"Progettare la città sostenibile. Un'antologia critica", a cura Ester Zazzero |
Sostenibilità. Una nozione stratificata a molte dimensioni
Una rapida rassegna del dibattito di questi anni sulla sostenibilità urbana fa emergere l’importanza delle accezioni della sostenibiltà sostanzialmente ispirate all’approccio ambientalista, che, come noto, commisura il livello di vita desiderabile alla capacità di carico delle risorse naturali. Non sono tuttavia secondarie le posizioni che sottendono una diversa prospettiva, in particolare quelle che fanno riferimento a obiettivi di giustizia sociale e di sviluppo appropriato dell’economia. Queste interpretazioni tendono ad acquistare un peso altrettanto significativo di quello tradizionalmente assunto dall’ambiente, e concorrono nel raggiungimento della “sostenibilità totale”, sempre più spesso evocata come obiettivo di fondo dalle politiche comunitarie. La nozione di sviluppo sostenibile così intesa appare assai più inclusiva di quella unicamente ambientale, poiché oltre ad implicare la conservazione a lungo termine dell'ambiente (per trasmetterlo alle generazioni future) tiene in considerazione al presente anche la qualità della vita (non dipendente solo dall'aumento del reddito); l'equità tra i cittadini (compresa la prevenzione della povertà); l'equità intergenerazionale (gli abitanti del futuro meritano un ambiente di qualità almeno pari a quella dell'ambiente odierno) e le dimensioni sociale ed etica del benessere.
Prospettive disciplinari
Restando alla dimensione ambientale della sostenibilità va osservato come l’attenzione alla conservazione delle risorse naturali non sia un’invenzione dei nostri tempi. Seppur formulata diversamente essa è alle radici del programma dell’urbanistica e dell’architettura moderne. Il ritrovamento delle condizioni della natura, propugnato da Le Corbusier nella Ville Radieuse, può essere infatti riletto come un modo per ispirare a principi di rispetto ambientale la nuova architettura. Un progetto come Chandigarh testimonia in modo paradigmatico l’importanza attribuita (già allora) alla vegetazione, al sole, al clima, al risparmio delle risorse locali, con un’impostazione che ancora oggi stupisce per la sua lungimiranza.
Tuttavia le pratiche di costruzione della città moderna hanno generalmente fatto prevalere un uso distorto dei principi della modernità, dando luogo a configurazioni urbane in larga misura insostenibili, fondate su uno sfruttamento senza limiti delle risorse primarie non riproducibili e incarnate da usi del suolo, sistemi di mobilità e modi di abitare fortemente impattanti. Soltanto di recente l’urbanistica ha ripreso a interrogarsi sulle possibilità di migliorare le prestazioni ambientali delle città, sviluppando un’attenzione più complessiva alle diverse dimensioni in gioco nella prospettiva dello sviluppo sostenibile.
Gran parte delle realizzazioni di nuovi insediamenti sperimentali ad elevata sostenibilità sono state prodotte da paesi con una tradizionale sensibilità alle tematiche ambientali, ma anche alla qualità dell’architettura, quali Olanda, Danimarca, Svezia, Germania, Austria, Francia. Queste esperienze stanno contribuendo a ridefinire temi e linguaggi del progetto contemporaneo, nella prospettiva di una "qualità globale" sensibile all'ambiente che dovrebbe informare di sé la ricerca architettonica e urbanistica.
Al momento tuttavia è evidente il divario tra il progresso di una cultura progettuale applicata all’edilizia, orientata alle nuove tecnologie, cui ha fatto riscontro una ricca produzione di strumenti operativi di supporto all’architetto nella valutazione dell'ecoefficienza del manufatto, assistita da software avanzati di simulazione delle prestazioni bioclimatiche ed energetiche, e il ritardo della progettazione alla scala urbana di insediamenti ad elevata sostenibilità ambientale, che soffre di una palese carenza di esperienze, di modelli e strumentazioni operative. Questo sviluppo asimmetrico delle conoscenze e delle esperienze accresce il rischio, già consistente, di fare affidamento ad una "sostenibilità relativa" demandata esclusivamente a dispositivi tecnologici e impiantistici per l'edificio, e a dispositivi ambientali per i nuovi insediamenti, senza significativi approfondimenti sotto il profilo della qualità progettuale dell’architettura e urbanistica.
