In the foreground

East End VS Olimpic Park. di Massimiliano Scuderi

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Rientra oramai nell’accezione comune che un’area individuata  per  localizzare  nuove opere urbanistiche sia definita “ vuoto urbano ”. Ma  il quartiere dell’East End di Londra, destinato ad ospitare il villaggio olimpico del 2012 , e soprattutto la sua comunità, quella più vivace e creativa, non intendono rimanere passivi rispetto alle decisioni che determineranno il futuro assetto dei borghi. In un articolo apparso su The Guardian (1),  Rushanara Ali descrive come le Olimpiadi del 2012 siano state salutate entusiasticamente dai londinesi e, in particolare, dagli abitanti del quartiere che intravedevano  nell’occasione nuove opportunità di sviluppo e di impiego per i giovani,  una manna dal cielo in un periodo di forte  recessione e per i tagli all’economia previsti dal primo ministro David Cameron per ridurre la spesa pubblica. La Ali descrive la disattenzione della commissione preposta alla gestione dell’evento, la Locog (2), che preconizzava i giochi come momento di inclusione sociale, promettendo seimila posti di lavoro per i residenti dei borghi Tower Hamlets e Hacney. Alla fine le opportunità sono state ridotte e i posti ridimensionati nel numero esiguo di circa  trecentotrentaquattro. Anche i percorsi di alcune gare sono stati deviati rispetto ai programmi iniziali, con un conseguente svantaggio per gli imprenditori locali che avrebbero investito volentieri per offrire servizi al popolo delle olimpiadi. A fronte di questo la comunità locale sta dando vita ad una  serie di mobilitazioni, per riscattare la propria situazione dall’oblio e dalla visione centralistica incurante dei bisogni del quartiere, per rivendicare la propria esistenza e per evitare che vengano completamente rimossi i caratteri identitari del luogo. Un quartiere che, attraverso l’inclusività e la cultura, era riuscito a ridefinire il proprio profilo, da malfamato a luogo per la cultura, e a rivendicare il proprio ruolo rispetto all’intera città. In tal senso è  utile ricordare quale importanza abbiano avuto le comunità creative nello sviluppo di questa parte di Londra che, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, spostarono i propri studios e le gallerie dal centro all’East end, come risposta alla politica della Thatcher e, soprattutto, per la necessità di una nuova avanguardia che voleva appropriarsi di spazi off più interessanti e vitali, in cui fare ricerca, ma anche accogliere le istanze e gli umori del luogo in cui  stava insediandosi. Il clima di tolleranza multirazziale e culturale determinarono in breve tempo il successo del nuovo insediamento, al punto tale da diventare internazionalmente un modello di riferimento. Tra gli studi più interessanti sul tema, sull’ ibridità culturale e sul rapporto tra potere e minoranze sociali, sicuramente il concetto di terzo spazio del filosofo Homi Bhabha (3) spiega la strategia di decodificazione dei linguaggi sociali e comportamentali di queste neocomunità che si dislocano diversamente e che utilizzano creativamente  i codici di cui, all’inizio, replicano mimeticamente solo la forma.
La popolazione che abita oggi  l’East End non ritiene di dover rinunciare alla propria identità e si oppone alla visione governativa di azzeramento delle peculiarità dei borghi, stratificati di storie e di luoghi significativi, non riducibili alla definizione, appunto, di vuoti urbani. Ed è proprio la comunità creativa che,  insieme agli abitanti del luogo, sta dando vita ad un’ intelligente risposta mediatica alle logiche sottese al nuovo  brand olimpico. In un articolo di Andrea Pavoni (4) vengono elencate le iniziative intraprese da alcuni artisti per rivendicare la propria diversità nella lettura del paesaggio urbano dell’East End, in contrasto con le visioni unilaterali dei planners olimpici. Tra i progetti che mirano a  mobilitare l’opinione pubblica  e a stimolare nuove progettualità, “The Big Blue Fence”, un’iniziativa di Penny Cliff e Christopher Preston, ispirata dalla presenza angosciante delle continue transennature blu che delimitano l’area del futuro parco olimpico, un muro in pieno stile “guerra fredda” all’interno della città. L’iniziativa serve a dare alle popolazioni, che vivranno dopo le olimpiadi, l’opportunità di ricordare le storie del luogo per sviluppare altre progettualità. Così come “ Go for Gold!”di Gesche Wurfel finalizzato a documentare i rapporti tra popolazione del quartiere e ambiente costruito, in relazione soprattutto ai mutamenti in atto dell’ assetto urbanistico. Altri progetti interessanti, che affrontano i temi della gentrificazione e dello svuotamento, fisico e di significato, delle aree investite dal progetto olimpico, Olympyon visions della fotografa Alessandra Chile e Guide to the Wastelands of the Lea Valley 12 Empty spaces await the London Olympics dell’artista Lara Almarcegui, che chiede di mantenere porzioni di territorio vuote, all’interno dei nuovi piani previsti per l’area, un appello romantico e signficativo di un sentimento presente in tutto il quartiere.
Non ultimo “ All aboard” di Jim Thorpe che registra i mutamenti in atto nei luoghi di lavoro del quartiere, negli spazi pubblici e privati, con il coinvolgimento delle comunità locali. Come diceva Ezra Pound, gli artisti sono le antenne dell’umanità, nel caso specifico le antenne della comunità creativa inglese si sono allungate a dismisura. A fronte dei grandi investimenti per l’opera ArcelorMittal Orbit dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor, una scultura muscolare da guinness dei primati alta  115 metri che sarà inaugurata  all’apertura dei giochi, il futuro della cultura in città non è tra i più rosei. In un recente reportage della rivista Art Newspaper vengono riportati i conti di Cameron per la cultura per cui anche istituzioni importanti, come la Tate Britain, dovranno attendere il 2012 per ricevere dal segretario alla cultura Jeremy Hunt  gli ottanta milioni di sterline di finanziamento promessi.

 

2- Logoc è l’acronimo per London Organising Committee of the Olympic Games and Paralympic Games

3- H.K. Bhabha, The location of culture, Routledge, London-New York 1994, trad. it. I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001

4- Andrea Pavoni, Erasing Space from Places – Brandscapes, Art and (de)valorisation of the Olympic Space, in LO Squaderno, n° 18 dicembre 2010


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