In the foreground

Intervista impossibile con Felix Guattari, di Andrea Cavalletti

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Michel Foucault ha illustrato la funzione disciplinare degli apparati spaziali, e ci ha mostrato come l'interesse per l'ambiente e il concetto stesso di ambiente avessero fornito un'importante chiave di definizione alla governamentalià biopolitica, quindi alle moderne funzioni di controllo della vita. Cosa dire dell'interesse odierno per l'ecologia e dell'urgenza delle tematiche ambientali? Come si situano queste esigenze attuali, e certo legittime, rispetto all'orizzonte del controllo?

Credo che la stessa parola “ecologia” sia molto ambigua. Di solito, infatti, diventa sinonimo di mera “ecologia ambientale”, ma questa equivalenza o sinonimia non è affatto scontata. Si tratta anzi di una riduzione, o meglio di una territorializzazione negli schemi dominanti. In questo senso, ridotta alla nozione di ambiente naturale, l'istanza ecologica può farsi portavoce di vecchi ritornelli reazionari, di pericolosi miti biologici o territoriali, dei loro valori arcaicizzanti e può addirittura – com'è in effetti accaduto – convivere con gli ideali e le pratiche nazi. Come i suoi collaboratori, anche il capo sanguinario era amante e protettore della natura, vegetariano, tanto amico dei cagnolini e tanto nemico della vivisezione da punirla col campo di concentramento. Il nazismo è stato in effetti un progetto zoopolitico a scala mondiale. In diverse maniere, una simile ecologia può oggi ancora unirsi ed essere utile alle semiotiche di soggettivazione del Capitalismo Mondiale Integrato, come accade per le discipline dell'architettura, dell'urbanistica.
Ora, nessuno ci condanna a servirci dei concetti preconfezionati. Non dobbiamo rassegnarci ai problemi già impostati. Abbiamo invece il potere di inventare sia i problemi che i concetti. Con Gilles Deleuze ho definito “filosofia” la capacità di inventare i concetti. Da parte mia, e per quanto ora ci riguarda, ho proposto di abbandonare la cosiddetta ecologia, l'ecologia solamente ambientale e naturale, inventando il concetto di “ecosofia”. Se in nome dell'ecologia il potere repressivo può ancora parlare in noi, se le semiotiche dominanti dell'urbanistica e dell'architettura sono utili all'introiezione di questo potere, se queste strutturano le soggettività ordinate dal Capitalismo Mondiale Integrato, l'ecosofia scopre invece nuovi problemi, apre delle linee di fuga nelle stesse tematiche ambientali, dischiude linee diverse di soggettivazione.

Cosa intende più precisamente per ecosofia?

Non certo l'abbandono dei temi legati alle minacce reali  dell'inquinamento ma – come dicevo - la liberazione di questi temi pressanti dallo schema definito e dai limiti della protezione della natura, e dunque non certo l'abbandono ma la continua concatenazione di questa prima ecologia con l'ecologia sociale e con quella mentale. Ecosofia è il riferimento costante di queste tre sfere, dove il cambiamento nell'una corrisponde all'invenzione delle altre. Bisogna reinventare al tempo stesso l'ambiente, i rapporti sociali e la costituzione delle soggettività e dei legami intersoggettivi, e occorre, insieme, predisporre nuovi rapporti esistenziali che affranchino il soggetto dal conformismo mass-mediatico. L'ecologia non deve essere la protezione esclusiva delle specie o della biodiversità, non deve restare in mano agli specialisti né agli amanti della natura, deve piuttosto mirare all'affermazione di tutte le forme e le maniere di esistenza minoritare, secondo un processo continuo. Prima della protezione delle specie biologiche in via di estinzione, si tratta dell'affermazione dell'esistenza minore che fugge dai limiti della biologia; prima dell'attenzione esclusiva per gli organismi e i loro corpi, si tratta di affermare una vita che passa attraverso gli organismi, un vivente inorganico. In questa situazione urgente, di fronte agli incubi dell'inquinamento e della sovrappopolazione, l'umanità deve riappropriarsi di se stessa e non è scontato che l'ecologia, di per sé, sia la strada giusta. Ma è una strada inevitabile ed è certo che se possiamo sfuggire alla presa dei meccanismi di manipolazione delle coscienze e dalla strutturazione del sociale è perché possiamo strappare dalle loro mani l'ecologia stessa. L'immensa macchina che minaccia e distrugge l'ambiente, questo disastro planetario annunciato una volta ancora in Giappone, questo carattere autodistruttivo dell'organizzazione capitalistica, sono infatti logicamente inseparabili dalla logica dell'iperproduzione, dall'ossessione dello sviluppo, e sono animati dai fantasmi del progressismo. Si tratta di un processo che è sempre sociale e che struttura, fin nell'intimità, l'esistenza dei soggetti. Non esiste dunque un ambiente minacciato, un ambiente di cui dobbiamo prenderci cura, che non sia già sempre sociale ed esistenziale.
La risposta, pertanto, non può che essere triplice: reinvenzione dell'ambiente e dei rapporti con ciò che ci circonda, mutazione del campo sociale, nascita di nuove soggettività.