Muovendo da queste considerazioni, si richiamano di seguito alcune posizioni influenti che stanno orientando la ricerca nel campo del progetto di città sostenibile. Queste posizioni sono state individuate nel corso di una recente ricerca di dottorato, mirata a definire nuovi modelli di progettazione urbana riconducibili alla cultura del Sustainability Sensitive Urban Design (E. Zazzero, Progettare Green Cities, 2010). Dalle affermazioni di alcuni autorevoli teorici e progettisti si tenta di far emergere il contributo specifico dato alla costruzione di una nuova filosofia di progetto per la città.
La città sostenibile è un sistema circolare….
“Il punto di partenza è considerare le città non come sistemi lineari di produzione e richiesta di beni, cultura, risorse, ma come sistemi circolari. Dobbiamo vedere le città come sistemi organici. Finora l’Occidente ha guardato alle città come consumatori di materie prime, che usano massicciamente, producendo grandi quantità di rifiuti. Pensare alle città come sistemi circolari significa pensare a come riutilizzare i grandi flussi di materiali e rifiuti all´interno del sistema urbano stesso, creando valore ed efficienza per l´economia e l´ambiente. Un esempio viene dalla Lombardia, dove in una fabbrica di automobili un imprenditore ha deciso di riciclare tutti gli scarti metallici delle macchine vecchie rivendendoli ad altre imprese per usi diversi. Un modo per dare ai rifiuti nuovo valore. In termini di sviluppo costruttivo, questo modo di pensare coinvolge tutti gli aspetti: le fognature e i rifiuti per generare energia, i materiali edili a basso consumo energetico e basso contenuto di anidride carbonica. Quindi non bisogna progettare per sistemi lineari, da una parte le fognature, dall´altra il sistema di approvvigionamento energetico, qui il progetto paesaggistico e là i trasporti: tutti gli elementi vanno sviluppati come un tutto integrato per generare efficienza”. (Ecopolis 2009, Roma)
…… con un uso integrato delle diverse risorse.
“Nella progettazione di una nuova città, è necessario provvedere a una pianificazione generale delle risorse e delle strategie socio-economiche, valutando tutte le implicazioni energetiche, idriche, e soprattutto di contesto. Si tratta di una pianificazione olistica. Si deve pensare anche a come produrre cibo localmente, inglobando nel tessuto urbano la popolazione rurale. Anche il sistema del ciclo dell’acqua ha al suo interno diverse componenti da integrare in un circuito chiuso: tra queste, l’ energia per la potabilizzazione, il trattamento e il riuso. Altro tema fondamentale è l’uso efficiente delle risorse. Occorre ridurre i consumi energetici almeno di due terzi rispetto ad una città tradizionale, mediante l’uso spinto delle energie rinnovabili. Non sono rari i casi in cui il committente richiede il 100% di energia rinnovabile. Una sfida importante che parte ad esempio dall’utilizzo degli scarti del riso, da cui si può produrre energia pari al 65% del fabbisogno, per lasciare il resto a sole e vento, sfruttati grazie allo studio della miglior esposizione”. (Ecopolis 2009, Roma)
Ruolo delle città
“Le persone che vivono nelle città hanno generalmente una maggiore disponibilità economica, e sono impegnate ogni giorno in molteplici attività, dai viaggi tra casa e lavoro ai consumi di beni alimentari e risorse energetiche, alla produzione di rifiuti. Le città quindi da un lato sono colpevoli, ma dall’altro hanno la grande opportunità di modificare il funzionamento dell´economia e il cambiamento climatico. Innanzi tutto perchè sono entità relativamente semplici da un punto di vista amministrativo: è più semplice incidere su una nazione prendendo le decisioni giuste nelle sue città più importanti, piuttosto che agire a livello centrale e complessivo. Questa appare la strada ideale, ma occorre agire in fretta”. (Ecopolis 2009, Roma)
Il paesaggio come possibile modello per la città
Il paesaggio è uno strumento, l’unico capace di rispondere ai cambiamenti del tempo, alla trasformazione, all’adattamento e alla successione. Queste qualità suggeriscono di pensare il paesaggio come un analogo dei processi contemporanei di urbanizzazione, il solo strumento adeguato all’apertura senza fine, indeterminatezza e cambiamento che caratterizzano le condizioni urbane contemporanee. Come Allen puntualizza, “ il paesaggio non è soltanto un modello formale per la città di oggi, ma forse, più significativamente, è un modello per quanto riguarda le processualità”.
