Inebriata dalle infinite possibilità concesse dall’attuale sviluppo delle tecnologie, ma al tempo stesso vittima in misura crescente del loro strapotere, l’architettura si sta interrogando sempre più spesso sulle potenzialità e sui limiti di un rapporto da sempre problematico, ma che negli ultimi tempi sembra essersi acuito al punto da sollecitare la formulazione di nuove ipotesi teoriche e operative.
La critica alla dominazione della tecnica per la sua pretesa capacità di realizzare scopi indipendentemente dai fini è stata del resto uno dei temi centrali nella riflessione filosofica della modernità, da Heidegger in poi, ripresa e sviluppata nei nostri anni soprattutto da Severino (Severino, 2009). Oggi la distanza rispetto alla tradizione del moderno appare ormai radicale. Nel passato i fini venivano ricercati nella liberazione dell’uomo dalle condizioni del bisogno, ritrovando in particolare in un corretto rapporto con la natura la chiave di volta del nuovo modo di abitare il mondo. La tecnica era concepita in via subordinata come lo strumento per eccellenza, necessario per mettere in opera l’ambizioso programma di rifondazione radicale delle condizioni di vita nella città e nel territorio.
Nel nostro tempo invece la tecnica sembra essersi ormai completamente emancipata dalla sua originaria strumentalità, ponendosi piuttosto come luogo della razionalità assoluta, dove i principi di funzionalità efficiente e di organizzazione performante guidano l’azione senza lasciare troppo spazio alle interpretazioni del senso e alle emozioni. Tende così a ribaltarsi il rapporto iniziale, e le esigenze dell’uomo sembrano costrette a piegarsi a quelle connaturate all’apparato tecnico-scientifico, il quale da parte sua persegue unicamente il rafforzamento delle proprie capacità di agire nel mondo. Però abbiamo appreso dall’esperienza che la più avanzata razionalità dell’organizzazione tecnica, se deprivata di un qualsiasi senso o finalità riconoscibile al servizio dell’uomo, non può impedire l’irrazionalità dei suoi esiti. A questo riguardo non c’è salvezza possibile: solo una nuova filosofia dell’azione ci potrà condurre a una minore dipendenza dal dominio della tecnica, scontando comunque il paradosso dei possibili rimedi agli effetti perversi di questo dominio (come inquinamento globale, povertà, terrorismo) che saranno resi possibili solo da un ulteriore affinamento delle tecniche stesse.
Riflessioni non dissimili vengono alla mente quando si considera il ruolo delle tecnologie nella costruzione del pensiero moderno sulla sostenibilità. Questo pensiero è rimasto a lungo confinato all’interno delle discipline tecnico-specialistiche e ingegneristiche, le quali si sono progressivamente dotate di strumentazioni operative sempre più efficaci per risolvere i problemi dell’intervento anche indipendentemente dall’architettura e dall’urbanistica. Ribaltando l’assunto iniziale della modernità, che aveva incorporato la tecnologia all’interno di una rivoluzione più complessiva dei linguaggi e delle forme dell’architettura, oggi accade sempre più spesso di assistere a pratiche disciplinari, professionali e istituzionali ispirate al prevalere di un settorialismo e riduzionismo in chiave tecnologica, che tendono ad applicare a posteriori la sostenibilità a manufatti originariamente pensati secondo categorie valoriali e scopi prestazionali tutt’affatto differenti.
E’ tipico di questo approccio, anche nelle sue versioni più avanzate, procedere scomponendo l’urbano (ovvero, a scala più ravvicinata, l’edificato) in settori funzionali da ottimizzare separatamente, per ricomporre poi la totalità attraverso operazioni sostanzialmente di addizione lineare. Ne è un esempio significativo il sistema Leed con cui viene generalmente valutato il livello di sostenibilità dei progetti di nuovi interventi, edifici o parti di città. Lo è anche il Rapporto predisposto da Arup per il comitato C40 delle 40 città del mondo, che recentemente hanno stretto un patto per contrastare i cambiamenti climatici incombenti (Arup, 2011). Il Rapporto individua otto settori di attività (trasporti, edilizia esistente, gestione dei rifiuti, acque, energia, illuminazione esterna, pianificazione usi del suolo, alimentazione e agricoltura urbana) per i quali sono predisposte le iniziative da intraprendere, le azioni specifiche per raggiungere un livello base di funzionalità ai fini dell’adattamento climatico, le opportunità su cui è possibile contare. La città, e lo stesso progetto urbano, diventa così l’esito di una giustapposizione aleatoria tra le diverse strategie di settore, accostate di volta in volta in funzione delle condizioni di contesto e delle congiunture politiche locali.
Si tratta di un approccio terribilmente efficace, che non a caso permea tutte le formulazioni della città smart offerte dall’industria dei softwares a caccia di nuovi mercati. La disgiunzione tra i diversi settori funzionali riflette puntualmente l’organizzazione per competenze separate e non comunicanti propria dell’amministrazione pubblica ai diversi livelli. Si presta dunque molto bene a definire e attuare le strategie d’intervento, esercitando un proprio campo d’applicazione inoppugnabile che fonda la sua legittimità su una razionalità di stampo tecnocratico, talvolta in grado perfino di cortocircuitare la necessità di un approccio democratico nella costruzione delle strategie da perseguire. Singapore docet.
