’idea di isole urbane autosufficienti come nella città-arcipelago o nella cluster-city. Un’ipotesi per certi versi tranquillizzante ed anche perseguita, nel senso meno nobile, nelle realizzazioni delle gated community da parte di developer in tutto il mondo secondo un approccio che, anche nelle scale più vaste del Landscape Urbanism, tende a fornire alle architetture e ai programmi di valorizzazione urbana una visione che attenua le atopie e le discontinuità. Ma, come abbiamo visto, lo spazio contemporaneo è esperito come montaggio simultaneo di scale dimensionali diverse e l’ambito di riferimento del progetto urbano deve individuare effetti territoriali oltre l’area d’intervento. Il progetto urbano, quindi, pur applicandosi a una porzione della città, deve contemplare più possibili azioni a scale dimensionali diverse, in coerenza con una visione d’insieme che deve applicarsi a un campo eterogeneo e anche conflittuale di forze. “Intermedio”, allora, nella concatenazione di “internità” sconnesse che leggiamo nell’organizzazione spaziale del mondo contemporaneo, si deve forse intendere nel senso indicato da Sennet (2007), della creazione di territori di transizione, non soltanto nella distanza tra diverse polarità, ma anche tra diversi caratteri o stati della “materia urbana”: denso, rarefatto; artificiale, naturale; pubblico, privato. Ciò significa individuare “appartenenze” e “soglie” per realizzare un’Open city che utilizzatre fondamentali elementi sistematici: territori di passaggio; una forma incompleta; narrazioni evolutive.
- coltivare la città. E’ mutato il rapporto con la natura: non più “luogo altro”, da contemplare nell’esercizio della distanza o da utilizzare come il luogo separato della produzione. È la stessa natura un necessario materiale costitutivo della città. Anche la natura diviene in qualche modo un interno che permea le nuove forme insediative, accompagnando la trasformazione in città soprattutto di quelle parti - le vecchie periferie, il periurbano - dove predomina un patrimonio di vuoti indefiniti da tramutare in un potente motore di qualificazione urbana. Ma coltivare la città vuol dire anche immaginarne la trasformazione secondo una metafora alternativa a quella macchinista della modernità. Una metafora che propone un diverso immaginario, dove prevale la percezione del tempo e dei molteplici cicli di nascita, morte e rigenerazione anche delle componenti più “dure” delle strutture urbane. Il progetto della città non può che essere il progetto programmaticamente adattivo dei suoi diversi cicli che ne assicurino un metabolismo efficiente. I cicli più lenti delle demolizioni e delle costruzioni dell’hardware urbano e quelli dei diversi flussi che ne rendono possibile la vita: mobilità, acque, energia, rifiuti. E’ una strategia fondata su un principio di continua trasformazione dei materiali che via via si depositano. Con un uso parsimonioso della forma - come nelle esperienze olandesi dei polder - in cui si promuove una modalità iterata ed ampliabile che non nasce dalla forma, ma la produce.
Con tali obiettivi si possono promuovere politiche urbane ispirate alla concezione di “un grande progetto di piccole opere”. Una modalità che integra il respiro ampio di una indispensabile visione di futuro, secondo una strategia da condividere, con una tattica che si misuri con le pulviscolari condizioni ed opportunità di arcipelaghi contestuali frammentati e in movimento. Interpretando così lo slogan del Tactical Urbanism – short term action/ long term change - in cui architetti, ma anche abitanti, mettono in atto azioni di intervento nell’esistente che, rivelando un’alternativa, possono produrre effetti di trasformazione a lungo termine: anche gli interventi minimi dei pop-up cafe, dei micro-mixing, le open street, il de-fencing, il chair bombing. Sono azioni di conflitto con gli assetti stabiliti in cui la figura realizzata, anche in un suo frammento, rivela una diversa prospettiva di vita dei luoghi e può innescare un nuovo immaginario urbano. La nuova Barcellona delle multirambla produrrà delle open street, aumentando il passo del sistema delle percorrenze carrabili nel reticolo di Cerdà e ottenendo così una rete di interne strade verdi pedonalizzate.
In questo modo si sperimentano soluzioni replicabili in modo variato nei diversi contesti. Alternative che possono mutare e arricchirsi con i contributi dei diversi realizzatori. È la filosofia open source in cui la qualità dei risultati deriva dalla possibilità di costruire oggetti, edifici, spazi, utilizzando le enormi opportunità offerte dal WEB e dai diversi dispositivi del mondo digitale. Secondo de Kerckhove «La mappa geopolitica del mondo intero è stata cambiata dall’arrivo sulla scena, attraverso la Rete, di una nuova classe politica, di un nuovo attore: la “massa interattiva”. Non è più la massa anonima e amorfa del passato, quella della “Silent Majority”, della maggioranza silenziosa. Ora la maggioranza non tace più. (…) È una massa “connettiva”, non banalmente “collettiva”».
E’ di questi giorni la proposta della discussa sindaca di Roma di realizzare forme di democrazia diretta con la possibilità di petizioni on line, e di sperimentare il voto elettronico per i referendum comunali. Non importa che molti la considerino – e forse lo è – semplicemente uno spot elettorale. Risponde tuttavia a un bisogno latente e accende una possibilità. Purché si sia chiamati ad esprimersi perché messi in tentazione da progetti – di varia entità e dimensione – che ci parlino coraggiosamente del futuro della città e di come le forme che l’architettura promette possano rendere più desiderabile abitare un tempo che, invece, l’attualità – che è l’opposto dell’esperienza del presente; è esperienza della sua mancanza – incessantemente ci sottrae.
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