Non è un caso che i primi progetti che hanno rivelato la potenzialità del paesaggio a operare come modello per lo sviluppo urbano non sono stati realizzati in Nord America, ma in Europa. Tra i primi progetti a predisporre un programma urbano sulla base dei mutamenti del paesaggio è stato nel 1982 il Concorso per il Parc de la Villette. La Villette invitò a sottoscrivere il concorso per un “Parco Urbano del Ventunesimo secolo” su un terreno di 125 acri, un tempo il luogo del più grande mattatoio di Parigi. La demolizione del mattatoio la sua sostituzione con attività pubbliche fortemente programmate è il tipo di progetto sempre più diffuso globalmente nelle città postindustriali. Non diversamente da concorsi più recenti in Nord America (come Downsview e Fresh Kills), la Villette ha proposto il paesaggio come elemento di base per la trasformazione urbana di quella parte della città operaia, abbandonata per i successivi cambiamenti nella economia della produzione e del consumo. Il concorso per la Villette ha dato origine all’era del parco postmoderno, nella quale il paesaggio è concepito come un complesso strumento capace di articolare relazioni tra infrastrutture urbane, eventi pubblici e caratteri urbani indeterminati dei grandi spazi post-industriali, piuttosto che come salutare eccezione rispetto alla città insalubre che generalmente li circonda”. (Recovering landscape: essays in contemporary landscape architecture,1999)
Le lenti del paesaggio
La tendenza a interpretare la città contemporanea attraverso le lenti del paesaggio è più evidente nei progetti e nei testi che si appropriano dei termini, delle categorie concettuali e delle metodologie operative proprie del campo dell’ecologia: in particolare gli studi relativi al modo in cui le specie si mettono in relazione con i loro ambienti naturali. Tutto ciò rivela uno dei vantaggi impliciti del landscape urbanism: la fusione, l’integrazione, e lo scambio fluido tra ambiente (naturale) e sistemi infrastrutturali (progettati). Corner descrive le potenzialità creative e poetiche di questa mescolanza di categorie, di questo incrocio di ecologia e artificialità nel seguente modo :
“il gioco lirico tra il nettare vero e un pacchetto di Nutrasweet, tra il canto degli uccelli e i Beastie Boys, tra una sorgente d’acqua in primavera e un goccio d’acqua di rubinetto, tra i calori del muschio e le calde superfici d’asfalto, tra gli spazi regolati e le riserve selvagge incontrollate.
Mentre la rinnovata importanza del paesaggio nel riconsiderare i termini della questione urbana si manifesta innanzitutto attraverso la ricerca e la produzione architettonica, l’importanza del paesaggio ha rapidamente rafforzato la stessa professione legata all’architettura del paesaggio. Questa ricerca è ancora largamente marginalizzata dalla cultura dominante dell’architettura del paesaggio più tradizionale, ma viene sempre più considerata come un aspetto vitale per il futuro in molte Università e per una molteplicita’ di pratiche professionali innovative. L’ interesse a questa prospettiva è legato in parte anche alla riorganizzazione critica che l’architettura del paesaggio sta conoscendo, e che da molti punti di vista è simile alle trasformazioni avvenute all’interno della cultura architettonica in seguito al diffondersi del post-modernismo. Infatti è ragionevole interpretare la recente rinascita del discorso sul paesaggio come impatto del pensiero postmoderno sul campo.”(Recovering landscape: essays in contemporary landscape architecture,1999)
Intanto che la disciplina dell’architettura del paesaggio sta riflettendo criticamente sulle sue basi teoriche e storiche, la generalità del pubblico è sempre più sensibile alle questioni ambientali, e al tempo stesso sempre più consapevole del paesaggio come categoria culturale. In questo contesto, molti studi di architettura del paesaggio in Nord America si sono qualificati nelle attivita’ professionali che una volta erano appannaggio degli urbanisti. Ciò ha permesso agli architetti-paesaggisti di riempire un vuoto professionale, poiche’ la pianificazione urbanistica ha generalmente rifiutato la responsabilità di proporre progetti in grado di esplicitare l’incidenza fisica delle scelte di progetto. Gli architetti paesaggisti sono stati sempre piu’ coinvolti anche in ricerche per il riuso di siti post-industriali e per l’attenuazione degli effetti ambientali di vari sistemi infrastrutturali, come l’ elettricità, l’acqua, e le autostrade.