Ma, come del resto è diventato ormai di opinione comune, l’efficacia tecnocratica delle singole soluzioni di settore non solo è palesemente discutibile se realizzata come metodo d’intervento alternativo alla partecipazione democratica, ma di per sé non è neanche una garanzia assoluta di successo finale, almeno in termini di maggior valore aggiunto per la città dovuto agli effetti cumulativi dei singoli settori. Chi si riconosce nella logica del progetto urbano sa che sta alla responsabilità del progetto mantenere una visione olistica delle cose, consapevole e al tempo stesso critica rispetto alle interdipendenze esistenti da mantenere o da modificare, tenuto conto dei molteplici interessi e utilità toccate dall’intervento. Si tratta allora di scegliere criticamente, di volta in volta, il peso da attribuire alle singole dimensioni in gioco, sciogliendo il loro potenziale conflitto attraverso un contemperamento responsabile (e possibilmente condiviso) delle reciproche incidenze nel processo d’individuazione della soluzione preferibile, che terrà naturalmente conto delle interazioni provocate.
Un procedimento simile è stato ricostruito analiticamente nella dissertazione di dottorato di Gioia Di Marzio, Wind Sensitive Urban Design, riportata in questo numero di EWT. La dissertazione inquadra diversamente il tema “progettare con il vento” rispetto alle ricerche di settore che pure hanno conseguito risultati assai positivi, in particolare grazie al lavoro del team universitario Berlino-Munster-Rotterdam, che con “City and Wind” ha raggiunto un livello d’eccellenza nello studio degli assetti morfologici e tipologici degli insediamenti, al fine di ottimizzare le condizioni di esposizione al vento (Krautheim et al, 2014). Nel dottorato della Di Marzio l’importanza del vento nella progettazione della città riflette non solo la sua natura specifica di risorsa integrata, in quanto esito del mutevole intreccio tra le diverse valenze in gioco – identitarie, energetiche, bioclimatiche, di pianificazione, di opportunità per l’architettura. E neanche la sua significatività come risorsa integrata all’interno del metabolismo composito dell’ecodistretto locale alla Banham, cioè in funzione delle condizioni complessive di contesto, con particolare riferimento a storia e cultura, stili di vita della popolazione, immaginari simbolici, pratiche sociali ed economiche locali, funzioni ecologiche e ambientali. Più in generale, la Di Marzio ipotizza che il peso da attribuire alla wind ecology dovrà essere individuato criticamente ogni volta in considerazione delle altre dimensioni in gioco nel progetto urbano, chiamato a trovare una sintesi consapevole e responsabile rispetto alla molteplicità conflittuale delle istanze da risolvere e alla fattibilità degli interventi.
In questo senso la ricerca della Di Marzio appare perfettamente in linea con il Sustainability Sensitive Urban Design perseguito da EWT. Questo approccio rivendica la complessità delle relazioni da portare a sintesi attraverso il progetto, espressione a sua volta di un’elaborazione consapevole, e per quanto possibile trasparente, degli assunti che sono sottesi nella teoria della sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle trasformazioni urbane.
Anche le ricerche presentate in quest’occasione da EWT tendono a riflettere l’orientamento a favore di una maggiore complessità rispetto al dato meramente tecnico. Su iniziativa di Filippo Angelucci, coordinatore del numero, è stata promossa dalla nostra rivista un’indagine originale contando sulla partecipazione attiva dei diversi gruppi interni alle discipline tecnologiche e in particolare della Società Italiana della Tecnologia dell’Architettura (SITdA), , con l’obiettivo di restituire una sorta di mappatura sullo stato generale delle ricerche per la sostenibilità ambientale condotte in sede accademica. Come emerge da questa indagine, nei diversi centri di ricerca l’interesse originario verso la dimensione tecnica della sostenibilità è andato evolvendo ovunque verso una considerazione più complessiva della qualità urbana, tematizzata sotto i vari profili della resilienza, della manutenibilità, e dell’innovazione dei sistemi di realizzazione e gestione smart degli interventi. Così lo studio pionieristico del gruppo romano sui quartieri ecologici (Dierna, Orlandi, 2005) sembra aver aperto la strada della ricerca verso una scala più propriamente urbana, e verso un approccio progettuale che ha caratterizzato negli ultimi anni le ricerche sull’innovazione tecnologica ai fini della sostenibilità.
Nonostante ci sia da lavorare molto prima di giungere a conclusioni meno provvisorie, questo tipo di indagini inaugura un lavoro di esplorazione sul campo sulla geografia delle ricerche accademiche in materia di sostenibilità che EWT si ripromette di riprendere e approfondire in futuro, estendendolo se possibile anche ad altri settori disciplinari come l’architettura, l’urbanistica e il restauro. Non si tratta soltanto di un servizio utile ai ricercatori e ai lettori della rivista. E’ anche per molti versi una ricognizione che fa affiorare la consistenza delle energie effettivamente investite sui temi della sostenibilità, al di là delle posizioni individuali che rischiano talvolta di richiamarsi ritualmente a un pensiero precocemente svuotato del proprio senso.
Riferimenti bibliografici
Arup, 2011, Climate Action in Megacities, www.c40cities.org
Clementi A., 2014, EcoWeb District. Tra smart e green, in Zazzero E., “ Ecoquartieri”, Maggioli
Dierna S., Orlandi F., 2005, Buone pratiche per il quartiere ecologico, Alinea, Firenze
Di Marzio G., 2016, Wind sensitive Urban Design. L’ecologia del vento nel progetto di città sostenibile, Dissertazione dottorato, Pescara
Krautheim M., Pasel R., Pfeiffer S., Schultz-Granberg J., 2014, City and Wind. Climate as an Architectural Instrument, Berlin, DOM publishers
Severino E., 2009, Il dominio della tecnica, BUR, Rizzoli, Milano, ( ed.or.1988)