Dunque l'idea e la pratica dell'ecosofia si pone all'incrocio di queste tre sfere. Ma ciò significa anche all'incrocio di saperi diversi. Come è possibile metterli in comunicazione?

Per coltivare insieme tre domini dobbiamo adattarli l'uno all'altro. Prima di ogni cosa dobbiamo inventare gli adattamenti, e non è affatto impossibile. Anzi, direi che non possiamo inventare nient'altro: non c'è invenzione che non sia l'invenzione di un adattamento, di un innesto. Deleuze amava molto il pensiero di Gabriel Tarde. E aveva buone ragioni. Tarde ci insegna infatti che viviamo in un campo di trasformazione continua. E che l'invenzione non è altro che questo: è un'imitazione (tutto per Tarde è imitazione), una maniera imitativa, che si adatta però e si aggancia a un'altra linea o maniera imitativa. L'invenzione è dunque ciò che si produce quando due abitudini mentali o due usanze o due attitudini si incrociano e si innestano nel modo più semplice, perché il loro innesto possa essere ancora imitato. Ma ciò significa che tutte le imitazioni sono inventive, che non si danno semplici e vuote ripetizioni di un fenomeno, ma differenze nella ripetizione, o meglio che ogni habitus è inventivo. Che l'imitazione sia una ripetizione vuota, e disperata, come avviene solitamente non è per nulla scontato, è anzi l'effetto di un certo esercizio di dominio. Ecco, credo che noi dobbiamo liberare l'imitazione e pensare l'abitare, la nostra più comune abitudine di vita, in questo senso: come invenzione che si articola sulle tre linee (del mentale, dell'ambientale, del sociale) e che le tre linee rendono continuamente necessaria, perché il sociale rinnova l'esistenziale e l'uno e l'altro liberano l'ecologia da ogni sogno triste o ritornello materno della terra natale incontaminata, così come l'apertura all'alterità minoritaria di tutti gli esseri reinventa il sociale e l'esistenziale e viene costantemente inventata da loro. Le tre ecologie hanno un principio comune: i territori con i quali ci mettono a confronto non sono mai dati in sé, una volta per tutte, ma sono sempre in una condizione precaria, indefinita. Possono soggiacere all'ordine mortifero delle reiterazioni bloccate o entrare in nuovi processi inventivi.

Sembra di capire, comunque, che questa triplicità implichi per lei un superamento delle polarità classiche, delle dicotomie, delle opposizioni semplici e di tutte le loro sintesi possibili...

I vecchi antagonismi devono essere ri-orientati, attraverso un lavorio interno. Lo sfruttamento di classe, ad esempio, sussiste, è innegabile. Ma le vecchie forme di lotta sindacale mirano ancora troppo spesso al reinserimento in un sistema produttivo di cui non mettono in discussione le conseguenze. In maniera opposta, e corrispondente, il vecchio ambientalismo cerca di salvaguardare la natura sottovalutando i problemi sociali. L'ecosofia ha invece il compito di rendere possibili le  nuove socialità e insieme i loro nuovi ambienti: di combattere le oppressioni favorendo nuove forme di desiderio, e un nuovo sistema di valori. L'ecosofia combatte uno sfruttamento che è sempre, al tempo stesso, dell'uomo e della natura, e un inquinamento che è sempre anche mentale e sociale, che distrugge il pianeta mentre genera un'umanità regressiva.