Landscape as Urbanism
La capacità di produrre ambienti urbani ottenuta storicamente con la costruzione di edifici, se ripensata attraverso la manipolazione di superfici orizzontali, suggerisce l’uso del paesaggio, specialmente nelle condizioni urbane contemporanee, sempre più caratterizzate da una forte diffusione orizzontale e da una rapida evoluzione. Nel contesto di questi processi di decentramento e decremento della densità, il “pesante apparato” degli strumenti tradizionali del progetto urbano si dimostra costoso, lento e rigido, specie in relazione alla rapidità delle attuali condizioni di trasformazione della forma urbana. Queste riflessioni trovano riscontro nel concetto emergente di landscape urbanism.
“Il landscape urbanism fa riferimento a testi canonici della pianificazione ambientale regionale, in particolare al lavoro di Patrick Geddes e Benton Mackaye, a quello di Lewis Mumford e di Ian Mc Harg; ma al contempo rimane distinto da questa tradizione. Già Corner ha riconosciuto l’importanza storica dell’influente Design with Nature. Ma lo stesso Corner, studente e collega di facoltà di McHarg all’University of Pennsylvania, ha respinto l’opposizione di natura e città, implicita negli studi di pianificazione ambientale di dimensione regionale di McHarg.
Le origini del landscape urbanism possono essere ricercate nella critica postmoderna all’architettura e alla pianificazione modernista. Le critiche espresse da Charles Jenks e da altri sostenitori della cultura architettonica post-moderna avevano messo in stato di accusa il modernismo, per la sua incapacità di produrre spazi pubblici significativi o semplicemente vivibili, per il fallimento nei confronti della città intesa come prodotto di una coscienza collettiva, e per la sua incapacità di comunicare ad un pubblico diversificato. Del resto, la “morte dell’architettura moderna” come fu annunciata da Jencks nel 1977, coincise con la crisi dell’economia industriale americana, che sfociò in un nuovo sistema di diversificazione della produzione e mercato per il consumo. Quello che l’approccio scenografico dell’architettura post-moderna non sapeva - né del resto poteva mettere in chiaro- erano le condizioni strutturali della modernità industrializzata, che spingevano verso il decentramento della forma urbana. Questo decentramento continua velocemente tuttora nel Nord America, con una marcata indifferenza rispetto ai superficiali ondeggiamenti stilistici della cultura architettonica.
Alla vigilia dei disastri sociali e ambientali dell’industrializzazione, l’architettura post-moderna si è ritirata sulle forme rassicuranti della nostalgia e quelle apparentemente stabili e sicure della condizione urbana. Citando precedenti europei di forme di città tradizionali, gli architetti postmoderni hanno messo in pratica un tipo di regressione culturale preventiva, progettando edifici-oggetto per evocare l’assenza di contesto, come se la familiarità dei caratteri architettonici potesse opporsi ad un secolo di economia industriale. La nascita della progettazione urbana negli anni Settanta e Ottanta aveva esteso l’interesse per la composizione architettonica agli ensembles di a nostalgici insediamenti di consumo urbano. Durante lo stesso periodo, la disciplina della pianificazione urbana aveva abdicato completamente al suo ruolo, cercando rifugio nelle enclave relativamente ininfluenti della politica, delle procedure e dei provvedimenti pubblici…….
