Lo stretto rapporto esistente tra la pratica del viaggio e la percezione del paesaggio è stato da lungo tempo all’origine di opere letterarie che hanno sollecitato la nostra immaginazione descrivendoci i caratteri naturali, storico-archeologici, architettonici, monumentali e culturali di territori vicini o di aree geografiche più recondite e lontane.
Nella cultura occidentale il racconto di viaggio ha conservato sempre una sua essenziale natura rigorosamente ‘tendenziosa’ nella narrazione delle qualità dei paesaggi attraversati: il punto di vista dell’autore fissa le presenze benefiche nel paesaggio, le perigliosità ed eventualmente le tracce residuali di un passato più o meno remoto.
Anche nelle opere in cui si raccontano i paesaggi italiani, il senso del viaggio, inteso come esplorazione, fuga, evasione, avventura, conoscenza o confronto/scontro con le alterità, ha assunto sempre un valore documentale centrale nell’indirizzo educativo e formativo della collettività dei lettori. Dal viaggio eroico-mitologico di Enea, al Viaggio in Italia di Goethe, per arrivare alle descrizioni degli Atlanti del Touring Club o agli ultimi viaggi di transumanza narrati da d’Annunzio, le emozioni dell’autore – fra le tante possibili – diventano comunque modelli quasi assoluti per la godibilità delle bellezze dei luoghi. In questo senso, sono spesso all’origine di specifiche ‘istantanee’ che hanno alimentato e ancora oggi continuano a diffondere suggestioni per la fruizione turistica di un territorio anche se a volte, accidentalmente, quelle stesse immagini non sono più reali o presenti.
Fatta eccezione per le trattazioni contenute nella letteratura scientifica di settore, sulla perdita della qualità del paesaggio sono state allora soprattutto le narrazioni cinematografiche a dare testimonianza di un progressivo aumentare di assenze nel territorio o dimenticanze dei suoi valori. Nel caso italiano, vengono allora in mente le esperienze della stagione neo-realista e le descrizioni pasoliniane.
Il racconto della perdita del paesaggio, quando questa è in gran parte esito di responsabilità civili e politiche è questione scomoda e delicata da trattare. Il viaggio, in questi casi, da regesto delle bellezze del paesaggio diventa denuncia di stili di vita, mezzi e comportamenti che alimentano lo scorretto rapporto tra persone, risorse e territorio.
In questo senso si colloca il recente volume Paesaggio italiano. Viaggio nel paese che dimentica, di Fabrizio Schiaffonati, scegliendo il viaggio, anzi più e diverse metodiche di viaggio, come esperienza per affrontare alcuni nodi cruciali della perdita di senso e dei valori del paesaggio italiano.
Il libro è articolato in una serie di racconti che riescono ad alternare alle suggestioni e ai ricordi personali dell’autore, quegli elementi più obiettivamente riconoscibili come debolezze strutturali, specificamente italiane che determinano un rapporto conflittuale con i temi dell’innovazione.
È importante notare, infatti, come le narrazioni itineranti proposte dall’autore rimandino sempre a un’esperienza del viaggiare centrata sul rapporto con i vari domini della tecnica che ormai ci circondano e che costituiscono per tutti, con o senza la nostra approvazione, quei filtri attraverso i quali si costruiscono le nostre relazioni interattive con il paesaggio che ci circonda.
Ecco allora ricostruirsi davanti agli occhi del lettore l’attraversamento disattento in auto del paesaggio urbano, nell’interminabile ricerca di un parcheggio (chi ne è oggi esente?) che possa ridurre a zero lo spostamento a piedi nella città, anche a costo di sacrificarne i suoi spazi e architetture in nome della sosta. La fuga dalla metropoli, nel caos di un traffico sempre più veloce e canalizzato nelle grandi arterie di comunicazione, tra navigatori digitali, caselli autostradali e autogrill, ormai totalmente avulsi dal contesto paesistico locale. Il ritorno a una possibile esplorazione del territorio e dei suoi paesaggi attraverso la rivalutazione del viaggio in treno, con le sue diverse velocità, infrastrutture, tempistiche e servizi che però permettono ancora di conservare e inventare forme vecchie e nuove di percezione del paesaggio.
Nel bellissimo capitolo dedicato al paesaggio in divenire di Milano, assume una particolare importanza il viaggiare a piedi in città, non nella sua riduzionista declinazione moderna di spostamento, ma come riconquista di un senso del passeggiare, anche per tappe, a riallacciare le trame architettoniche della metropoli lombarda in cui, spesso, i suoi stessi monumenti della modernità o post-modernità sono troppo velocemente archiviati, dimenticati se non sostituiti.
Ma soprattutto emerge il viaggio nei vari paesaggi della penisola, con le sue differenze, i suoi dialetti, la sua grana architettonica fine che avrebbe necessità non di un rifiuto dell’innovazione, ma di una più coraggiosa e matura capacità tecnica in grado di garantirne il trasferimento alle future generazioni, per non continuare a dimenticare.
Il libro ricostruisce quindi attraverso un diario di viaggi, e qui tornano in mente le sequenze cinematografiche più recenti di Moretti o Sorrentino, le trame entro cui ruotano le ragioni della perdurante e progressiva cancellazione dei caratteri e dei luoghi del paesaggio italiano. Intorno a questo ragionamento che in alcuni passaggi ricorda il viaggio di Pirsig in motocicletta nei paesaggi americani, l’autore fa emergere con chiarezza la relazione diretta che esiste tra la perdita dei paesaggi e la perdita della cognizione della qualità; il paese dimentica le sue ricchezze per incuria, disaffezione, scarsa progettualità, inciviltà, isolamento. Un atto coraggioso che mette in vista le responsabilità civiche nell’alimentare una troppo diffusa pratica del dimenticare (principi, regole, criteri, tecniche, pratiche, rituali). Dimenticanze non sempre imputabili ai soli tecnici del progetto, ma che riguardano tutta la società, ormai sempre più dis-educata, del sistema Paese.