Lei ha individuato una volta tre fattori che permetterebbero di liberarci dal pessimismo fatalista: la possibilità di brusche e inevitabili prese di coscienza da parte delle masse; il crollo dello stalinismo, che lascia spazio ad altre forme di trasformazione e di lotta; la trasformazione dei processi lavorativi, che diventano sempre più instabili e creativi, implicando i più diversi trasferimenti di competenze, la formazione continua ecc. Ma perché dovremmo avere fiducia nelle masse, che sono appunto un prodotto del sistema? E poi: quest'uscita dal fatalismo non si basa, ancora una volta, sul sogno che il sistema stesso produca le possibilità del suo superamento? Non si ripropone, ancora in questi termini, un certo mito determinista, una vecchia speranza del marxismo di scuola?

Niente affatto! Ho indicato, ed era il 1989, tre fattori che non andrebbero trascurati, tre fattori direi ancora evidenti, seppure con le dovute variazioni. Il che però non significa che combinandoli tutto si produca, come per magia. Si tratta piuttosto, su questa base, di iniziare un lavoro attento e minuzioso. Per quanto riguarda le masse, in particolare: le pulsioni pericolose sono sempre presenti, ma non credo che la censura sia il rimedio. Mi spiego guardando ad esempio alla filosofia francese di oggi, che è un campo di piccole battaglie private: lo spettacolo, si capisce, può diventare noioso, ma in ogni caso ex amici e compagni maoisti, pentiti o meno, si scontrano sulla questione delle masse e dell'universale. Qualcuno di loro, che quarant'anni fa era appunto partito dal libretto rosso, sembra finalmente approdato, più o meno, alle posizioni di Le Bon. Le immagini della foule dangereuse ritornano vivide. Credo che non ci sia nulla da deplorare e che bisogna invece raccogliere la sfida. Da parte mia, nel libro sulle Tre ecologie ho suggerito di sostituire la proibizione e la censura, sempre controproducenti, con una pratica di spostamento delle pulsioni regressive o razziste. Ho parlato di un loro transfert possibile o di una loro riconversione anche umoristica, e ho ricordato a proposito il grande esempio Roland Topor. In realtà questa via era stata già suggerita da un grande filosofo della massa, nel 1936. Mi riferisco a Walter Benjamin, e alla sua idea che i primi filmati di Disney o certi film hollywoodiani potessero produrre una sorta “vaccinazione psichica” collettiva: lo sviluppo forzato delle fantasie sadiche o delle fissazioni masochistiche nelle immagini mirabolanti dei cartoni animati, ad esempio, poteva evitare la loro pericolosa maturazione nelle masse.  “I film grotteschi americani e i film di Disney – ha scritto dunque Benjamin – provocano una disintegrazione terapeutica dell'inconscio”. È qualcosa di molto vicino all'ecologia mentale che propongo io, e non si tratta affatto di una miracolosa sublimazione, ma di una strategia di trasferimento mirata. Non si tratta di un ottimismo cieco. Lo stesso Benjamin sottolineava infatti che bisogna considerare anche l'altro aspetto del problema, e cioè l'induzione di un'abitudine alla violenza, la tendenza ad accettare tranquillamente la bestialità che gli stessi filmati di Mickey Mouse presentavano come un fenomeno concomitante dell'esistenza. Anche questa tendenza, spiegava ancora Benjamin, è un segno della facilità con cui il fascismo si appropria delle invenzioni cosiddette “rivoluzionarie”. È chiaro che il discorso ci riguarda da vicino, e riguarda in forma eclatante il mondo delle pubblicità, e comunque l'intera massa di immagini in movimento che ci investono quotidianamente. Di fronte a difficoltà e a rischi del genere è necessario perciò attivare, insieme alle strategie di spostamento, una attenta opera di ricostruzione dei dispostivi  messi in opera dal Capitalismo Mondiale Integrato, un'analisi che distingua le maniere e misuri le capacità di rimettere continuamente in gioco messaggi più o meno implicitamente violenti e razzisti. Occorre in altre parole collegare la dislocazione umoristica e la vaccinazione all'analisi dei dispositivi e questa analisi alle pratiche di soggettivazione, cioè alle esperienze alternative incentrate sul rispetto e l'invenzione continua delle singolarità. Ogni ecologia, ora si vede bene, comporta dunque un'ecologia mentale delle masse che è a sua volta un'ecologia sociale.
Lo ripeto: occorre affermare in ogni campo questa triplicità, che implica un superamento dei sistemi binari e delle polarità classiche, delle opposizioni e di tutte le loro sintesi possibili. E la costruzione di nuovi ambienti non è che il superamento degli schemi della famiglia, dell'io, l'apertura a nuove formazioni sociali... non quindi c'è alcun miracolo, e nessun trito determinismo (che se c'è poi stato nei marxisti di scuola non c'è affatto in Marx). È invece necessario un compito di analisi minuziosa, di vigilanza e sensibilità straordinarie.