…….Il postmoderno “rappelle a l’ordre” accusava il modernismo di avere svilito i tradizionali valori urbani legati alla dimensione pedonale, alla continuità della griglia stradale e al carattere dell’architettura contestuale. Come è stato ben documentato, l’impulso postmoderno può essere definito sia come desiderio di comunicare con un pubblico diversificato, che come volontà di diversificare i mercati dei consumatori attraverso una articolazione delle immagini architettoniche. Ma questa dipendenza da oggetti architettonici spazialmente ordinati e disegnati per incontrare il favore di tutti non poteva reggere a lungo, dato l’insorgere di fenomeni di instabilità dei mercati, di imponenti processi di decentramento, e del radicalizzarsi della cultura dell’automobile. Inoltre la forte indeterminatezza dei flussi della città contemporanea, e la perdita di senso della città europea tradizionale, sono proprio le qualità indagate dai lavori emergenti del landscape urbanism. Questo aspetto è forse esemplificato al meglio dal programma barcellonese degli anni Ottanta e Novanta relativo a spazi pubblici e a nuovi edifici, fondamentalmente addensati nel centro tradizionale della capitale catalana. Oggi, la spinta allo sviluppo dell’aeroporto, dell’ area logistica, del waterfront industriale, delle rive del fiume metropolitano e degli impianti di trattamento dell’acqua hanno meno a che fare con edifici e piazze, e molto di piu’ con paesaggi infrastrutturali a grande scala. Questi esempi, insieme ad altri recenti lavori in Olanda, rivelano il ruolo del paesaggio alla grande scala come elemento dell’infrastruttura urbana. Naturalmente molti esempi tradizionali di architettura del paesaggio urbano del XIX secolo integrano paesaggio e infrastruttura, come dimostrano il Central Park di Olmsted a New York e il Back Bay Fence di Boston. Contrastando con questa tradizione, le ricerche contemporanee di landscape urbanism respingono la mimetizzazione dei sistemi ecologici in immagini bucoliche della “natura”. Piuttosto, le ricerche contemporanee di landscape urbanism raccomandano l’uso di sistemi infrastrutturali, e i paesaggi pubblici che essi producono risultano dei dispositivi di ordinamento del territorio urbano, dando forma all’aggregato urbano e modificandone l’organizzazione, con all’aggregato urbano le sue caratteristiche sociali politiche ed economiche inevitabilmente indeterminate.” (The Landscape Urbanism Reader,2006)
Oltre la visione ecologica
La nozione di città sostenibile (durable) è più estesa di quella della città ecologica; si rivolge infatti agli impatti sociali dei processi di deterioramento dell’ambiente, e impegna alla trasformazione dei modi di produzione, di consumo e di vita. Rinvia alla costruzione di un vivere insieme sulla terra. Ad esempio, sappiamo che per sostituire modi di trasporto inquinanti con altri più puliti non è sufficiente a ridurre la produzione di CO2, in assenza di una volontà concomitante di riduzione della mobilità, divenuta uno dei valori della nostra società nel corso del XIX secolo. Allo stesso modo, senza un’evoluzione più globale della pianificazione del territorio e dei modi di vita, avviare politiche di sviluppo sostenibile a scala locale produce impatti assai limitati.”(Diagonal, n.178, 2008)
Come intendere la città sostenibile
La città sostenibile può essere definita in tre tempi. Innanzi tutto è una città che conserva la sua identità, un senso collettivo e un dinamismo a lungo termine. Il sostenibile sta al tempo come il globale allo spazio: un allargamento del nostro campo visuale, al di là del breve termine.
E’ poi una città che offre differenziali di qualità di vita non troppo accentuati, all’interno dell’area urbana di riferimento. Ciò comporta la riqualificazione ambientale degli spazi locali, ma al tempo stesso una mescolanza sociale e funzionale, la disponibilità di alternative alla mobilità obbligata, il cui costo – sociale, economico, sanitario - è stato a lungo sottostimato. Si tratta di favorire l’affermazione di nuove prossimità delle attività commerciali e dei servizi, e di densificare le corone periferiche a scapito della crescita centrifuga.
