L’incontro tra un architetto e un filosofo. Un’occasione che diventa momento di riflessione sul senso del progettare e del costruire nella contemporaneità: scambi di vedute sulle finalità dell’architettura, reinterpretazioni dei significati dell’abitare, esempi paradigmatici di realizzazioni che hanno rivoluzionato la cultura del progetto negli ultimi decenni, segnando il progressivo superamento dell’architettura della modernità.
Con una prefazione di Pierluigi Nicolin e una postfazione di Gianni Vattimo, il volume Abitare il costruito. Riflessioni di architettura e filosofia sul tempo presente – degli autori Roberto Bianchi, architetto ed Enrico Garlaschelli, docente di filosofia – riassume gli esiti di questa riflessione come un’indagine sulle nuove forme di sperimentazione architettonica.
Lo fa attraverso la pratica del dialogo. Un dialogo che in prima battuta è articolato intorno alle questioni emergenti dal confronto tra le discipline filosofiche e quelle tecnico-progettuali e che, progressivamente, s’indirizza ad avviare un necessario e più ampio confronto aperto con le componenti sociali, economiche e culturali che costituiscono il terreno di coltura di qualsiasi progetto.
In questo dialogo, l’architettura sembra perdere le sue connotazioni consolidate nei secoli dalla classicità alla modernità: la gestualità segnica creatrice tramonta per una tettonica al servizio della società, la consistenza materica e volumetrica delle tecniche cede il passo ai ritagli di superfici e ai vuoti residuali urbani e del territorio, la fissità degli esiti del progetto scompare di fronte a un perenne processo di de-territorializzazione che scaturisce da nuove, impreviste e sempre variabili esigenze e pratiche dell’abitare.
Se le dimensioni quantitative e stabili dell’architettura decadono, decade anche il significato stesso del costruire “macchinico” che, dal mito della Torre di Babele, si è reiterato nell’evoluzione storica dell’architettura come atto tecnico forte sul territorio, da tramandare a posteri.
L’edificio è e certamente resta una macchina funzionante, ma solo nel senso strutturale e organico delle relazioni funzionali e di portanza, come nella costruzione gotica.
Ma secondo la visione proposta dagli autori, è altrettanto certo che il futuro del progetto di architettura è destinato a perdere la sua volontà di dominio sulla natura, sugli uomini con le loro abitudini e le loro città.
In quella che gli autori definiscono una sorta di zeviano “grado zero”, l’architettura torna così ad assumere un'identità di organismo costruttivo, ma nel senso dell’esito di assemblaggi e riconfigurazioni che conseguono la «condizione presente di ambiguità che caratterizza l’incerto stato della materialità irreversibilmente legata al momento storico che stiamo attraversando».
Su questo passaggio s’innesta la contrapposizione tutta contemporanea tra l’architetto progettista, autore di macchine babeliche immobili (pensate e fatte per sempre) e l’architetto costruttore che abita, prima ancora di progettare e assume il ruolo del bricoleur. Le architetture di questa nuova condizione dell’architetto bricoleur, non aspirano a costituirsi come eredità iconografiche, ma a stabilire dialoghi in continua evoluzione con il contesto, gli abitanti, le tecniche costruttive.
La scelta dei materiali costruttivi, il recupero e il riuso della materia dell’architettura del passato, l’impiego di tecniche per risolvere i problemi quotidiani del vivere, le innovazioni provenienti dal mondo dell’informatica entrano certamente a far parte di questo nuovo dialogo, ma a individuare ogni volta inedite forme di sperimentazione costruttiva.
Lavorando sui vuoti, sul riciclo, sull’autocostruzione, sulla reversibilità, sull’adattabilità spaziale, sulla flessibilità delle soluzioni tecniche, per stabilire gradi di appropriatezza del progetto in un’architettura che vive, ma non per sempre.
In questo senso, le parole introduttive di Nicolin anticipano l’idea di architettura che gli autori intendono porre al centro delle loro riflessioni: un’architettura che sia espressione delle modalità con cui la specie umana “abita” il mondo, «in quanto essere vivente».
E con questo ritorno della centralità dell’abitare, nella sua provocatoria postfazione, Vattimo arriva a rafforzare l’idea di un’architettura che cambia, perché cambiate la sua ragion d’essere e le sue responsabilità ambientali, civili e sociali, disvelando un futuro per il progettare, più vicino alla sperimentazione ingegneristica (nel senso del ritorno all’ingegnosità inventiva umana) che valuta l’utilità delle tecniche al servizio delle persone concrete, scongiurando così la deriva verso un ritorno a una progettazione assoluta.