Lei, se non sbaglio, ha indicato di recente in Kafka l'esempio di un'attenzione simile.

È vero. Kafka è il maestro. Kafka ha scoperto una pratica di scrittura, ha inventato nuove soggettività nella scrittura e una nuova soggettività di scrittore a partire dalla minuziosa trascrizione dei propri sogni. Si è liberato pertanto dalle trappole della psicoanalisi, che già conosceva. Proprio dove tutto il lavoro onirico si richiude per l'analista negli schemi predefiniti dei narcisismi o di altri complessi famosi, dove l'analista vede dei punti di opacità e di assurdità insuperabile, che tende ad evitare, lì per Kafka tutto si apre. Rinvenire, in ogni sogno, i minimi spunti di singolarità e metterli al lavoro per produrre una soggettività mutante, non più edipica, non più narcisistica, che dal sogno si muove nella scrittura. Il lapsus, l'incidente, il cattivo risveglio, non rientreranno ora nei sintomi  classici ma daranno luogo a una produzione continua, confluiranno e rivivranno in una letteratura in tutto e per tutto onirica,  in una sfera,  non psicopatologica e tantomeno normalizzata, che è “una realtà poetica in sé”, come diceva Bruno Schulz. Questo è il sonnambulismo felice di Kafka.

Un sonnambulo... come ce ne sono in Tarde.

Come ce ne sono soltanto in Tarde, nella sua società di sonnambuli: un imitatore-inventore-sonnambulo, che aggancia i sogni alla scrittura e la scrittura ai sogni. L'esempio di Kafka ha delle implicazioni eccezionali. E ha molto da dire anche a proposito dei temi a cui accennavo prima: è davvero un contributo all'ecologia psichica, e alla proliferazione delle individualità irriducibili, è una figura ammirevole e singolare che emerge nello stesso dominio dei dispositivi di burocratizzazione, dunque dove dovrebbe esserci solo una massa standardizzata, retriva e malleabile, manipolabile dai media. Una singolarità che (trascrivendo, cioè imitando e differenziando i sogni) si sottrae alle ripetizioni vuote (di un certo freudismo schematico), indifferenziate, dunque ai grandi aggregati immaginari della folla.

Non tutto però è letteratura, e un'ultima domanda riguarda il compito degli architetti e degli urbanisti. Pensare e costruire un oikos che sia degno della triplicità da lei indicata non sembra forse impossibile, ma non sembra neanche la cosa facile e immediata.