Una città sostenibile si riappropria dunque del progetto politico e collettivo delineato da Agenda 21, contando su sinergie quanto più possibile estese tra i diversi attori in gioco. Si tratta d’inventare uno sviluppo che riduca le ineguaglianze sociali e riqualifichi l’ambiente, considerandone gli impatti sulle diverse scale dello sviluppo urbano.” (Diagonal, n.178, 2008)
Virtù e limiti degli ecoquartieri
I quartieri sostenibili rappresentano una tappa preliminare nella prospettiva dell’urbanistica sostenibile, che peraltro rappresenta a sua volta una riduzione operativa della nozione di città sostenibile. Questi quartieri intendono rispondere a questioni sia globali (clima, biodiversità, impronta ecologica) che locali (ricompattazione delle città, benessere ambientale in città, nuove forme di mobilità e di prossimità, mescolanza sociale nella maggior parte dei casi). Di fatto hanno acquisito innegabilmente una forte portata simbolica. Danno voglia di fare, suscitano desideri, sogni, ideali, significati: vivere meglio, e vivere meno in contraddizione con l’idea che ci si è fatta dello stato del mondo, per dirla in maniera semplice.
A queste condizioni, i quartieri possono essere considerati all’origine del processo di diffusione dell’urbanistica sostenibile. Sul piano concreto, aprono piste di lavoro ricche di potenzialità sia ai fini del decentramento che dell’efficienza energetica, della riduzione delle emissioni inquinanti e ad effetto serra per fattori da 2 a 4, di intensificazione del rapporto con la natura in città sotto molteplici forme, di armonizzazione delle densità urbane con il benessere ambientale, e, per quelle che sono state concepite dagli stessi abitanti, di mutazione, di condivisione e di cooperazione.
Gli ecoquartieri sono peraltro vittime del loro stesso successo. La loro attrattività li rende rapidamente segregativi, se le città non sono in grado di governare adeguatamente le dinamiche fondiarie e immobiliari. Opere in qualche modo eccezionali del volontarismo pubblico, aprono la strada coinvolgendo sempre più i promotori, i quali non hanno tardato a capire il valore aggiunto realizzabile grazie all’ecologia e alla qualità di vita, almeno per quanti sono in grado di sostenerne i costi.
Il dualismo ecologico è già evidente nelle nostre metropoli, e lo scenario sta diventando più fosco. Invece, nello spirito dello sviluppo sostenibile, sono soprattutto le situazioni di maggiore vulnerabilità, di compromissione sociale e ambientale che dovrebbero essere affrontate prioritariamente. I settori più depauperati tendono a restare il parente povero dell’investimento ecologico, ciò che è paradossale. L’ecologia in realtà rappresenta una leva potente di riqualificazione territoriale e di affrancamento sociale.
Ci si rende conto che ridurre la politica della città sostenibile alla politica degli ecoquartieri è un non senso. Sembra invece necessario moltiplicare i procedimenti, nella prospettiva al tempo stesso di trasformare il patrimonio edilizio e i quartieri esistenti, soprattutto in Europa, e di migliorare l’accessibilità sociale per questa nuova urbanistica, che è particolarmente impegnativa. Diverse iniziative promosse dagli stessi abitanti dimostrano che questo tipo di costruzioni e di pianificazioni può essere realizzato a costi costanti, ovvero a minor costo, se soltanto ci si lascia condizionare poco da una ecologia “hi-tech” ( per riprendere le parole di Dominique Gauzin-Muller) e si riesce a realizzare opportuni dispositivi di accesso facilitato al mercato fondiario. Riduzioni di costo possono essere ottenute attraverso la riduzione degli spazi standards o la offerta di spazi di uso comune. L’accesso sociale agli ecoquartieri o più in generale il diritto alla città sostenibile devono trovare un riconoscimento esteso, al di là delle iniziative coraggiose che si stanno sviluppando in Francia soprattutto nell’ambito degli insediamenti concentrati.”(Urbanisme, n.363, 2008)
Percezioni divergenti tra urbanisti e abitanti
I quartieri sostenibili dimostrano che la città verde e la città densa non sono affatto incompatibili, se non per alcune rappresentazioni e pratiche di certi modi d’intendere l’urbanistica. Nell’urbanistica sostenibile, l’interpenetrazione della città, dell’acqua e della vegetazione si gioca a molteplici scale. Certamente la densità è una nozione commisurata alle diverse culture, come del resto la natura: si pensi ai giardini giapponesi. La natura non occupa necessariamente tutto lo spazio ( tetti, facciate, piccoli giardini privati, lineari). Inoltre può essere agevolmente sostituita da infrastrutture minerali connesse alla mobilità stradale, che è divoratrice di spazi ( sedi viarie, parcheggi, garages…).
Non vedo dunque antinomia tra natura e densità, non più di quanto ritengono gli autori dell’urbanistica sostenibile quando affermano che va inventato un nuovo compromesso. Per contro sono riscontrabili oggettive antinomie tra le densità- da quelle delle città asiatiche, a quelle del mondo mediterraneo, o della dorsale europea, o infine dei paesi scandinavi.
………L’urbanistica sostenibile è un’espressione culturale, appropriata rispetto ai diversi contesti. La densità come la compattezza possono assumere molteplici forme. La prevenzione dei processi di futura periurbanizzazione quanto l’adeguamento dell’esistente rappresentano una sfida tra le più difficili da intraprendere ai fini della città sostenibile, poiché presuppongono una serie di arbitraggi preventivi. La periurbanizzazione è la risultante di scelte politiche e di meccanismi economici. Ritengo che la maggioranza degli abitanti non rifiuterebbe affatto di vivere in ecoquartieri relativamente densi, se questa possibilità venisse offerta.
In ogni caso, una grande quantità di ragioni ( energetiche e climatiche, di biodiversità, di gestione delle risorse idriche, di qualità paesaggistica e turistica, di sviluppo di una agricoltura e servizi ecologici metropolitani) spingono a rivedere le forme di urbanizzazione delle periferie. Del resto, gli impatti ambientali e dunque sociali delle città sono strettamente connessi non soltanto ai modi d’occupazione dello spazio, ma anche ai modi di vita e di consumo. Sembra allora importante ridefinire la questione delle morfologie urbane in una prospettiva più ampia, quella dei modi di vita sostenibili, finora poco studiati.”(Urbanisme, n.363, 2008)
Percezioni divergenti tra urbanisti e ambientalisti
Purtroppo, il processo d’integrazione tra pianificazione urbanistica e ecologia, iniziato con esperienze di grande interesse all’inizio degli anni Novanta, ha poi subito una evidente battuta d’arresto per il corporativismo tecnico e culturale dimostrato da ambedue le discipline, le quali hanno tenuto ben separati i propri campi di azione e di competenza, ma anche i rispettivi strumenti operativi e cioè i piani urbanistici da un lato e le valutazioni e i processi di Agenda 21 dall’altro. Ma anche per una sorta di ambiguità del mondo ambientalista nei confronti del piano urbanistico, le cui strategie principali non sono solo quelle della conservazione, ma, al contrario, sono soprattutto quelle della trasformazione, del progetto al futuro della città e del territorio; ambiguità che ha toccato il punto più alto in occasione della mancata approvazione alla fine della passata legislatura della riforma urbanistica, per un evidente dissenso da parte delle forze politiche che rappresentano più direttamente le posizioni ambientaliste. Mentre si è anche registrata una marcata debolezza disciplinare degli urbanisti, che non hanno voluto o saputo generalizzare le esperienze di integrazione, accontentandosi di formulazione generali e poco operative nelle leggi regionali, ma anche nei piani.
Insomma si è determinata una sorta di contrapposizione politica tra urbanisti e ambientalisti, finalizzata a garantire identità e posizioni, che è emersa con evidenza in occasione delle scelte più importanti, come nel caso della mancata riforma urbanistica alla fine della scorsa legislatura”
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