I modelli di nuova socializzazione, le nuove ecologie dell'eros hanno avuto spesso, come sappiamo, una precisa determinazione spaziale e la loro definizione è stata la definizione di una forma architettonica... ma anche qui non bisogna accontentarsi degli esempi della storia. Le ripetizioni nostalgiche vanno evitate. E anche in questo caso rovesciamenti improvvisi sono sempre possibili e le utopie possono disporsi facilmente al peggio. Non è il caso di dilungarsi su questo. Insisto invece sul fatto che l'ecologia non può essere oggi solo difensiva. Forse non avrebbe dovuto mai esserlo, ma oggi è in ogni caso troppo tardi. Si tratta invece di riparare le distruzioni che sono state e che vengono continuamente perpetrate. Occorre intraprendere un'offensiva, dicevo una volta, per ripristinare il polmone amazzonico, per far arretrare il Sahara. In questo senso l'architetto o l'urbanista possono impegnarsi. Se la natura non ha nulla di originario, se non possiamo tornare nostalgicamente alla nostra cara, e fantastica, terra materna, la tecnica non ha in sé nulla di malefico. L'architettura, l'urbanistica, rientrano così nell'impresa dell'ecosofia in quanto sperimentazione di contesti tecnico-scientifici irriducibili alle semiotiche di sfruttamento del CMI. L'urbanistica è un buon esempio di prassi ecologica non soltanto difensiva, ed è un buon esempio di tecnica che dovrebbe soprattutto riferirsi alla combinazione, dominare gli adattamenti tra le tre sfere. Che sia capace di unire il sociale e l'ambientale sembra facile immaginarlo, e d'altra parte così è sempre stato, anche nel peggio. Al tempo stesso, però, deve svelare il suo aspetto legato all'ecologia mentale. Proprio la tecnica urbanistica, proprio il contesto tecnico-scientifico denominato urbanistica può aprirsi all'ecosofia se diventa il campo di una nuova, grande e attenta impresa di valorizzazione. Dunque analisi dell'ambiente e dei rapporti del sociale e dell'ambientale che sia invenzione di nuovi valori e di qualità irriducibili agli standard imposti dal capitale. La contestazione efficace dei vecchi standard distruttivi e inquinanti è possibile solo attraverso un'opera di produzione e la scoperta continua di valori ecosofici antagonisti. Se, ad esempio, dal punto di vista più strettamente politico e sociale non si tratta di rivendicare un reddito come mezzo di reinserimento nel lavoro, ma come diritto inalienabile, così per gli architetti non si tratta ovviamente di limitarsi ai piccoli contentini ecologici utili alla produzione dominante, né di riprodurre, nelle logiche specifiche del progetto, le ideologie del vecchio ecologismo. L'atteggiamento ecosofico concepisce ogni spazio come spazio singolare e la tecnica architettonica e urbanistica come saperi che sono in grado di rivendicare queste singolarità e prima ancora di evidenziarle, di scoprirle, indicarle agli altri, ossia di renderle possibili.
L'urbanista non deve mascherarsi da vecchio ecologista e accontentarsi del piccolo villaggio eco-sostenibile, ma può invece interrogare questa stessa sostenibilità, rivendicare una singolarità che rientri nelle sue maglie, considerare il proprio privilegio: quello di muoversi e di operare in un ambiente altamente tecnicizzato, e di entrare in contatto con un ambiente che non lo è ancora. Se certo non si tratta più di urbanizzare la campagna non si tratta neanche del contrario. L'ecosofia comporta invece un'architettura inventiva e imprevedibile.
Per questo, però, è necessaria un'opera costante di auto-critica, e di analisi dei dispositivi che operano nell'urbanistica stessa. Non è un caso se le istituzioni universitarie hanno sovente messo in disparte gli insegnamenti di teoria dell'urbanistica, che più di quelli di storia erano pronti a recepire gli insegnamenti di Foucault, di Virilio, ed erano i luoghi in cui, nell'istituzione stessa, si potevano aprire nuove prospettive di micrologia geopolitica. Certo, non bisogna rimpiangere nulla, ma dobbiamo ugualmente considerare che l'architettura, anche nella sua migliore tradizione progressista, è stata un medium principale dell'affermazione dell'equivalente generale e dei suoi standard (Existenz-minimum, Modulor, confort igienista, casa medicalizzata e via dicendo). Così anche oggi occorre operare delle distinzioni, e riconoscere per esempio che l'ecosofia non sarà mai securitaria, mentre l'urbanistica ecologica può esserlo facilmente.
La nuova valorizzazione, la ri-singolarizzazione di tutto ciò che l'urbanistica stessa ha riformato passa, per l'urbanista stesso, attraverso la considerazione critica del proprio operare. D'altra parte l'urbanista è stato un soggetto utile ed ha acquisito per questo un potere discreto e una certa autorevolezza. Egli dispone quindi di molte tecniche e di armi a cui sarà proprio il caso di rinunciare, ma per lo stesso anche di molte tecniche e di molte armi utili all'offensiva di cui parlavo. Dispone di una tradizione e di molti sogni che possono essere trascritti e reinventati aprendo prospettive e linee di fuga dai punti irriducibili, di contrasto e di non senso apparente. L'ecologia mentale, che rinuncia a ogni elezione da funzionario o autorità servile, rispetta pertanto, anzi rivendica e coltiva ogni singolarità tecnica che sia capace di rielaborare o re-inventare gli spazi.
Del resto anche il progetto estetico non è separabile da questo: degli spazi lisci e striati, e dell'eredità di Riegl, delle pagine di Mille piani si è parlato anche troppo. Non voglio fornire ricette. Ripeto però che lo spettro della rivalorizzazione è il più ampio possibile, che le possibilità sono sempre in gioco e sono in gioco negli adattamenti, ossia nelle resistenze e negli attriti. Richiamo un'ultima volta, pensando ancora al mio amico, il nome di Gabriel Tarde, che in Francia è tornato di moda, e invito anche gli urbanisti italiani alla sua lettura.












































































































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